giovedì 30 giugno 2011

LA "POLITICA DEL FARE": NUOVE TASSE SUL MACINATO

Tagli alla Casta solo nei prossimi anni
La benzina aumenta subito. Per tutti

Dal governo via libera alla Manovra. I costi della politica saranno ritoccati, ma non in questa legislatura. Niente l'aumento dell'Iva e dell'età pensionabile per le donne. Intanto gli italiani si ritrovano il salasso-carburanti: più 4 centesimi al litro "per l'emergenza immigrazione"

L'unica certezza per ora sono le cifre. La maggior parte dei provvedimenti contenuti nella manovra (40 miliardi su 47) avrà effetto solo nel biennio 2013-2014. Quasi tutte le novità annunciate nei giorni scorsi, sono state sostanzialmente smentite. A partire dall'aumento delle aliquote Iva. Ma soprattutto i tagli alla Casta, con i nuovi livelli di stipendio in vigore solo dalla prossima legislatura. Giallo sull'aumento del bollo per le auto di grossa cilindrata, come i Suv. Il sottosegretario all'Economia, Luigi Casero, ha fatto marcia indietro in diretta al Tg4. Poi però, in conferenza stampa, il premier ha riparlato di un "piccolo aumento" (leggi l'articolo). Nel frattempo, senza grandi annunci, è entrato in vigore un nuovo balzello sulla benzina. Quattro centesimi in più al litro, con una motivazione: "Sostenere l'emergenza umanitaria in Italia". E non è l'unico aumento ai carburanti, domani ne arriva un altro per sostenere il Fondo unico per lo spettacolo. L'unione petrolifera si dice perplessa e sorpresa per le scelte del ministero di Tremonti (articolo di Mauro Meggiolaro)

Manovra è fatta! Se hai un Suv stai tranquillo, se vuoi i servizi lascia perdere...

La manovra 'lacrime e sangue' ha avuto il via libera del Cdm. Ancora non si conosce il testo definitivo, ma pare che la tassa sui Suv non ci sia più mentre i tagli agli enti locali sì. Quindi, salvi tutti quelli con il macchinone che riempiono le città di Co2 e colpiti milioni di cittadini che vedranno ridursi se non sparire i servizi fondamentali nei territori, già messi a dura prova con i precedenti tagli. Vi aggiorneremo sulla macelleria sociale.


www.controlacrisi.org

mercoledì 29 giugno 2011

La stangata ad orologeria: dalla "finanza creativa" a quella "tardiva"

UNA LEGGE-TRUFFA per galleggiare fino alla fine di questa legislatura. Poi l'abisso, a spese di quelli che verranno.


La manovra che il governo Berlusconi approverà domani in Consiglio dei ministri colpisce non per la sua entità (con la quale soddisfa effettivamente i target quantitativi concordati con la Ue) ma per la sua "slealtà" (con la quale scarica colpevolmente gli impegni qualitativi sui prossimi governi). Questa manovra illude gli italiani, inganna l'Europa e imbroglia i mercati.
Il centrodestra, che ha inventato a suo tempo la "finanza creativa", lancia adesso la "finanza tardiva". La perfida ipocrisia del decreto è racchiusa non tanto nella sua nella sua dimensione economica, ma nella sua scansione temporale. Dei 47 miliardi di sacrifici totali che lo compongono, i pannicelli caldi saranno somministrati nel primo biennio (1,8 miliardi nel 2011 e 5,5 nel 2012). Le lacrime e il sangue, invece, saranno concentrate nel secondo biennio (20 miliardi nel 2013 e altri 20 nel 2014). La frode politica contenuta nell'operazione è chiarissima. Nei due anni che restano alla coalizione Pdl-Lega i contribuenti sentiranno le carezze. Dall'anno successivo, cioè in concomitanza con il ciclo elettorale, patiranno le stangate. Stangate a orologeria, dunque.
La responsabilità del doloroso ma doveroso rientro dal deficit e dal debito pubblico, in altri termini, sarà in carico al futuro governo, perché quello in carica non ne vuole sapere.

E i costi più dolorosi del risanamento dei conti non lo sosterranno i contribuenti che hanno votato per l'alleanza forzaleghista il 13 aprile 2008. Li pagheranno invece le future generazioni, come da collaudata tradizione dei politicanti della Prima Repubblica, abbracciata senza riserve dai replicanti della Seconda.
Nel metodo, alla vigilia del vertice di Palazzo Grazioli la domanda cruciale era: chi vincerà il duello, tra il rigorista Tremonti e il lassista Berlusconi? Alla luce di ciò che vediamo, non ha vinto nessuno dei due contendenti. Ha perso l'Italia. Lo scontro in atto non era tra due irriducibili forze, ma tra due resistibili debolezze. Tremonti - isolato nel governo, privato del sostegno di Bossi e sostenuto solo dalla sponda indiretta di Bruxelles e delle agenzie di rating - ha dimostrato di non avere la forza per mettere alle corde i suoi troppi nemici interni. Berlusconi - azzoppato dagli scandali, fiaccato dall'epistassi della sua piattaforma politica e gravato dal peso del "vincolo esterno" - ha dimostrato di non avere la forza di mandare al tappeto il suo ministro dell'Economia. Il risultato di questo match non poteva che essere un compromesso al ribasso, in perfetto stile doroteo. Nel merito, è vetero-democristiana l'abitudine a infarcire di ipocrisia le manovre a cui manca la fantasia. Due soli esempi: il ripristino dei ticket sulla sanità e il blocco del turn-over nel pubblico impiego.
Non c'è stato governo Andreotti dei fetenti Anni Ottanta che non abbia inserito misure del genere nella sue Finanziarie balneari. Misure che colpiscono i soliti ceti medio-bassi e preferibilmente del pubblico impiego, per altro già ampiamente bastonati dalla Legge di stabilità da 25 miliardi varata l'anno scorso, e notoriamente schierati nell'area elettorale del centrosinistra. La famosa "Italia peggiore" di Brunetta, da colpire senza pietà e senza equità. Per il resto, le norme buone stingono dentro un quadro di incertezza contabile. L'accelerazione degli interventi sulle pensioni è positiva, ma presupporrebbe un intervento contestuale a vantaggio delle prestazioni minime (ormai da fame) e delle prestazioni integrative (ancora da implementare). Il taglio dei costi della politica sarebbe eccellente, se l'operatività degli interventi non fosse (anche in questo caso) rimandata nel tempo, come nel caso della riduzione degli stipendi dei parlamentari (ma solo a valere dalle prossime elezioni) o della limitazione delle auto blu (ma solo ad esaurimento del parco macchine attualmente in circolazione).
Come si raggiungeranno i 47 miliardi nel quadriennio? Il capitolo della previdenza, quello della sanità, e quello dei ministeri, dovrebbero valere grosso modo 6 miliardi ciascuno. Il totale fa 18. Da dove arriveranno gli altri 29? È un mistero. Dal mistero alla beffa: che dire dell'ulteriore colpo di scure su una scuola già distrutta, con l'accorpamento delle cattedre e il dimezzamento dei docenti di sostegno? E dalla beffa alla farsa: che dire dell'ennesima norma sulle liberalizzazioni? Si prevede un "accesso più facile al settore delle professioni", ma esclusi "i notai, gli architetti, gli ingegneri, i farmacisti e gli avvocati". Non si capisce quali professioni restino, tra quelle da liberalizzare: salvata la rendita delle corporazioni più potenti, il governo aggredirà forse quella dei barbieri, degli idraulici, dei fisioterapisti.
Su queste basi, la legge delega sul fisco non promette niente di buono. E su queste basi, non è affatto certo che le "locuste della speculazione", invece di essere confortate, non si sentano autorizzate ad aggredire questa povera Italia, fragile nell'economia e irresponsabile nella politica. Del resto, a dispetto degli allarmi e dei penultimatum, questa manovra non è che l'ultimo "test", per verificare se la crisi di governo si apre subito e si va a votare in autunno. Il compromesso doroteo implicito in questa legge-truffa consente al Cavaliere di resistere, almeno fino al 2012. Se poi sul Paese si scatena il diluvio, poco male. Saranno problemi del centrosinistra, se vincerà le elezioni. Perché devo fare qualcosa per i posteri? Cosa hanno fatto questi posteri per me? Un tempo era il motto di Groucho Marx. Oggi è la regola di Silvio Berlusconi.
di MASSIMO GIANNINI, La repubblica

O che bel porcellum (confederale)

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E’ nato un porcellino confederale, anzi, un porcellum sindacale. E’ proprio vero che il porcellum non è solo una legge elettorale, ma un sistema di pensiero: un cancro che si è impossessato dell’Italia, una ideologia che seduce le classi dirigenti di destra e sinistra nei tempi di crisi, una scorciatoia per liberarsi di quel fastidioso problema che si chiama democrazia.
E’ in arrivo la bufera delle finanziarie tagliatutto? Va deciso se sottoscrivere o meno accordi infami? Il governo ti punta la pistola alla tempia? La risposta dei dinosauri del sindacalismo corporativo e para-aziendale è semplice (e a suo modo persino geniale): inventiamoci un trucchetto per cui, se siamo d’accordo tra di noi, la gente non possa più votare contro di noi. Facciamo un accordicchio per cui, se si mette insieme il 50% dei dirigenti dei sindacati su un contratto poi si impedisce per legge ai lavoratori di esprimersi per dire cosa pensino di quell’accordo. Incredibile ma vero, è questo il meraviglioso patto firmato fra Confindustria Cgil-Cisl e Uil.

Malgrado molti giornali ne occultino il senso, il compromesso che in queste ore è definito “una rivoluzione” è tutto qui. Anzi, c’è di peggio. Una volta che i sindacati non più sottoposti a nessuna verifica hanno firmato un accordo contro il tuo volere, tu – il lavoratore – non puoi più scioperare. Per definire questo pastrocchio si sono inventati un bellissimo eufemismo: “Clausola di tregua”. Esempio: la tua impresa propone un contratto osceno, ti chiedono di lavorare tutti i giorni, anche se sei malato, pena la decurtazione del salario (non è fantascienza, in alcuni accordi è già così). Tu sei contrario. il 51% della burocrazja sindacale invece è favorevole, e ti spiega: è il miglior contratto possibile. Sanno che la devi mandare giù perché il sindacal-porcellum gli garantisce che non ci saranno consultazioni. Però nella tua azienda la situazione precipita, aumentano gli infortuni. Immaginate che gli stessi iscritti dei sindacati che hanno firmato l’accordo, non avendo altri strumenti, debbano scioperare perché le condizioni di lavoro si fanno insostenibili. A questo punto l’imprenditore risolve il problema dei porcellini confederali provando a licenziare chi ha scioperato (ha violato la “clausola di tregua”, no?).
Che sindacati ormai tesi al fiancheggiamento stabile del governo reputino questa soluzione non solo sostenibile, ma persino auspicabile, non stupisce. Ma la domanda è: che diavolo ci guadagna Susanna Camusso? L’idea che la segretaria della Cgil non solo abbia voluto, ma addirittura cercato laccordo è tanto preoccupante quanto vera. Una ratio però c’è. La Marcegaglia sogna di offrire questo patto a Marchionne per recuperare lo scisma a destra della Fiat; la segretaria della Cgil per domare lo scisma a sinistra della Fiom. Con un anacronismo supefacente nei giorni in cui la vittoria dei referendum esalta la democrazia diretta come l’arma in più della sinistra sulla destra. Partita con l’idea di tornare protagonista grazie al porcellum, con il no della Fiom la Camusso rischia di perdersi per strada due cose: o i suoi iscritti, o la più forte delle sue organizzazioni. Quella, cioè, che proprio sul terreno dei referendum alla Fiat ha dimostrato di avere più consensi delle sue tessere.

di Luca Telese, www.lucatelese.it

Il golpe contro il lavoro

Non ci sono altri termini per definire quello che è avvenuto ieri: un golpe. Silenzioso, “concertato”, senza spargimento di sangue (per ora). Ma un golpe.
Quello firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, infatti, non è un accordo come tanti altri. Cambia in radice la natura delle relazioni industriali in questo paese, i rapporti tra imprenditori e lavoratori; insomma il fondamento della lotta fra classi sociali con interessi differenti e divergenti.
In estrema sintesi, il dispositivo che presto il ministro anti-lavoro Maurizio Sacconi tramuterà in legge stabilisce che esistono soltanto tre organizzazioni titolate a “rappresentare” i lavoratori e a firmare contratti; che i contratti nazionali non decidono quasi nulla, mentre quelli aziendali tutto; che i lavoratori non possono votare mai – in pratica – per approvare o bocciare gli accordi che fissano le condizioni di lavoro e salariali che dovranno subire, né per scegliere i propri delegati di fiducia.
Come dice con drammatica sintesi Gianni Rinaldini, “non sottoporsi al voto e al giudizio dei lavoratori vuol dire affermare il concetto che i contratti sono proprietà delle organizzazioni sindacali, e non fanno capo all'espressione della volontà dei soggetti interessati”. E' il punto decisivo, da cui dipende tutto. Si ripristina insomma il cuore del sistema corporativo fascista, quello per cui – visto che non viene ammessa una differenza di interessi concreti tra impresa e lavoratore – i “dipendenti” non hanno alcun diritto di parola su organizzazione del lavoro, salario, ritmi, inquadramento professionale, turni, straordinari, e qualsiasi altro tema decisivo.
I “sindacati ammessi”, in questa cornice, “rappresentano” i lavoratori meno di un avvocato d'ufficio in tribunale. Non esiste più alcuna continuità di interessi materiali tra chi effettua la prestazione lavorativa e chi ne gestisce la contrattazione.
Ma c'è di più. Non è più ammesso che i lavoratori possano scegliere un “rappresentante” diverso o autonomamente organizzarsi per crearlo. Chiarissime le spiegazioni fornite dal comunicato Usb sulla “soglia di sbarramento” e la “certificazione degli iscritti”, con cui il compito decisivo di stabilire “chi” effettivamente “rappresenta” qualcosa è attribuito alle stesse imprese. Le conseguenze pratiche sono abbastanza chiare, afferma chi ha ormai una esperienza ultratrentennale di sindacato conflittuale: “è prevedibile che si darà vita a un mercato del tesseramento, teso a favorire le organizzazioni più disponibili a certi accordi. Non mi sorprenderebbe che arrivassero pacchi di iscritti a questa o quell'organizzazione. Sta nelle cose”.
In questo sistema “l'iscrizione” a un “sindacato” cessa di essere – per principio legale – una scelta libera del singolo e diventa merce di scambio tra impresa e “sindacato complice”. Finisce persino l'epoca in cui ci si poteva iscrivere a un sindacato “giallo” nella speranza – o nella certezza – di ottenere qualche vantaggio sul posto di lavoro (turni, straordinari, favoritismi vari, ecc). Dal punto di vista del singolo lavoratore, infatti, la mancata iscrizione a uno dei tre Moloch “sindacali” diventa un rischio, un sospetto di opposizione morale, un dissenso potenziale. Si è spinti a iscriversi per non essere eventualmente discriminati. Il sistema corporativo fascista è esattamente questo: avere la tessera per mettersi al riparo, lasciar scambiare il proprio silenzio per un assenso al regime. Perché di regime si deve parlare.
Può sorprendere l'osservatore superficiale che Susanna Camusso abbia firmato, obbligando così la Cgil a piegarsi o a sfiduciarla. La craxiana espulsa alla fine degli anni '90 insieme a Gaetano Sateriale dalla Fiom di Paolo Sabattini (“per manifesta incapacità sul campo” fu dichiarato, perché sembrava poco onorevole per tutti indicare la vera ragione: “intelligenza con la controparte”, anche in quel caso, e non per caso, la Fiat), aveva già allora dimostrato di essere tutt'altro che un sindacalista.
Ma la selezione del personale dirigente, all'interno di una grande organizzazione sociale, non avviene mai per caso. La logica della “concertazione” ha fatto il suo fetente lavoro. Sono state potenti, in questi anni, le spinte all'emarginazione dei sindacalisti “puri” da parte di quelli “politici”. La cui carriera è orientata da un partito – il Pd, in genere.
Sta di fatto che il quadro istituzionale dell'attività sindacale ora è definitivamente mutato. Vale per il sindacato di base, da sempre in lotta per l'emersione a soggetto unitario di dimensioni nazionali. Ma vale anche per la Fiom e quel che c'è di opposizione autentica all'interno della Cgil.
Contro questa componente è scontato prevedere un attacco frontale continuo, uno stillicidio di espulsioni, ritiro di deleghe e “licenziamenti” (funzionari rispediti nell'azienda di provenienza, se pure esiste ancora). Già da qualche mese ci sono stati i primi casi e altre avvisaglie.
Mentre sul fronte teoricamente opposto le aziende pretenderanno di negare i permessi sindacali e il ritiro delle quote in busta paga ai “non firmatari di contratto” o di accordo (vale per la Fiom, ma al momento anche per pubblico impiego, scuola, università e ricerca, commercio).
In un sistema corporativo fascista non è possibile esser riconosciuti come “componente” libera di giocare per la conquista della maggioranza. Al massimo, come avveniva nel ventennio, si può restare “clandestini” a coltivare la relazione con i lavoratori. Ma per i delegati che si sono schierati “a sinistra” fin qui nel conflitto interno alla Cgil, non c'è nemmeno questa possibilità.
Il problema riguarda però anche i movimenti che fin qui hanno accompagnato, con diversi gradi di partecipazione e consapevolezza, le mobilitazioni del sindacato di base come della Fiom, che hanno dato vita a forme di autorganizzazione dei precari come alle prime forme di “sindacato metropolitano”.
La svolta del “28 giugno” obbliga tutti a misurarsi immediatamente con la nuova situazione.L'illusione che ogni componente dell'opposizione di classe possa intanto sopravvivere da sola, ben chiusa nelle proprie convinzioni, riti, tematiche, è per l'appunto un'illusione.
Siamo nel vortice di una crisi globale che sta per aumentare di intensità. Nessuno potrà resistere se resta “un'isola”. Il messaggio che arriva dall'attacco militare alla Val di Susa spiega fin nei dettagli anche questo.
di Dante Barontini, www.contropiano.org

"E' il suicidio del sindacato." - Intervista a Gianni Rinaldini

Gianni Rinaldini: l'«avviso comune» cancella il diritto di voto dei lavoratori.Il coordinatore de «La Cgil che vogliamo» boccia senza appello metodo e merito dell'accordo con Cisl, Uil e Confindustria sulla rappresentanza e i contratti
«Lunare e imbarazzante». Per Gianni Rinaldini, 8 anni da segretario generale della Fiom, ora coordinatore dell'area «La Cgil che vogliamo» e membro del Direttivo nazionale di Corso Italia, la discussione che va avanti tra Confindustria e i sindacati è fotografata da questi due aggettivi. Che valgono però anche per il dibattito interno alla Cgil.
Sembra abbiano firmato l'accordo...
È la conferma delle voci che dicevano che il testo c'era già. Non è credibile che, in una trattativa così complicata, abbiano fatto tutto nel giro di poche ore.
Si apre un problema nella Cgil?
Non è stato presentato nessun testo scritto. Al tavolo non c'era neppure una «delegazione trattante». Han fatto tutto in due o tre della segreteria. Una roba inaccettabile nella vita interna della Cgil. Non c'è stato nemmeno un «ufficio» ad affiancare, come si fa di solito, con i segretari di categoria. Nei miei ricordi, trattative così delicate e importanti vedevano la Direzione della Cgil (ora non c'è più) convocata in seduta permanente e in continuo contatto con la delegazione al tavolo. Viene siglato o firmato un accordo assolutamente misterioso per i segretari generali di categoria e il coordinatore di un'area nazionale della Cgil. Di fatto il Direttivo sarà messo nelle condizioni votare una sorta di «fiducia» alla segretaria. Sì, esiste ormai un problema di democrazia nella vita interna della Cgil.
Non si è discusso abbastanza?
Con il meccanismo sviluppatosi purtroppo negli ultimi anni, ogni votazione del comitato direttivo si configura alla fine come un voto di fiducia sul segretario generale. Pensando in questo modo di annullare l'articolazione del dibattito esistente. Stavolta non mi sorprenderei che qualcuno, rientrato recentemente in Cgil come coordinatore della segreteria del segretario generale, dopo aver svolto a lungo ruoli amministrativi (Gaetano Sateriale, ndr), abbia in questi giorni lavorato alla definizione del testo.
Cosa sai sul merito dell'accordo?
E' riassumibile in un aspetto centrale decisivo, da cui discende tutto il resto: lavoratori e lavoratrici non sono chiamati a votare le piattaforme e gli accordi che li riguardano. Il meccanismo individuato prevede che attraverso la «certificazione» (un mix tra iscritti e voti alle rsu) le organizzazioni che superano il «50%+1» possono fare accordi che diventano immediatamente esecutivi. Questo è devastante. Perché nega la democrazia, che assieme al conflitto è l'unico strumento a disposizione dei lavoratori per intervenire sulla propria condizione. E inquina fortemente gli stessi tavoli di trattativa, perché quando ci si parla tra soggetti sociali espressione di interessi diversi, non si è in un club di amici. È prevedibile che si darà vita a un mercato del tesseramento, teso a favorire le organizzazioni più disponibili a certi accordi. Non mi sorprenderebbe che arrivassero pacchi di iscritti a questa o quell'organizzazione. Sta nelle cose.
Qual'è il punto di principio?
Non sottoporsi al voto e al giudizio dei lavoratori vuol dire affermare il concetto che i contratti sono proprietà delle organizzazioni sindacali, e non fanno capo all'espressione della volontà dei soggetti interessati. Non era mai avvenuto che la Cgil istituzionalizzasse in un accordo che questi sono validi senza il pronunciamento dei lavoratori. Tutt'al più, in questi anni, si è discusso sulle forme della consultazione. Faccio presente che gli accordi separati dei metalmeccanici, nel 2001 e 2003, avvennero proprio sul referendum tra i lavoratori a fronte di posizioni diverse. In ambedue i casi, Fiom e Cgil decisero congiuntamente.
Che fine fanno le RSU?
A livello aziendale, lì dove ci sono le RSU, queste decidono senza il voto dei lavoratori; dove ci sono le RSA, i lavoratori possono votare il loro contratto. Inoltre, sulle deroghe, c'è una questione che non ho capito o che è inaccettabile: invece di «deroghe» di parla di «adattabilità» a livello aziendale. È anche peggio delle «deroghe definite».
E sul diritto di sciopero?
Anche qui. o non ho capito bene oppure è inaccettabile: si parla genericamente di possibilità di una «tregua», che in termini sindacali non può che voler dire tregua sugli scioperi. La clausola della Fiat, insomma. Ma la Cgil non ha mai firmato limiti all'esercizio del diritto di sciopero. E mi domando: se si accettano questi criteri in una trattativa con le aziende private, non credo si possano affermare cose diverse nel corso di una trattativa interconfederale col governo. Penso che questa operazione sia il suicidio della Cgil.
Ma perché la Cgil si va a suicidare?
Non vorrei che fosse per le cosiddette «ragioni politiche»... Una divisione sindacale può creare problemi a partiti che in tutti questi anni si sono limitati a dire «fate l'unità», per evitare di pronunciarsi sul merito. Poi c'è l'idea folle per cui, in questo modo, si creerebbe un rapporto «dinamico» nei confronti del governo «tra le forze sociali», con Confindustria. E questo alla vigilia di una manovra economica in cui il contributo di Confindustria è chiedere sia ancora più pesante nei confronti di lavoratori e pensionati...
In queste condizioni, com'è possibile fare opposizione al la manovra?
La Cgil non potrà che decidere le necessarie iniziative di lotta contro la manovra. Sarà difficile spiegare che un accordo che annulla la democrazia dei lavoratori sia un elemento che rafforza le iniziative contro il governo.
Se la democrazia sta così, anche in Cgil, come si cambiano le cose?
Siamo di fronte a una questione enorme. Abbiamo già convocato l'assemblea dell'area congressuale per il 13 luglio (dopo il Direttivo dell'11- 12), lì decideremo le iniziative conseguenti. È incredibile, con quello che è successo in altri paesi europei e in Italia - il voto di amministrative e referendum, il crescere di forti movimenti fondati sulla richiesta di partecipazione e democrazia - la Cgil non trovi di meglio che negare a chi lavora un diritto democratico fondamentale. Con l'evidente rischio di complicare tutti i rapporti con tutti i movimenti che ci sono nel paese, a partire da studenti, precari, diverse forme di autorganizzazione e inziative. Ed è ora di dire che il «patto di stabilità» europeo va assolutamente cambiato.
In quale direzione?
Questo è un patto tutto finalizzato alla stabilità monetaria, senza alcuna politica: sociale, sull'ambiente, sull'armonizzazione fiscale. Niente. Alla fine l'Europa si presenta solo con la faccia dei vincoli monetari.
di ROCCO DI MICHELE - IL MANIFESTO del 29 GIUGNO 2011

martedì 28 giugno 2011

Tav: riecco il regime bipartisan

Eccole di nuovo, puntuali come sempre, ecco che su la Tav si scatenano l’informazione e la propaganda di regime. Quelle stesse che abbiamo visto all’epoca dei referendum-ricatto di Marchionne a Pomigliano e Mirafiori.

Oggi come allora c’è il partito unico del progresso e degli affari, che va dal Pd fino alla Lega, e il sistema unico dell’informazione, che va da Repubblica fino al Giornale, dalla Rai fino a La7, tutto passando naturalmente per il Pdl e Berlusconi.

Tutti costoro sostengono la stessa unica tesi: da un lato ci sono il progresso, lo sviluppo, ci sono i giusti affari, dall’altro c’è la resistenza conservatrice di piccole minoranze, a volte anche violente perché urlano troppo.

Solo poche settimane fa la vittoria ai referendum ci aveva fatto pensare e sperare che la priorità data ai beni comuni, all’ambiente, alle esigenze dei cittadini e delle persone rispetto al mercato e agli affari, fosse diventato un patrimonio di tutto il paese. Abbiamo capito che non è così.

Ancora una volta sulla Tav non c’è argomento di merito, non c’è tentativo di capire le ragioni di chi si oppone. C’è solo, come per la Fiat, una subalterna, incondizionata acritica adesione alle tesi di chi sostiene, senza dimostrarlo, che così si fa il bene di tutti. Così la devastazione del territorio passa in secondo piano, viene trattata come la richiesta dei lavoratori Fiat di avere tempi di lavoro più umani e di essere rispettati come persone, anche dentro la fabbrica. Cosa c’entra tutto questo con le esigenze della globalizzazione e dell’Europa? Siamo sempre qui.

Pensavamo di esserci liberati, pensavamo di aver cominciato un processo di liberazione del paese da tutti i regimi, con questo anno di lotte e con le votazioni che lo hanno rappresentato. Invece siamo solo ancora all’inizio, saremo davvero liberi quando avremo sconfitto non solo Berlusconi ma anche quel regime a pensiero unico che unisce il 90% dello schieramento politico e dell’informazione in vuote formulette e che coprono operazioni autoritarie. E saremo liberi anche perché con il popolo della Valle Susa, così come con i lavoratori della Fiat che dicono no a Marchionne, non stanno piccole minoranze, ma milioni di persone che vogliono davvero cambiare il paese e che sono arcistufe di farsi rappresentare ancora da questo partito unico del progresso e degli affari.

Giorgio Cremaschi,

Presidente CC FIOM

Ma perchè parla?

Rotondi dice no ai tagli dei privilegi
“La gente ci detesta, difendiamo la Casta”

Il ministro per l'Attuazione del programma, intervistato da Libero, si scaglia contro Tremonti e a Berlusconi suggerisce: se vuole far durare il governo deve coccolare i parlamentari

“Dobbiamo coccolare i parlamentari; se un giorno gli si dice che vanno dimezzati, il giorno dopo che gli si taglia lo stipendio, quello successivo l’auto blu, significa voler proprio far cadere il governo”. Il ministro Gianfranco Rotondi è contrario ai tagli dei privilegi a deputati e senatori. Anzi. I privilegi, dice, vanno tutelati. “Tanto, più impopolari di così”.

Il ministro per l’Attuazione del programma si arruola nell’esercito nemico di Giulio Tremonti. “Le misure contro i privilegi della politica le considero un insulto alla sua intelligenza”, dice. E suggerisce una ricetta tutta sua. “Forte del fatto che nessuno, neanche all’opposizione, vuole andare al voto, Berlusconi deve avere un’unica preoccupazione: coltivare i rapporti con Camera e Senato”. Come? “Teniamoci buoni i mille parlamentari”, dice Rotondi in un’intervista a Libero. “Non possiamo dargli l’aumento, ma almeno coccoliamoli, rassicuriamoli, non rompiamogli le palle se vogliamo arrivare al termine della legislatura. E nel frattempo cerchiamo di farci dimenticare. Perché, inutile negarlo, la gente ormai ci detesta”.

Secondo Rotondi, dunque, cosi il governo può arrivare alla sua scadenza naturale del 2013. Altrimenti rischia. “Se uno un giorno dice a deputati e senatori che vanno dimezzati, il giorno dopo che taglia loro gli stipendi, quello successivo che gli toglie l’auto blu, allora è un kamikaze, significa che vuole proprio farlo cadere questo governo”.

Una difesa della Casta. “Più impopolari di così. Il deputato oggi è uno sputtanato che va per la pagnotta, questo è il giudizio che ci siamo cuciti addosso, per merito dei comici, delle trasmissioni tv”, secondo Rotondi. Non per merito dei parlamentari. “Un tempo si accusava i politici di rubare, oggi gli si rimprovera solo di avere dei privilegi previsti dalla legge. Ma attenzione. Questa furia antipolitica finisce per essere antiparlamentare. e il Parlamento è come la salute: ti rendi conto che è importante solo quando non ce l’hai più”, dice Rotondi.

Insomma una sorta di requiem al governo. E al premier Rotondi suggerisce di tornare allo spirito di una volta tanto “deve rassegnarsi al fatto che in diciotto mesi non può fare le riforme istituzionali, né la riforma della giustizia e neppure quella fiscale. Al massimo si può far approdare qualche legge in Parlamento”.

di redazione del Fatto quotidiano

L’incubo federalismo nelle tasche degli italiani

Con l'approvazione del provvedimento voluto dalla Lega, gli enti locali hanno cominciato a battere cassa per recuperare i mancati trasferimenti dal governo centrale. Risultato, una raffica di aumenti sulle imposte locali, nonostante le promesse elettorali

Addizionale sulla Rc auto in aumento per 29 province fino alla soglia massima del 16%, l’omologa Irpef in crescita, +0,2% per due anni, in almeno 50 comuni con l’elenco destinato probabilmente ad allungarsi. Bastano questi esempi per alimentare l’allarme sempre più concreto lanciato oggi dalle colonne del Sole 24 Ore. In sintesi: gli enti locali battono cassa mentre il federalismo fiscale si scopre debole quanto la sua retorica. Alla faccia di quella visione che la vorrebbe panacea delle sofferenze contabili, la tanto celebrata devolution fiscale si sta traducendo in un salasso aggiuntivo quanto imprevisto (almeno a prendere per buoni i proclami governativi) per circa 10 milioni di italiani. Per i quali la tassazione viaggia inesorabilmente verso nuovi aumenti.

Il federalismo fiscale come strumento irrinunciabile per la riduzione delle tasse. Per la Lega è il leitmotiv di una vita, il fulcro di una retorica “efficientista” da “padroni in casa nostra” (sic) secondo la quale la devolution delle imposte dovrebbe garantire la permanenza delle risorse sul territorio, la riduzione degli sprechi e lo sgravio generalizzato delle imposte caricate sui cittadini. Un principio nemmeno sbagliato, in teoria, che disgraziatamente, però, si sta rivelando per ciò che è realmente: una clamorosa presa in giro. Le cifre non mentono, come aveva già rilevato lo stesso quotidiano della Confindustria negli scorsi mesi. Nel 2010, notava già ad aprile il Sole, le entrate tributarie dei comuni italiani erano aumentate di 1,3 miliardi rispetto all’anno passato registrando per i contribuenti un poco rassicurante +7% in termini di maggior carico fiscale. Alla faccia delle promesse elettorali.

Già, le promesse elettorali. A ben vedere il peccato originale si collocherebbe proprio lì, come risulta chiaro ormai da tempo. “Aboliremo l’Ici sulla prima casa, avete capito bene” sentenziò Silvio Berlusconi al termine del (soporifero) duello televisivo con Romano Prodi alla vigilia delle elezioni 2006. Una promessa divenuta realtà due anni più tardi – con l’estensione di un provvedimento con il quale il centro-sinistra aveva realizzato un primo significativo sgravio – con conseguenze semi disastrose per la maggior parte dei comuni italiani per i quali proprio l’imposta sugli immobili aveva rappresentato fino a quel momento una fondamentale fonte di reddito. Per ovviare all’inconveniente gli enti locali scelsero allora l’unica strada percorribile: l’aumento delle imposte laddove possibile.

Nel 2010, ha notato il Sole, gli incassi derivanti dalla Tarsu, l’imposta sui rifiuti, hanno registrato una crescita del 15,8%. Le tariffe per i servizi comunali sono aumentate mediamente dell’8% sulla scia di incrementi da record: +6,6% per gli asili nido, ha ricordato ancora il quotidiano finanziario, +10,6 per i parcheggi a pagamento, più 4,6 per le mense, più 10,8 per tutti i cosiddetti “altri servizi”. Una tempesta di costi occulti, in altre parole, si sarebbe abbattuta sui cittadini per i quali l’abolizione della tassa immobiliare si sarebbe rivelata niente meno che una beffa senza eguali, specialmente nel confronto con il resto dell’Europa, dove la tassa sulla casa si conferma non senza ragione un punto cardine nella gestione dei conti pubblici locali.

Sul circolo vizioso, ovviamente, non pesa solo l’eliminazione dell’imposta. A gravare sulle spalle degli enti c’è infatti anche, se non soprattutto, la riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato. Un fenomeno alimentato dalla difficile impresa del governo di far quadrare i conti riducendo il disavanzo pubblico con un progressivo taglio alla spesa. Ad oggi, intanto, le entrate per l’erario sono tornate sui livelli pre crisi (115,4 miliardi di gettito complessivo nei primi 4 mesi del 2011) mentre il livello della pressione fiscale italiana si conferma il terzo del mondo (dopo Danimarca e Svezia) con un carico aggiuntivo, rispetto alla media Ocse, di 54 miliardi annui. Circa 850 euro in più per ciascun contribuente.

Matteo Cavallito, Il Fatto quotidiano

lunedì 27 giugno 2011

I No-Tav nel paese di cartone

Qualche settimana fa la nipote di un famoso capo di governo italiano defunto, per qualcuno un grande statista, per i più un dittatore che ha preso per i fondelli gli italiani per un ventennio, la nipote, dicevo, ha baciato la sagoma di cartone in scala uno a uno di un famoso capo di governo italiano, per qualcuno un grande statista, per i più un dittatore che ha preso per i fondelli gli italiani per un ventennio. Non era suo nonno, era un cartonato a grandezza – si fa per dire – naturale dell’attuale premier italiano. Un governante di cartone.
Forse la soluzione è quella: il cartone.
Un governo di cartone, fatto di ministri di cartone, in materiale riciclabile.
Poi un’opposizione di cartone e un parlamento tutto di cartone, a grandezza – si fa per dire – naturale.
Che il cartone da molti meno problemi: è sagomabile a piacere, lo puoi bucare, tagliare, pressare, dipingere, incollare. Poi costa poco e se per caso un ministro di cartone ti è venuto male lo butti via, nel contenitore giallo della carta che passano giovedì a ritirarlo, e con pochi euri ti fai un ministro nuovo.
E l’opposizione di cartone, anche, non sarebbe più facile? Un po’ di vinavil e non si dividono più. Però si può sempre strappare. Va bè, fa niente.
Anche per le amministrazioni locali si potrebbe pensare a dei bei modelli di cartone: dai presidenti di regione ai presidenti di circoscrizione, fino ai sindaci dei piccoli paesi di montagna. Dei cartonati solidi, però, mica roba che si imbarca alla prima pioggia.
Sarebbe un bel risparmio per la collettività, tra l’altro.
Tornando un attimo al premier, poi, averlo di cartone, da mandare in giro ai congressi internazionali, ci metterebbe anche al riparo dalle brutte figure: un premier cartonato non fa gestacci, non importuna gli altri premier, cartonati e non, non racconta barzellette. Tutto si svolgerebbe con tranquillità e decoro. Un premier di cartone per un paese di cartone.
Di cartone le case, le strade, gli uffici.
Sembrerebbe quasi di stare in un racconto di Gianni Rodari.
Il ministro dell’istruzione, di cartone, favorirebbe la costituzione di un corpo insegnati di cartone, dentro scuole di cartone.
E il ministro della difesa comanderebbe un esercito di cartone, molto adatto, peraltro, alle missioni di pace di cartone.
Sul fronte interno, poi, il ministro della difesa di cartone, coadiuvato dal ministro dei trasporti di cartone, sotto lo sguardo vigile del ministro dell’ambiente di cartone, manderebbe i suoi soldati di cartone a cercare di sgomberare la Val di Susa.
E a quel punto i No-Tav, che non sono un’opposizione di cartone – loro – avrebbero la meglio e di quello scempio economico e ambientale che è la Tav non rimarrebbe che il ricordo scritto su qualche cartellone, di cartone.
Ma purtroppo non siamo in una storia di Gianni Rodari, io sono solo uno scrittore – si fa per dire – di cartone e mentre lo scontro a Chiomonte si consuma, riesco solo a inventarmi questa storiella per tenere lontana la tristezza che monta insieme all’avvicinarsi dell’apertura (forse…) dei cantieri.
Blog di Diego Finelli

domenica 26 giugno 2011

Amato? Ha tagliato le pensioni degli italiani E non ha toccato la sua

L'ex premier percepisce un vitalizio da oltre 31mila euro al mese. Fu lui a introdurre la riforma della previdenza, in nome dei sacrifici. Ma quando si trattò di mettere mano al proprio portafogli

E Giuliano Amato? Ha tagliato le pensioni di tutti gli italiani. Ma per lui s’è riservato una pensione d’oro. Alla fine di ogni mese, infatti, incassa la bella cifra di 31.411 euro. Proprio così: 31.411 euro, esattamente 1.047 euro per giorno che il buon Dio manda sulla Terra. Non male per l’uomo per primo ha impugnato le forbici per ridurre le aspirazioni nazionali di serena vecchiaia. Ricordate? Era il 1992. «Così non si può andare avanti, serve una riforma delle pensioni», tuonò l’allora presidente del Consiglio. E la riforma delle pensioni, in effetti, si fece. Amato mandò di traverso il caffellatte ai nonnetti di provincia, spaventò milioni di onesti padri di famiglia. E diede il via all’era della previdenza lacrime&sangue. Da quel momento,com’è noto, non c’è stata più certezza sul futuro previdenziale. Retributivo? Contributivo? Finestre? Non finestre? Ulteriore innalzamento dell’età pensionabile? Domande che divennero assillanti. E il Dottor Sottile sempre lì, con la sua aria da professore ascetico, a spiegarci le storture del sistema del welfare, i segreti della gobba demografica, le esigenze di bilancio di Bruxelles… Un’intervista dopo l’altra, non ha smesso di illustrarci l’importanza dei sacrifici, tanto che per abituarci alla sofferenza una bella notte ha pensato bene di mettere le mani anche nei nostri conti correnti bancari. Si capisce: i sacrifici sono importanti. Ma solo per gli altri, è ovvio. Mica per lui. Giuliano Amato, infatti, dal 1 gennaio 1998 incassa una pensione Inpdap da ex professore universitario di 12.518 euro netti al mese, cioè 22.048 euro lordi, che corrispondono esattamente a un totale annuo di 264.577 euro. Però non s’accontenta. E dunque, visto che i sacrifici sono necessari, ai 12.518 euro netti che gli entrano in tasca ogni mese aggiunge la pensioncina da parlamentare (9.363 euro). In totale appunto 31.411 euro lordi al mese, circa 17mila euro netti. Una cifra che non gli impedisce, per altro, di continuare a prendere incarichi: due pubblici (presidente Treccani e presidente comitato dei garanti per il 150 ˚dell’Unitàd’Italia) e uno privato (senior advisor della Deutsche Bank). Che ci volete fare? Il Dottor Sottile è così: sa difendere con altrettanta gagliardia il bene pubblico e i suoi interessi privati. E se, quando si occupa del benessere degli altri, è il paladino del massimo rigore, quando si tratta del benessere suo, beh, preferisce trasformarsi in generoso dispensatore. Non sfuggirà ai lettori il fatto che il nemico di tutti i baby pensionati è andato in pensione a 59 anni ( e mica con due lire: 12.518 euro netti…); non sfuggirà che il nemico di tutti i cumuli cumula allegramente; e non sfuggirà soprattutto che, avendo passato gli ultimi anni a chiedere al Paese di tagliarsi le pensioni, non abbia mai pensato nemmeno lontanamente di tagliare la propria, fosse solo di cento euro, per un beau geste . Quello che però forse sfugge è che la pensione Inpdap da 12.518 euro al mese, formalmente elargita per il lavoro svolto da Amato come professore universitario, nasce in realtà da un cavillo. Per fortuna delle casse previdenziali, infatti, non tutti i professori universitari, seppur illuminati da brillante carriera, arrivano a tali somme. E allora perché Giulianetto mani di forbice invece sì? Facile spiegarlo. Nel 1996, quando stava scadendo il suo mandato a presidente dell’Antitrust, il dottor Sottile pose agli altri membri della solenne authority, il problema della pensione. Il dilemma era il seguente: il ricco assegno che regolarmente prendiamo alla fine di ogni mese va considerato come semplice indennità o come un vero e proprio stipendio? La legge istitutiva dell’Antitrust non diceva nulla al riguardo, ma voi capirete che la differenza non era da poco: se le retribu¬ioni fossero state considerate come veri e propri stipendi lo Stato avrebbe dovuto versare i contributi previdenziali, facendo lievitare in modo considerevole i costi delle casse pubbliche ma anche le rendite dei soggetti interessati. Sarebbe bastato infatti ai commissari chiedere il ricongiungimento dei contributi, et voilà ... Va notato che fino a quel momento nessuna altra autorithy si era posta il problema. La prima a sollevarlo fu proprio quella del Gengis Khan dell’Inps, Giulianetto nostro, appunto. E va da sé che il Consi¬lio di Stato diede il parere che egli sperava di avere. Risultato? Lodo Giuliano approvato, ricongiungimento effettuato, ricca pensione garantita. Ma siccome le casse pub¬bliche rischiavano un tracollo, lo Stato fu costretto rapidamente a correre ai ripari: con la Finanziaria del 2000, infatti,il governo D’Alema, di cui Amato faceva parte, sterilizzò gli effetti della decisione del Consiglio di Stato. E così, da quel momento, i membri delle authority percepiscono una pensione commisurata non all’indennità super da commissari, ma allo stipendio che avevano prima di essere nominati. Dove sta il trucco? Come sempre, in un cavillo: non essendo infatti la misura retroattiva quelli che hanno smesso di fare i commissari all’Antitrust fra il ’96 (anno della decisione del Consiglio di Stato) e il 2000 (anno della Finanziaria riparatrice) hanno potuto avere ricongiungimen¬to di contributi e conseguente superpensione. Solo loro, s’intende. I più fortunati. Fra questi, ma guarda un po’ il caso,anche il nostro Giulianetto, che così, pur avendo una carriera nel pubblico impiego da professore universitario ordinario (stipendio massimo 5-6mila euro al mese), dal primo gennaio 1998 incassa un vitalizio davvero straordinario, pari appunto a 12mila euro netti al mese. Non male, no? Amato presidente dell’Antitrust ottiene un beneficio e Amato ministro lo sterilizza, ma la sterilizzazione vale per tutti gli altri e non per sé. Così lui può incassare la superpensione e, nel frattempo, tagliare le pensioni altrui. Meraviglioso. Il Dottor Sottile non ha nulla da dichiarare al proposito? Per carità: predicare tagli previdenziali è giusto e sacrosanto, ma non sarebbe meglio, di grazia,se d’ora in avanti lo facesse qualcun altro? Magari qualcuno che non prende 12mila euro netti al mese in virtù di un cavillo? E infine: la prossima volta che Amato interviene predicando contro l’egoismo, chi è che gli fa una pernacchia?


di Mario Giordano, www.ilgiornale.it

O la Borsa o la Vita. Basta ricatto del debito sovrano

Le grandi banche d'investimento hanno procurato la crisi debitoria e devono pagarla loro. Chi a sinistra non lo capisce, finirà come Zapatero e Papandreou
Il debito è stato lo strumento principe che ha permesso,dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, di continuare a crescere superando i limiti strutturali di questo modo di produzione capitalistico. È stato grazie al processo generale di indebitamento - degli Stati,delle famiglie e delle imprese- se i paesi occidentali (ad eccezione del Giappone) hanno potuto rimandare di ben trent'anni la crisi da sovraproduzione e la conseguente, inevitabile stagnazione economica. È stata la prima volta, dalla nascita del capitalismo industriale, che sono state infrante tutte le teorie sul ciclo economico -da Schumpeter a Kalesky a Kontradieff - con una crescita economica che in occidente , con brevi interruzioni, è durata dalla fine della seconda guerra mondiale alla crisi finanziaria del 2007-08, ed alla conseguente «Grande Recessione» odierna, come la definisce il Nobel Paul Grugman. Adesso, è arrivato il tempo di pagare il conto di questa crescita «drogata» e di ridurre drasticamente il processo di indebitamento, a partire dal debito pubblico.
Ma, i debiti non sono uguali per tutti. Lo sappiamo bene. Ci sono piccole e medie imprese che sono fallite a causa di un alto indebitamento, e ci sono grandi imprese che ancora distribuiscono utili agli azionisti malgrado un indebitamento spaventoso che sfiora il fatturato annuo. Così, ci sono Debiti Sovrani- i debiti dello Stato- che rischiano di far fallire grandi e piccoli paesi europei, mentre gli Usa - il paese più indebitato al mondo, con un debito pubblico che ha raggiunto i 14.700 miliardi di dollari, pari al 95% del Pil- non è chiamato a risponderne (finché i Fondi Sovrani cinesi continueranno a comprare titoli di Stato a stelle e strisce).
I paesi del Sud Europa appartenenti all'area Euro, insieme ad Irlanda e Belgio, rischiano il default se non decideranno drastiche misure di tagli alla spesa pubblica, abbassamento dei salari, licenziamento dipendenti pubblici,ecc. È il ricatto dei Mercati Finanziari, veri e propri usurai che si gettano sul corpo della vittima per spremerlo fino a portarlo al suicidio.
La Grecia, piccolo e affascinante paese, con solo il 2% della popolazione e meno del 2% della ricchezza prodotta nella UE, sta diventando la «pietra d'inciampo», il punto di svolta di tutta la costruzione istituzionale europea. La Commissione Europea si riunirà il 2 Luglio per decidere se concedere una ulteriore tranche dei 110 miliardi di euro per salvare il paese dal default. In cambio Bce e Fondo monetario internazionale chiedono una micidiale cura dimagrante allo stato greco, la svendita del patrimonio naturale e storico, tagli pesanti alla spesa sociale, riduzione dei dipendenti pubblici, ecc. Una terapia d'urto inutile e disastrosa. Inutile, in quanto la Grecia non potrà mai restituire questo prestito, visto che per piazzare i suoi Bot è arrivata a pagare un tasso di quasi il 30% a due anni , e visto che con queste misure draconiane il suo Pil si stima che cadrà del 4-5% annuo nei prossimi tre anni. In breve, con queste ricette avvelenate la Grecia si troverà con un rapporto Debito/Pil ancora più alto di quanto non sia oggi. Per farvi fronte dovrà mettere all'asta un intero paese, dalle sue isole sull'Egeo al porto del Pireo (in parte già comprato dai cinesi), a quello che resta della sua struttura produttiva. E non basterà. Di contro, se non accetta queste misure/ricatto imposte dalla UE e dal FMI dovrà uscire dall'Euro, ritornare ad una dracma che sarà fortemente svalutata e produrrà una spirale inflazionistica.
Stessa sorte toccherà agli altri paesi Ue del sud Europa, nell'ordine: Portogallo, Spagna ed Italia. La Germania non vede di buon occhio questa possibile uscita dall'Euro dei paesi sud-europei, sia per una concorrenza sui prezzi di monete svalutate, sia perché come ha scritto Romano Prodi «la Germania è troppo grande per l'Europa, ma è troppo piccola per l'economia-mondo». Inoltre, se la Grecia fallisce sono proprio le banche tedesche le prime a pagare lo scotto.
Se non si capisce che la questione del «debito pubblico», non è un problema tecnico per specialisti, ma una questione politica di prima grandezza, una questione di rapporti di forza, allora il destino per le popolazioni del sud Europa è segnato. Sia che si rimanga nell'Euro pagando un enorme costo sociale, sia che se ne esca, sono i lavoratori, i giovani, i disoccupati, ed anche il ceto medio, che ne pagheranno le conseguenze.
A questi diktat dei «mercati finanziari» e delle istituzioni internazionali (Bce, Fmi, ecc.) esiste una alternativa. I paesi del sud-Europa , insieme all'Irlanda ed al Belgio, rappresentano la metà dei paesi aderenti all'Eurozona (se non consideriamo i piccoli paesi come Malta, Cipro e la Slovenia). Avrebbero pertanto un peso non indifferente se agissero insieme, individuando una piattaforma comune che consenta la ristrutturazione dei debiti sovrani. Certo, qualche istituto finanziario dovrà rimetterci qualcosa, qualche titolo bancario subirà uno scivolone in Borsa, ma salveremmo la qualità e la quantità della vita di oltre 130 milioni di cittadini europei. Non solo.



Questa è l'occasione per rilanciare la Tassazione delle Transazioni Finanziarie (Ttf). In tutto il mondo occidentale sta montando una campagna per la Ttf, che si chiama Robinhood tax , nei paesi anglosassoni o campagna dello 005 che è partita in Italia ed ha già raccolto il sostegno di insigni studiosi, intellettuali e varie associazioni, a partire da quelle cattoliche. Con una TTF di solo lo 0,05%, secondo uno studio coordinato da Leonardo Becchetti (Università Roma 2) si otterrebbe un gettito di 210 miliardi l'anno che potrebbe non solo risanare i conti, ma rilanciare una politica sociale che è urgente in tutta l'Unione Europea.
Gli «indignatos» di tutta l'Europa mediterranea chiedono a gran voce proprio questo: che si scelga tra la Borsa e la Vita. Se la crisi debitoria l'hanno procurata gli hedge fund, le grandi banche d'investimento, che la paghino loro e non la gente. Se le forze politiche della sinistra italiana non lo capiscono faranno la fine degli Zapatero e dei Papandreou, tanto da farci rimpiangere ...Tremonti. Non basta cacciare Berlusconi se non si imbocca la strada dell'alternativa a questo modello economico e sociale ormai fallito.
di TONINO PERNA - IL MANIFESTO del 26 GIUGNO 2011

sabato 25 giugno 2011

La Lega lascia solo chi lavora nei territori

La Lega si sta confermando ancora una volta per quel che è: il partito degli slogan. Invoca lo spostamento dei ministeri al Nord, promette il pugno duro con Berlusconi, annuncia secessioni, ma in concreto non fa nulla.

La sua incapacità d’azione si riflette anche nei territori a cui dice di essere tanto legata. La crisi, là dove la Lega spopola e amministra, continua a picchiare duro. Le aziende cadono, una dopo l’altra, ma i padani al potere non se ne accorgergono. I leghisti, compresi quelli che scaldano le poltrone della Regione Lombardia, non muovono un dito neanche per fermare la delocalizzazione selvaggia, piaga di questi territori. E così anche un’azienda come la Bessel di Santa Maria Hoè (in provincia di Lecco), del gruppo Candy, rischia di chiudere per spostarsi all’estero, lasciando a casa 400 persone tra dipendenti diretti e indotto.
Gli annunci non mancano: i padani con quelli ci sanno fare. Come lo scorso anno con la Indesit di Brembate, in provincia di Bergamo, che dava lavoro a 430 persone. Il ministro Calderoli, il vicepresidente della giunta regionale lombarda Gibelli, l’assessore regionale Belotti e il presidente della provincia di Bergamo Pirovano si sono riuniti in pompa magna annunciando interventi immediati. Lavoratori e delegati sono stati invitati a Pontida dove hanno ricevuto promesse e assicurazioni. Ma in concreto, dopo un anno, nulla è cambiato: i dipendenti della ex Indesit sono ancora in cassa e il progetto di recupero della zona è fermo. Altro che sindacato del territorio.
Cosa fa la Lega per la disoccupazione, la precarietà e i bassi salari? Se lo chiedono anche gli elettori che – pur attratti dagli slogan leghisti – non hanno abbandonato la Fiom che nei luoghi di lavoro, e nei rinnovi delle Rsu, aumenta i consensi, così come negli scioperi, coinvolgendo lavoratori precari, movimenti protagonisti di questa nuova fase di cambiamento.
Nonostante la situazione estremamente difficile, la Lega, dopo le amministrative e i referendum, va avanti con strabismo su temi che non hanno legami con la crisi.

Non si interessa dei giovani che non trovano lavoro e che, dopo avere studiato, sono costretti a scappare all’estero dalla condanna del precariato.

Ignora l’ultimo attacco sferrato dalle imprese al contratto di lavoro. Se ne frega, anzi, è corresponsabile – visto che il governo è fatto anche da padani – del decreto sui lavori usuranti, un vero e proprio schiaffo ai lavoratori del nord. È concentrata qui, infatti, la gran parte dei lavoratori che ha messo per la prima volta piede in fabbrica a 15 anni e che ora per andare in pensione dovrà aver accumulato 41 anni di servizio.

E poi, cosa fa per le donne che lavorano nel privato e rischiano di dover aspettare i 65 anni per vedere uno straccio di pensione.
Altro che «padroni a casa nostra». Qui gli unici padroni sono le imprese che sfruttano il territorio e quando non resta più nulla lo abbandonano per andarsene in Cina e India: la Padania, a loro, non conviene più.
Mirco Rota, Segretario generale Fiom Lombardia

Pontida, ovvero vuoto a perdere

A Pontida doveva ruggire il leone e far fuggire le iene della savana. Abbiamo ascoltato il belato di un castrato, attorniato da prole, moglie e magna-magna come nella peggiore maleodorante partitocrazia tesa solo a mantenere privilegi e prebende. Nemmeno Dio li può perdonare perché costoro non solo sanno quello che fanno, ma al contrario non sanno proprio quello che dicono. Sparano alto per mirare in basso e riescono perfino a mirarsi addosso.
La Lega vuole andarsene dalla Libia, che significa andarsene dalla Nato (in sé non sarebbe un male), ma ha votato compatta per andarci. Ha votate tutte le porcherie che Berlusconi gli ha fatto trangugiare e ora pone condizioni a scadenza come il tonno in scatola. Voleva eliminare i costi della politica e da quando è al governo non fa che aumentare i costi dei partiti e del governo, come ad esempio:
- abbattiamo il Parlamento: riduzione di metà parlamentari e sostituzione del senato con la camera delle Regioni (in tutto circa 500 parlamentari);
- eliminiamo le Province;
- federalismo fiscale con quote di tassazione che restano sul territorio;
- elezione dei pubblici ministeri da parte del popolo (all’americana);
- battaglia senza quartiere a Roma ladrona e abolizione di Roma capitale;
- moralizzazione della politica;
- radicamento delle banche nel territorio e molte altre amenità del minga.
I risultati ottenuti dall’impegno leghista, da Bossi a Maroni a Castelli sono stati:
- ha aumentato i sottosegretari al governo peggio che la peggiore democrazia cristianaccia;
- ha portato parenti, amici e benefattori a mangiare nella mangiatoia della politica (Bossi i suoi due figli e moglie di risulta; assessori e consiglieri che vanno in macchina pubblica per i loro affari e anche in vacanza; sindaci che spendono soldi pubblici per mettere i simboli celtici nelle scuole e che adesso i cittadini devono pagare di tasca, ecc.):
- ha aumentato le Province per appagare la fame famelica della Lega che vuole posti, posti e posti;
- in nome del federalismo fiscale hanno tolto l’Ici ai ricchi (ai poveri l’aveva tolta Prodi), l’unica tassa veramente federale di competenza dei comuni; col federalismo che hanno varato aumenteranno le tasse locali perché il governo centrale, cioè Lega e Berlusconi, hanno tagliato tutto il tagliabile e anche pezzi consistenti del futuro. Da 17 anni sono al governo e siamo ridotti in braghe di tela. Quanto dobbiamo ancora sopportarli?;
- ha votato tutte le porcherie che poteva votare di Berlusconi, tutte le leggi contro i magistrati, ha umiliato la magistratura che ha osato condannare Bossi per tangente di 200 milioni di lire (poveraccio!) e ora vuole la riforma della giustizia!
- La Lega è il peggior partito di potere degli ultimi 150 anni. Ignoranti (tutte le leggi di Maroni sono state bocciate dalla Consulta e dall’Europa);
- la Lega per paura dei cittadini e per fare un favore a Berlusconi ha scisso i referendum dalle elezioni, buttando al macero 350 milioni e intanto tagliano assistenza, agli invalidi, ai poveri, ai precari;
- la Lega è parte integrata della cricca, ne condivide gli obiettivi e ne mantiene il sistema: alla Camera ha votato contro l’arresto di Cosentino accusato di omicidio e di mafia; a tutte le richieste dei pubblici ministeri per arrestare deputati e senatori delinquenti la Lega ha sempre risposto picche;
- e si potrebbe continuare per volumi e volumi, altro che «pacco».
Questa Lega oggi è al governo e tiene in vita con la respirazione artificiale Bossi/Berlusconi, una indecenza che nemmeno nel Burundi esiste. La Lega sta affossando il Paese e l’inesistente Padania pur di stare attaccata alla poltrona, gingillandosi col «dio Po-Po-Po» (perché non ne hanno nemmeno uno intero di «Dio») e con i riti celtici. Ammirate Bossi che parla celtico che nemmeno il traduttore simultaneo riesce a renderlo comprensibile. L’unico che lo capisce è il figlio Trota che a braccia conserte sogna di essere una puzza di pesce e ci riesce anche bene, senza nemmeno tanto sforzi.

Don Paolo Farinella, Il Fatto Quotidiano

I ricchi e il debito pubblico

di Vincenç Navarro

Questo articolo evidenzia come la diminuzione della tassazione dei redditi alti (risultato delle politiche fiscali di sensibilità neoliberista) abbia impoverito gli stati portandoli ad indebitarsi, chiedendo denaro in prestito alle banche (dove quelli che percepiscono i redditi elevati depositano il loro denaro) che richiedono interessi elevati. Questa situazione comporta una concentrazione dei redditi con un conseguente impatto negativo sulla crescita economica e sulla creazione di occupazione.

I ricchi sono molto pochi in qualsiasi paese, ma posseggono un enorme potere. Un indicatore di questo potere è ciò che sta accadendo con il debito pubblico sia negli Stati Uniti che nell'Unione Europea, come anche in Spagna. La loro influenza sullo Stato di questi paesi ha determinato una notevole diminuzione delle tasse negli ultimi trent’anni (in Spagna negli ultimi quindici), cosa che gli ha permesso di diventare ancora più ricchi.
Questa forte riduzione delle entrate ha fatto sì che gli stati si indebitassero, chiedendo prestiti alle banche in cui le persone facoltose depositano e investono i loro soldi. In questo modo questi, invece di pagare lo Stato (con le tasse), prestano i soldi che hanno risparmiato non pagando le imposte al paese, il quale deve pagare loro gli interessi. Per loro il sistema è perfetto (e per le banche in cui depositano i loro soldi), trasferendo così una grande quantità di fondi dal settore pubblico, ai ricchi e alle loro banche.
Vediamo i dati, iniziando dagli Stati Uniti. Secondo Robert Reich, Ministro del lavoro e degli Affari Sociali del governo Clinton, l’aliquota massima per le persone affluenti (l'1% della popolazione con maggior reddito) negli Stati Uniti era, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1980, quasi del 70%. Vale a dire, per ogni dollaro che guadagnava la gente più ricca, doveva pagarne 70 centesimi in imposte allo Stato. In quegli anni anche presidenti del partito Repubblicano come Dwight Eisenhower credevano non fosse salutare per la società che esistessero disuguaglianze estreme.
Questa convinzione era data dall’influenza della sinistra che ha configurato la cultura politica dominante tra il 1950 e il 1980. Non c'è bisogno di dire che i ricchi cercavano di svignarsela dal pagare quel 70%. E così, tra deduzioni e altre misure, questo 70% è diminuito al 50%.
Dall'altro lato, la tassa sulla rendita del capitale era del 35%.
Tutto questo cambiò sotto la presidenza Reagan, che avviò la rivoluzione reazionaria neoliberista. Reagan diminuì notevolmente le tasse per i ricchi (anche se aumentò quelle di tutti gli altri; in realtà è stato il presidente che ha aumentato maggiormente le tasse in tempo di pace negli Stati Uniti). Iniziarono così una serie di politiche che hanno portato a una situazione in cui i ricchi pagano allo Stato solamente il 36% dei loro introiti. Si va dal 50% al 36% nel periodo tra il 1980 al 2011. E le tasse sulla rendita del capitale sono diminuite dal 35% al 15%.
Questi vantaggi fiscali hanno raggiunto un livello tale che, nel 2010, 18.000 famiglie ricche non hanno pagato alcuna imposta. In realtà, le 400 famiglie più ricche degli Stati Uniti hanno pagato allo Stato federale solamente il 18% d’imposta sulle loro entrate. Come conseguenza di queste politiche, l'1% dei redditi più elevati, che negli anni '70 guadagnava il 9% di tutto il reddito nazionale, nel 2010 è riuscito a percepire niente meno che il 20% del reddito nazionale.
Questa concentrazione dei redditi ha creato un enorme problema economico: la mancanza di domanda che stimola l'economia e che crea occupazione. I ricchi hanno così tanti soldi che, quando ne guadagnano di più, invece di aumentare il loro consumo lo investono al fine di accumulare sempre più soldi, creando un grave problema. In tempi di recessione bisogna che la gente consumi affinché la domanda cresca. Ma se il 20% del reddito nazionale è posseduto dall'1% della popolazione che (in proporzione) consuma meno, si crea un grande vuoto nella domanda. E questo è ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, nell'Unione Europea come anche in Spagna. Inoltre, siccome non c'è molta domanda per la cosiddetta economia produttiva dove si producono beni e servizi (come conseguenza della diminuzione dei redditi del lavoro in percentuale del reddito nazionale), i ricchi non ritengono opportuno investire in attività e in settori produttivi, ma in attività più redditizie, quelle speculative, creando così le bolle che ci portano ai disastri che conosciamo.
La bolla immobiliare ne è un esempio. Ma, adesso che la bolla è esplosa, i ricchi, attraverso le banche, comprano debito pubblico, ovvero titoli dello Stato. E, attraverso le agenzie di valutazione dei titoli, come Moody's, Standard & Poors e le altre (che sono strumenti delle banche), creano la percezione di un’economia a rischio, che porta gli Stati a dover pagare interessi elevati. Le banche spagnole possiedono il 52% del debito spagnolo. Ricevono prestiti di denaro dalla Banca Centrale Europea a interessi molto bassi (1%) e con questi soldi comprano titoli pubblici dallo Stato spagnolo, che offre una redditività del 6%.
Risulta difficile delineare un sistema che sia più favorevole per i ricchi e per le loro banche. E mentre diventano super ricchi, chiedono alla cittadinanza di tirare la cinghia con la scusa che “non c'è alternativa”.
E i media più importanti dicono alla popolazione che “la pressione dei mercati finanziari” (la frase più utilizzata nella cultura dominante del Paese) obbliga lo Stato spagnolo a seguire politiche pubbliche enormemente impopolari, presentandole come necessarie e inevitabili.
Ma questa pressione, nel caso spagnolo, deriva principalmente dalle banche e dai ricchi spagnoli, che hanno causato la crisi (le loro speculazioni nel mercato immobiliare) e che ora stanno beneficiando di queste politiche, chiedendo i soldi allo Stato (gli alti interessi sui titoli) per prestare il loro denaro, lo stesso che hanno guadagnato pagando meno tasse.
È ovvio che esistono alternative. Da questa analisi si deduce che il modo migliore per evitare l'indebitamento dello Stato non è diminuendo la spesa pubblica (molto bassa nel caso spagnolo), bensì aumentando le tasse dei ricchi e dei super ricchi ai livelli del periodo anteriore (e nel caso spagnolo a livelli omologabili a quelli dei paesi nordici). Un lavoratore della manifattura paga già il 78% di quello che paga il suo omologo in Svezia.
Un ricco (l'1% del reddito elevato) paga il 20% delle tasse che paga il suo omologo in Svezia. Le cose stanno così.
Fonte: http://www.vnavarro.org/?p=5712

giovedì 23 giugno 2011

Fisco: e la Cgil propone la "Tassa sulle fortune


"Il nostro è un sistema fiscale ingiusto". Nel presentare le proposte sulla riforma fiscale, la Cgil non usa mezzi termini. "E se lo schema è quello della semplificazione a tre aliquote - ha avvertito il segretario Susanna Camusso - partiamo con il piede sbagliato. Bisogna tassare le grandi ricchezze di questo paese e tassare le rendite". Vediamo come

"Il sistema fiscale italiano - si legge nella proposta della Cgil - premia le ricchezze 'parassitarie' (evasione, rendite, speculazione finanziaria, etc.), scoraggia gli investimenti produttivi e deprime i consumi. Il Paese non usa bene la ricchezza che produce. La politica economica non usa bene la leva fiscale per la crescita e lo sviluppo". Il tutto, a detta della Cgil, condito dall'aumento delle tasse.
Ecco dunque le proposte della Cgil per "per un fisco giusto, attraverso una vera lotta all'evasione, per un fisco più leggero per le famiglie di lavoratori e pensionati che porti mediamente 100 euro in più in ogni busta paga, alleggerendo quel peso che da anni grava ingiustamente sulle spalle di queste famiglie; un fisco più pesante per i redditi alla radice degli squilibri e delle debolezze del paese: transazioni speculative, rendite e grandi ricchezze".

Il nostro è un sistema fiscale ingiusto
Il sistema fiscale italiano è un sistema che premia le ricchezze "parassitarie" (evasione, rendite, speculazione finanziaria, etc.), scoraggia gli investimenti produttivi e deprime i consumi. Il Paese non usa bene la ricchezza che produce. La politica economica non usa bene la leva fiscale per la crescita e lo sviluppo.

E come se non bastasse sono aumentate le tasse
3.300 euro è l'aumento medio del prelievo per ciascun lavoratore o pensionato che si è accumulato dal 1980 a oggi! Questo in trent'anni di aumento delle tasse sui lavoratori dipendenti e sui pensionati (più di ogni altro contribuente e/o reddito). Senza l'aumento cumulato delle tasse salari e pensioni sarebbero oggi più alti di 275 euro al mese.

33 a 1: il Bengodi delle diseguaglianze
33 a 1 è il rapporto tra la ricchezza media del 5% di famiglie ultraricche e quella del 50% delle famiglie italiane. La ricchezza delle famiglie ultraricche è, infatti, pari a circa 2,3 milioni di euro, mentre quella del 50% più povero è meno di 70mila euro.

La pressione è salita al 46,9%
46,9% di pressione fiscale sul lavoro nel 2009 pone l'Italia al quinto posto tra i paesi OCSE, mentre siamo 22esimi nella classifica dei salari (appena sopra la Grecia)! Negli anni 2000-2010 le entrate da lavoro dipendente e da pensione sono aumentate in termini reali del 13,1%. Le entrate derivanti da tutti gli altri redditi sono diminuite del 7,1%.
L'urgenza della riforma
Il Paese ha bisogno di una riforma fiscale per ritrovare la via di una crescita sostenuta e dello sviluppo, redistribuendo il reddito a favore dei lavoratori e dei pensionati, correggendo le distorsioni del sistema economico e liberando gli investimenti.

Recuperare risorse dall'evasione fiscale
Una delle possibile strade per aggredire il problema annoso dell'evasione fiscale e del peso esorbitante dell'economia sommersa riguarda la tracciabilità. Una delle idee che si potrebbe discutere è quella di abbassare a 500 euro la soglia della tracciabilità degli scambi in denaro contante, mentre l'economia sommersa potrebbe intanto essere aggredita rendendo reato penale il caporalato.

Ma è sbagliato aumentare l'Iva: si colpiscono 11 milioni di incapienti e si producono effetti negativi sui consumi
Per quanto riguarda il cosiddetto scambio Irpef-Iva (ammesso che questo sia davvero l'intento del governo e del ministro Tremonti), la Cgil è stata da subito molto chiara, sia nelle dichiarazioni del segretario generale Susanna Camusso, sia nelle varie prese di posizione di questi giorni: mettere in relazione l'aumento delle aliquote Iva con la diminuzione delle aliquote Irpef sarebbe sbagliato perché non tiene conto di 11 milioni di contribuenti cosiddetti "incapienti" esenti all'Irpef e che, perciò, subirebbero solo l'aumento dell'imposizione sui consumi.

Il confronto con Francia, Regno Unito e Spagna, paesi con struttura dell'Iva comparabile alla nostra, evidenzia che il livello di tassazione Iva nel nostro Paese è in proporzione già assai più alto di quello esistente negli altri tre Paesi (nell'ipotesi astratta e teorica che in tutti i Paesi le tre aliquote insistano sulla stessa base imponibile e siano applicate uniformemente agli stessi settori economici, nella graduatoria, fatta sulla base della somma delle tre aliquote, l'Italia risulta prima con 34 punti, seguita dalla Francia con 27,2, dalla Spagna con 27 e dal Regno Unito con 22,5).

Da ciò che consegue è che la carenza di gettito non deve essere attribuita alla misura delle aliquote, ma in modo esclusivo alla maggiore evasione dell'imposta nel confronto con gli altri Paesi europei.
D'altra parte, aumentare le aliquote Iva (due punti percentuali per l'aliquota minima, dal 4% al 6%; un punto per quella ridotta, dal 10% all'11% e per quella ordinaria, dal 20% al 21%) incrementerebbe le entrate di circa 8 miliardi. Ridurre di un punto l'Irpef (esempio: la prima aliquota, dal 23% al 22%) costa allo Stato circa 1,9 miliardi di mancate entrate. E non risolve niente, perché genera un beneficio che va dai 13 ai 75 euro l'anno.

Le proposte della Cgil: un fisco più leggero per i lavoratori e i pensionati
Le proposte sulle tasse della Cgil si basano su un progetto di riforma fiscale per un fisco giusto, attraverso una vera lotta all'evasione, per un fisco più leggero per le famiglie di lavoratori e pensionati che porti mediamente 100 euro in più in ogni busta paga, alleggerendo quel peso che da anni grava ingiustamente sulle spalle di queste famiglie; un fisco più pesante per i redditi alla radice degli squilibri e delle debolezze del paese: transazioni speculative, rendite e grandi ricchezze.

I costi dell'evasione fiscale? 2000 euro all'anno per ogni onesto contribuente
Dalla comparazione dei vari calcoli che sono stati elaborati sul fenomeno dell'evasione fiscale, si ricava che oggi l'evasione ogni anno costa circa 2.000 euro in più ai redditi "fissi" e, in generale, ad ogni contribuente onesto.

Una tassa sulle grandi ricchezze come in Francia
Una tassa ordinaria sulle Grandi Ricchezze ispirata al modello francese, con una previsione di imposta mediamente dell'1,0% a carico delle famiglie con una ricchezza complessiva sopra gli 800mila euro potrebbe generare un gettito di circa 15 miliardi di euro l'anno. Una tassa che colpirebbe solo il 5% più ricco e ricchissimo della popolazione italiana e che non toccherebbe nessun altro ceto e reddito. Sarebbero infatti soggetti a tale imposta tutte le famiglie la cui ricchezza complessiva, mobiliare e immobiliare, superi gli 800mila euro l'anno al netto dei mutui e delle altre passività finanziarie. Allo stesso tempo, ne sarebbero esclusi tutti coloro che, pur essendo proprietari di una o più abitazioni, nonché depositi in conto corrente, titoli di Stato o altre obbligazioni, non raggiungano il limite indicato.

Si possono ricavare circa 15 miliardi di euro l'anno
Molto consistenti le risorse che si potrebbero ottenere annualmente solo dalla nuova tassa sulle grandi ricchezze (in Francia la chiamano la tassa sulle fortune). Dai calcoli effettuati dal Dipartimento Politiche Economiche della CGIL nazionale, le simulazioni comporterebbero un gettito potenziale, derivante dall'applicazione di un'Imposta sulle Grandi Ricchezze (IGR), di circa 15 miliardi di euro l'anno. Secondo lo studio del sindacato, infatti, se si applica un'aliquota media dell'1,0% sulla ricchezza netta totale, superiore agli 800mila euro complessivi, al netto delle detrazioni, detenuta da circa il 5% delle famiglie più ricche d'Italia, la tassa comporterebbe un gettito di circa 15 miliardi di euro annui; e con anche solo una aliquota media dello 0,55% (primo scaglione francese) sulla ricchezza netta totale, superiore agli 800mila euro complessivi, al netto delle detrazioni, detenuta da circa il 5% delle famiglie più ricche d'Italia, comporterebbe un gettito di 9,8 miliardi di euro annui.

Prendendo come riferimento la definizione di ricchezza netta della Banca d'Italia, definita dalla somma delle attività reali (immobili, aziende e oggetti di valore), delle attività finanziarie (depositi, titoli di Stato, azioni, etc.) al netto delle passività finanziarie (mutui e altri debiti), è possibile calcolare la nuova tassa con delle simulazioni. Ecco dunque come si calcolerebbe l'IGR, l'imposta grandi ricchezze. Facciamo alcuni esempi (prendendo come realtà di riferimento le rilevazioni sui bilanci delle famiglie della Banca d'Italia):

"Robin Hood Tax", la tassa sulla speculazione finanziaria internazionale
Si chiama Ttf, tassa sulle transazioni finanziarie internazionali e mira a ridurre la speculazione. La proposta dell'Ituc, il sindacato mondiale, della Ces, il sindacato europeo che la Cgil ha recepito e rilanciato in Italia si basa su dieci punti chiave. Tra i dieci punti, ricordiamo per esempio che le Ttf, anche detta "Robin Hood Tax", possono produrre un gettito fiscale molto consistente, che secondo i primi calcoli si aggira appunto sui 400 miliardi di dollari, non si tratta di tasse che gravano sulla gente comune, né sui fondi pensione che come è noto agli esperti sono investitori istituzionali che movimentano i loro portafogli in termini di operazioni finanziarie una o due volte l'anno, a differenza appunto di altri investitori che movimentano i loro patrimoni anche più volte al giorno.

La Ttf, secondo gli esperti, potrebbe al contrario contribuire a ridurre la volatilità degli investimenti finanziari o quantomeno arginare le pratiche da casinò dell'high frequency trading. La Robin Hood Tax è considerata poi una tassa con una forte caratterizzazione etica, visto che sarebbe pagata da soggetti che possono sicuramente permetterselo.

(scheda a cura dell'Ufficio Stampa Cgil, 22 giugno 2011)