lunedì 28 novembre 2011

Grilli, il possibile viceministro che sogna il doppio stipendio

Il direttore del Tesoro passerebbe da 500 mila euro a "soli" 150 mila. La soluzione che si prospetta è disarmante: concedergli il doppio incarico. 
 
vittorio grilli
Mentre si discute di sacrifici pesanti per tutti i cittadini in vista della prossima manovra, nel dibattito politico spunta un «nodo» piuttosto aggrovigliato: lo stipendio di Vittorio Grilli.

Il direttore generale del Tesoro potrebbe diventare viceministro, ma - sostengono alcuni - passerebbe da 500mila a «soli» 150mila euro annui. Questo è l’ostacolo che si ritrova sul cammino il governo Monti, nel mezzo della bufera finanziaria planetaria.

La soluzione che si prospetta è altrettanto disarmante: concedergli il doppio incarico. La Repubblica non può fare a meno di lui, e lui non può fare a meno dei 350mila euro annui di differenza. Ma le tesi non convince affatto. Innanzitutto perché dubitiamo che sia davvero possibile fare bene il viceministro e il direttore generale. L’amministrazione deve pure avere un presidio di autonomia funzionale.

Ma ancora più discutibile è che la questione stia diventando dirimente, mentre le famiglie italiane fanno i conti con l’inflazione, il prezzo della benzina e l’età pensionabile.
 

domenica 27 novembre 2011

«Non sono proprio praticante ma allo Spread ci credo»

A mensa. «Che poi non è vero che tutte le aziende sono in crisi. Prendi YouPorn: nell’ultimo mese è cresciuto del 40%». 
«È che Berlusconi ha un sacco di tempo libero». 
«E se vai a Via Condotti, dove ci sono i negozi di lusso, ti accorgi che c’è la fila». 
«Ho visto, arriva fino a Palazzo Chigi». 
«Ma no, quella è la fila che parte da Palazzo Chigi. Sono i sottosegretari tecnici proposti dai partiti». «Ah». 
«Comunque, qui il problema è lo Spread».
«Infatti...». 
«Oggi come sta?». 
«È sceso, mi pare». 
«Ah. Pensavo salito». 
«Giusto, è salito». 
«Di quanto?». 
«Boh, però è quasi al limite». 
«Ah. Quant’è il limite?». 
«Non lo so». 
«Però ci credi?». 
«Allo Spred? Sì, certo, che domande. Perché, tu no?». «Pure io, sì. Ma tu non hai mai dei dubbi? Cioè... tu lo hai mai visto?». 
«Mica si manifesta così». 
«Però i poveracci come noi dovrebbero vederlo, no?». «Non è mica la Madonna. È la Madonna che si mostra solo ai poveri». 
«Lo Spred no?». 
«No, lo spread solo ai ricchi». 
«Ah, ecco perché. Ma esattamente...» 
«È il differenziale tra il rendimento dei titoli di stato italiani, i Bot e quelli tedeschi, i Bund». 
«Tu hai molti Bot?». 
«Nessuno». 
«Nemmeno io». 
«Però siamo nelle mani dello Spread». 
«Quindi se scende...». 
«Se scende va bene». 
«Tipo che ci aumentano lo stipendio?». 
«No, dicevo in generale». 
«Ho letto che nel ’66 l’Ad della Fiat guadagnava 60 volte lo stipendio di un suo operaio. Marchionne guadagna 400 volte lo stipendio di un suo operaio». «Orca!». 
«E nell’83 mio padre ha comprato casa per 70 milioni. Settantacinque stipendi di un impiegato di classe media. Oggi quella casa vale 450mila euro. Per comprarla servono 346 stipendi di un impiegato di classe media. Mi sembra che il differenziale che ci sta fregando a noialtri sia questo qui». 
«Ma no, ti pare. Tutti dicono lo Spread. Io ci credo. Non sono praticante, ma ci credo».

Udc, Unione dei Condannati di Marco Travaglio, da L'Espresso, 25 novembre

Tutti lo cercano, tutti lo vogliono. Pierferdinando Casini è il politico del momento, il più abile e convinto regista dell’operazione Monti in tandem con Napolitano. Pier di qua, Pier di là. Bossi, quando si alleò con lui nel lontano 1994, lo ribattezzò “el carugnìn de l’uratòri”, e mai definizione fu più azzeccata. Non perché sia stato coinvolto in scandali, anzi: Casini è una rara avis democrista mai sfiorata da guai giudiziari. Ma perché di inquisiti e condannati è un collezionista da Guinness. E proprio sulla questione morale, anzi penale, sarebbe interessante avere da lui qualche risposta, posto che: ha avuto un ruolo decisivo nella caduta del governo Berlusconi; detiene la golden share del governo Monti; ha imposto ministri-chiave come il Guardasigilli Paola Severino (avvocato di suo suocero Francesco Gaetano Caltagirone e di sua moglie Azzurra); i vertici del Pd sono disposti a sacrificare l’alleanza con Di Pietro e Vendola pur di averlo con sé alle prossime elezioni.
Ricapitolando. Nel 2001 Casini candida Totò Cuffaro a governatore della Sicilia con tutto il centrodestra; nel 2005 lo sistema al Parlamento europeo quand’è già imputato per favoreggiamento mafioso; nel 2006 lo fa eleggere senatore, mettendo sulla sua innocenza “non una ma due mani sul fuoco”; nel 2008 Cuffaro è condannato in primo grado, ma Casini lo rinomina senatore, sempre garantendo sulla sua illibatezza. Sappiamo com’è finita: Totò condannato definitivamente a 7 anni e recluso a Rebibbia. Ma non risulta che Casini si sia scusato per il plateale abbaglio, anche perché dovrebbe vagare coi moncherini come Muzio Scevola. Nel 2006, in un’intervista all’Espresso, aveva giurato sulle “liste pulite” dell’Udc: “Nelle candidature non faremo sconti: a parte Cuffaro, in Sicilia non ricandideremo nessun inquisito”. Infatti dal 2001 porta tre volte in Parlamento pure Saverio Romano, allora indagato e ora imputato per concorso esterno in mafia. Il fatto che l’anno scorso Cuffaro e Romano siano passati al Pdl non è un’attenuante, ma un’aggravante di cui dovrebbero ricordarsi quanti rimproverano giustamente a Di Pietro i De Gregorio, Razzi e Scilipoti, scordandosi i voltagabbana casiniani.
E non basta: dal 2001 siede nei banchi dell’Udc alla Camera anche Pino Naro da Militello Rosmarino (Messina), ora è indagato per finanziamento illecito con l’accusa di aver ricevuto una tangente di 200 mila euro in contanti, nella sede romana dell'Udc, dall'impresario Tommaso Di Lernia e dal presidente dell'Enav Guido Pugliesi (pure lui inquisito e immancabilmente vicino all'Udc). Un insospettabile? Non proprio, essendo un habituè di galere, procure e tribunali: poco prima di entrare a Montecitorio per non uscirne più, era stato condannato definitivamente a 6 mesi per abuso d’ufficio a proposito dell’acquisto con denaro pubblico di 462 ingrandimenti fotografici, alla modica cifra di 800 milioni di lire; e si era salvato due volte per prescrizione nella Tangentopoli messinese (condanna in primo grado a 1 anno e mezzo) e in quella per le spese folli di Taormina Arte (peculato). Infatti era stato subito promosso tesoriere del partito, l’uomo giusto al posto giusto. Ma come li sceglie, Casini, i dirigenti apicali del suo partito: dai mattinali di questura?
Il dubbio cresce se si guarda al pedigree del segretario Udc Lorenzo Cesa: arrestato a Roma nel 1993 dopo breve latitanza, condannato in primo grado a 3 anni e 3 mesi per corruzione aggravata nello scandalo Anas (intascò mazzette per 30 miliardi di lire per conto del ministro Prandini), Cesa si salva per un cavillo procedurale dopo aver confessato tutto in un verbale che si apre così: “Intendo svuotare il sacco”. Linguaggio degno di Gambadilegno più che di un leader “moderato”. Ora pare che lo sherpa usato dall’Udc per accalappiare la pattuglia di deputati Pdl che han costretto il Cavaliere alla resa fosse Paolo Cirino Pomicino, che vanta una condanna per finanziamento illecito e un patteggiamento per corruzione. Forse, prima di allearsi con Casini, gli andrebbe chiesto come spiega questa formidabile concentrazione di malandrini tutt’intorno a sè: è solo sfortunato nelle amicizie, è attratto dai borderline, o c’è qualcos’altro che dobbiamo sapere?

Salerno, De Luca rifa il logo alla città Duecentomila euro per una “esse”


Il nuovo logo di Salerno, a sinistra. 
E, a destra, quello vincitore del bando, mai usato

Polemica sul primo cittadino campano: per il nuovo simbolo della città incaricato il designer Massimo Vignelli. Ma il risultato non convince e costa caro. Soprattutto pensando che pochi mesi fa per lo stesso motivo era stato lanciato un concorso tra i giovani. Ma i risultati non sono mai stati ufficializzati
 
A prima vista può sembrare semplicemente un cerchio blu con al centro una “esse” gialla. Invece, secondo il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca è un brand «straordinario» che consentirà alla sua città «di competere a livello internazionale». È per ottenere questo che il primo cittadino campano ha deciso di non badare a spese. Ha affidato la realizzazione del logo a un importante designer di fama internazionale, Massimo Vignelli, e lo ha pagato profumatamente. Il nuovo marchio, infatti, è costato 200mila euro.

I salernitani però sembrano non aver gradito troppo. «Inguardabile», «brutto», «ridicolo», «inutile», sono i commenti che il sindaco si è ritrovato sulla sua pagina Facebook e sui quotidiani locali il giorno dopo. Le critiche sono venute anche dal suo stesso partito. «Non sarebbe stato meglio – è la domanda che pone il segretario regionale dei giovani democratici, Michele Grimaldi - spendere molto di meno e valorizzare le professionalità giovanili, dal momento che a Salerno abbiamo anche un’importante Università?». Stavolta persino De Luca, solitamente poco abituato a dare spiegazioni, è dovuto correre ai ripari con un nuovo comunicato stampa: «Anche la Tour Eiffel ha suscitato anni di polemiche: ora è un simbolo internazionale che identifica Parigi nel mondo», ha provato a giustificarsi ieri.

Il sindaco di Salerno, rieletto lo scorso maggio per la quarta volta con quasi il 75 per cento dei voti, proprio non se l’aspettava. La presentazione del logo era infatti avvenuta con tutti gli onori. «Saremo come Cannes, come Salisburgo e come Edimburgo, il nuovo logo proietterà la nostra città in una dimensione ancora più internazionale», aveva spiegato De Luca durante la cerimonia ufficiale. L’entusiasmo aveva contagiato anche il designer Massimo Vignelli, che ha lavorato per Benetton, America Airlines e la Metropolitana di New York: «Cosa avete fatto voi salernitani per meritarvi un sindaco così? Nessuna città italiana ne ha uno come il vostro, vi assicuro che così non ne fanno più», è il panegirico rivolto al suo committente all’inizio della presentazione. Il grafico di fama internazionale ha spiegato che per mettere a punto il nuovo brand é stata necessaria un’equipe di tre persone che «ha lavorato per mesi al progetto». All’elaborazione grafica ha partecipato anche Vincenzo De Luca che è andato appositamente a New York, dove Vignelli ha il suo studio, prima per convincerlo ad accettare il lavoro e poi per dare i suoi consigli. In questo modo è nato il logo che manderà in soffitta il vecchio stemma della città, che riproduce l’effigie del patrono cittadino San Matteo. Il brand disegnato da Vignelli punta sull’essenzialità: una “S” dorata campeggia al centro di un cerchio colorato con due diverse sfumature di azzurro. In realtà però non c’è solo questo, bisogna andare oltre, ha spiegato Vignelli «dentro c’è anche il sole, l’orizzonte, il mare, il tramonto» e addirittura «un ippocampo e un delfino». Anche se, ha confessato lo stesso designer, «gli ultimi elementi uno ce li può pure vedere, ma occorre un certo sforzo».

Il tutto per 200mila euro. Non pochi, soprattutto se si pensa che lo scorso 2 settembre in un video comizio sulla tv locale che ogni settimana ospita i suoi interventi, De Luca tuonava contro gli sprechi della pubblica amministrazione: «È indispensabile razionalizzare le spese, tagliare gli sprechi, cancellare alcune bizzarrie parasindacali». E pensare che Salerno un nuovo marchio ce l’aveva già e gli era costato 197mila euro in meno. Ad aprile infatti il Comune aveva indetto un concorso rivolto a giovani grafici. Oggetto del bando: la realizzazione del nuovo logo di Salerno. A vincere sono stati due ragazzi di 25 anni, Marco De Sangro e Luana Albano, studenti universitari. Sono risultati primi nella graduatoria, ma il premio di 3mila euro ancora non lo hanno visto: « Non ci è arrivata nemmeno una comunicazione ufficiale, ho dovuto chiamare gli uffici comunali per sapere che avevamo vinto», racconta Marco De Sangro. Ora che il suo brand è stato messo senza tante cerimonie da parte, la delusione è tanta: «Non capisco a che cosa sia servito fare il concorso – è la riflessione amara di De Sangro – in questo modo il sindaco di Salerno ha calpestato non solo il lavoro fatto da qualcun altro, ma conferma che in questo paese le idee dei giovani non vengono prese assolutamente in considerazione. Per i politici è meglio fare un’operazione di marketing e legarsi a un grande nome del design, anche se poi il logo è oggettivamente brutto».
 
di Giorgio Mottola, Il Fatto Quotidiano

L’Europa divora il figlio Euro - Galapagos, Il Manifesto

Quella alla quale stiamo assistendo è una lezione di ideologia della globalizzazione. Semplificando: la globalizzazione impone l’esaltazione del profitto e lo schiacciamento dei salari e dei diritti. Chi lo fa è premiato dal mercato. Berlusconi e Tremonti avevano promesso di farlo e non l’hanno fatto; Monti si impegnerà a farlo, ma anche lui ancora non ha trasformato le promesse in atti di governo. E i mercati puniscono l’Italia invitandola a darsi una mossa. Il modello per la globalizzazione è quello cinese. Certo, alcuni si lamentano per la mancanza di libertà, per la concorrenza di prezzo di merci prodotte nei gulag.
Ma si fa finta di dimenticare che quel modello è stato alimentato dagli investimenti produttivi che hanno attirato nel paese decine di migliaia di multinazionale attirate dal basso costo del lavoro e dalla mancanza della libertà che più interessa ai padroni: quella dei diritti dei lavoratori.
Un paese in forte crescita è appetibile, ma anche se un paese è fermo o addirittura arretra può essere una buona occasione di investimento. Ovviamente finanziario. Anzi speculativo. Oltretutto la globalizzazione ha la straordinaria capacità di vedere realizzate le proprie previsioni. I «consigli» agli investitori che elargiscono le tre multinazionali del rating si basano su previsioni che immancabilmente si realizzano. D’altra parte è sufficiente un dubbio (a volte reale) sulla solidità di un paese, per vedere realizzata la previsione: disinvestimenti sui titoli pubblici di quel paese, aumento dei tassi, manovre restrittive «suggerite». A una agenzia di rating non interessa andare a vedere qual è la distribuzione dei redditi in un determinato paese; nessuna ha mai avvertito che stava per esplodere la bolla dei mutui subprime. E questo perché non si occupano che di solidità e finanza. Anzi, di solidità della finanza, visto che mai un’agenzia di rating ha suggerito di far fallire una banca (sono sempre generose nell’attribuire i rating), anche la più truffaldina. Al contrario, la loro religione impone il salvataggio delle banche per non far esplodere l’intero sistema.
Non sono gli unici «sciacalli»: chi fa soldi con i soldi non guarda in faccia nessuno. L’Italia è da mesi nel vortice non solo per colpa del precedente governo, ma perché le banche e le istituzioni finanziarie e i vari fondi (pensione e di investimento) hanno cominciato a disfarsi dei Btp italiani. A dare il via è stata una grande banca tedesca; a seguire le banche del resto del mondo. Insomma, la crisi dell’euro – come la si definisce – è nata all’interno dell’area dell’euro. Così come la crisi greca che, se affrontata tempestivamente dalla fine del 2009, sarebbe stata meno dolorosa, soprattutto per gli incolpevoli cittadini greci. Ma avete mai sentito qualche istituzione internazionale difendere i diritti a vivere dei greci?
La verità è che la Grecia ha fatto comodo. Prima come mercato di sbocco per le merci in particolare tedesche facilitato dall’entrata del paese nell’area dell’euro fortemente voluta dalla Germania. Ora la Grecia fa comodo come esempi per gli altri stati che se in difficoltà devono adottare politiche liberiste. Tutto questo sta mettendo in crisi l’Europa e l’euro: non esistono paesi che possono rimanere indenni dal trasmettersi di questa crisi. Neppure la Germania. Una situazione assurda, la cui drammaticità è aggravata dalla mancanza di una Europa politica, dei popoli. Invece a «dare le carte» sono paesi i cui governi (Francia e Germania) tra pochi mesi dovranno affrontare il giudizio elettorale che li punirà, ma che ora, per una manciata di voti, condizionano e bloccano opzioni non liberiste per la fuoriuscita della crisi. Un banchiere ieri mi ha confessato: «Speriamo che la Germania per la terza volta in un secolo non sia responsabile della distruzione dell’Europa». Sperare costa poco. Intanto conviene prepararci a un’altra Italia e a un’altra Europa.

Denaro-denaro-denaro: il ciclo della finanziarizzazione - Francesco Indovina da www.sbilanciamoci.info

Oggi tocca all’Italia seguire le richieste della Banca europea, dell'Fmi, della Commissione della UE, cioè della finanza, per scivolare lentamente in un remake aggiornato del film di Atene
C’è un po’ di terrorismo in chi è contrario al fallimento nel descriverne gli effetti. Mi è chiaro che giungere a una qualche forma di fallimento non è come bere una tazza di caffè, ma il problema non è questo, il tema è: se ne può fare a meno? Una risposta a questo interrogativo presuppone una qualche considerazione sulle trasformazione del capitalismo. Un po’ mi devo ripetere, mi scuso.
Si sostiene che la crisi attuale è una crisi da eccessiva capacità produttiva e da mancanza di domanda solvibile. Due osservazioni: da una parte questa interpretazione è contraddittoria con l’osservazione che la crisi prende corpo da un eccesso di domanda a “credito”, quindi non la domanda ma la sua finanziarizzazione è il problema; dall’altra parte è vero che c’è una crisi di domanda dato che la popolazione viene continuamente tosata per far fronte alle ingiunzioni della finanza.
È necessario riflettere che la finanziarizzazione dell’economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificazione della sua natura. 
Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (D-M-D), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella odierne denaro-denaro-denaro (D-D-D), che senza la “mediazione” della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza (in poche mani).
Si rifletta sui seguenti dati mondiali: il PIL ammonta a 74.000 miliardi; le Borse valgono 50.000 miliardi; le Obbligazioni ammontano a 95.000 miliardi; mentre gli “altri” strumenti finanziaria ammontano a 466.000 miliardi. Risulta così che la produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari. Quanto uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola. 
Questo dato quantitativo ha modificato la qualità dell’organizzazione economica: mentre resta attiva la parte di produzione materiale si è sviluppata un’enorme massa di attività finanziaria che mentre trent’anni fa lucrava sul “parco buoi”, nome affibbiato a chi affidava alla borsa i propri risparmi nella speranza di arricchirsi, ora lucra sui popoli che da una parte sono sottoposti a una distribuzione non equa di quanto producono (gli indipendenti sono poco tali e sono entrati nella catena allungata del valore aggiunto) e, dall’altra parte, sono tosati (più tasse e meno servizi) in quanto cittadini.
Si tratta di un mutamento che investe la produzione, la distribuzione della ricchezza, ma anche il processo politico e la stessa, tanta o poca che sia, democrazia. Quando la ricchezza si produce attraverso la mediazione della merce era attiva dentro lo stesso corpo della produzione, una forza antagonistica che cercava di imporre una diversa distribuzione della ricchezza prodotta e l'affermarsi di diritti di cittadinanza. Nessun regalo, conquiste frutto di lotte, di lacrime e sangue. Al contrario quando diventa prevalente il meccanismo finanziario, si scioglie il rapporto tra capitale e società, e diventa impossibile ogni antagonismo specifico. Tutto si sposta sul piano politico, un bene e un male insieme. Un male perché manca una cultura alternativa, tutti viviamo entro la dimensione liberista e del mercato, un bene perché è possibile andare alla radice del problema.
È diventato senso comune che il mercato (finanziario) vuole sicurezza e credibilità! È una parte molto modesta della verità. La speculazione finanziaria da se stessa, data la massa di risorse che muove, e le tecnologie che usa (gli High Frequency Trading – HFT – che muovono due terzi delle borse), si crea autonomamente le occasioni di successo per speculare. Come ha scritto Prodi “i loro computer scattano tutti insieme, comprano e vendono gli stessi titoli e forzano in tal modo il compimento delle aspettative”. Contrastare la speculazione, come lo si sta facendo, significa solo offrirle alimento continuo. Si può fare più equamente, e sarebbe importante, ma questo non intaccherebbe il meccanismo. Bisogna colpire direttamente la speculazione al cuore, toglierle l’acqua nella quale nuota. Certo che ci vorrebbe un’azione comune a livello internazionale, ma l’elite politica e tecnica è figlia ideologica, qualche volta non solo ideologica, del liberismo e della finanza; ambedue si possono “criticare” ma non toccare, bisogna farli “operare meglio”. Come ha scritto Halevi, le maggiore banche tedesche e francesi sono piene di titoli tossici, messi in bilancio al loro valore nominale mentre valgono zero, ma il sistema (la governance europea franco-tedesca) difende le banche tedesche e francesi, mettendo in primo piano i debiti sovrani e le banche dei paesi sotto tiro (e quando toccherà alla Francia? Perché toccherà!).
In sostanza il sistema non si tocca; si possono punire, anche severamente, come in America, chi la fa grossa, ma poi si finanziano le banche, né si riesce a mettere una qualche freno (amministrativo, fiscale, legislativo, ecc.) alla speculazione. Come l’apprendista stregone che non riesce a gestire le forze che ha scatenato.
Non voglio dire che il sistema è al collasso, ma è sulla strada; ci vorrà tempo (anche secoli secondo Ruffolo) e ci vorranno forze, ma si coglie “una condizione di insoddisfazione diffusa, di generale incertezza e di sfiducia e timore del futuro”.
La Grecia ha fatto tutto quello che le era stato richiesto, licenziamenti, diminuzione di stipendi, tagli, ecc. ed è giunta, di fatto al fallimento (controllato). La speculazione finanziaria ha aggredito la Grecia, ha tosato la popolazione, ha scarnificato la società. Il furbo Papandreu ha tentato la mossa democratica del referendum, è stato redarguito, bastonato ed ha fatto marcia indietro.
Oggi tocca all’Italia (un po’ alla Spagna, domani la Francia, nessuno è al riparo. La finanza non ha patria, non ha terra, non ha sangue), che si appresta (con serietà, si dice) a seguire le richieste della Banca europea, del Fondo monetario, della Commissione della UE, cioè di fatto della finanza, per scivolare lentamente in una versione diversa della Grecia. 
Ha senso? Certo che no, ma la questione è: ha senso una politica keynesiana? Ha senso una più equa distribuzione dei sacrifici? Ha senso pensare a risposte più “riformiste” e civili alle indicazione della Banca europea? Ha senso pensare ad operation twist (di che dimensione dato l’ammontare del debito italiano), proposta da Bellofiore e Toporowski? senza con tutto questo intaccare il potere e la capacità operativa della speculazione (che costituisce parte strutturale del sistema)?
Credo di no, e mi domando: è necessario continuare ad avere la Borsa che ha perso ogni originale funzione? È possibile dividere le banche che fanno finanza da quelle della raccolta e collocamento del risparmio? È possibile avere una banca europea che operi come una banca nazionale? È possibile avere un governo europeo, non solo economico ma generale? È possibile tassare le rendite e i patrimoni? Ecc. 
Tutto è possibile ma poche cose sono probabili.
Qual è l’ottica con la quale un governo di centro-sinistra (che si dice probabile) deve guardare alla situazione? Certo c’è da ricostruire il senso della società, come dice Rosy Bindi, c’è da ricostruire un ruolo internazionale, c’è da rilanciare lo sviluppo (sostenibile, equilibrato, ambientale, risparmiatore, ecc. lo si qualifichi quanto lo si vuole), c’è da affrontare il problema del lavoro di giovani, donne, precari, disoccupati, c’è da occuparsi di scuola, sanità, territorio, ecc. La domanda è: tutto questo è fattibile insieme al pagamento del debito? Qualcuno (Amato) parla di una patrimoniale di 300-400 miliardi per ridurre drasticamente il debito. Bene, ma tutto il resto come lo si fa? Sacrifici, per piacere no, riforme impopolari per piacere no, e non solo per collocazione politica ma perché inutili e dannosi per fare tutte le cose elencate prima.
Penso che bisogna mettere mano al debito. Il come, dipende da volontà e forza: un concordato con i creditori (via il 30%); una moratoria di 3-5 anni; differenziato rispetto alle persone fisiche e alle istituzioni (le banche che hanno in bilancio titoli tossici potrebbero benissimo tenersi anche i titoli sovrani, con buona pace del Cancelliere tedesco), ecc. La patrimoniale certo che ci vuole, ma dovrebbe servire ad avviare tutte le altre cose, così come una ristrutturazione della spesa pubblica (spese militari, ecc.) potrebbe liberare risorse. Mentre la lotta all’evasione (mancati introiti per 120 miliardi l’anno) e alla corruzione (60 miliardi l’anno) potrebbero servire alla diminuzione delle imposte dei lavoratori. Insomma ci sarebbe tanto da fare, ma bisogna in parte, in toto, o per un certo numero di anni, liberarsi del debito.
Non dovrebbe essere una iniziativa europea? Certo, ma in sua mancanza facciamo da soli, non c’è da salvare una astratta Italia, ma una concreta popolazione di uomini e donne. Questo è il tema.
Oggi ci avviamo al governo del “grande” Mario; che si tratti di persona onesta e retta è molto probabile, ma è il suo pensiero che preoccupa, un pensiero tanto forte quanto inefficace.
 
www.sbilanciamoci.info

giovedì 24 novembre 2011

“Mettere insieme un popolo in una unica volontà”

Le spese militari, il default climatico, il debito.“Dobbiamo fermarli”. 
 
Intervista di Contropiano ad Alex Zanotelli, comboniano e attivista per i diritti umani e sociali.

Anche Alex Zanotelli, missionario comboniano, noto attivista per i diritti fondamentali e impegnato nella campagna per i beni comuni e contro la privatizzazione dell’acqua, ha aderito all’appello “Dobbiamo fermarli” che ha dato vita al comitato NO DEBITO: una campagna nazionale che amplia alla difesa della democrazia, dei beni comuni e dei diritto sociali il tema del non pagamento del debito.
Davanti ad una tazza di the, ci spiega come sia possibile per un missionario e un religioso, assumere una posizione per molti versi controversa rispetto al mantenimento della pace sociale. “Innanzitutto c’è la questione fondamentale delle spese militari” spiega Zanotelli. “Il SIPRI, (Stockholm International Peace Research Institute), ha dichiarato che le spese militari dello stato italiano per il 2010 sono superiori a 23 miliardi di euro, spesa che viene mantenuta costante o in aumento ogni anno.” Come aveva già detto il 15 ottobre in piazza della Repubblica Con i soldi che l’Italia ha speso nel 2010 in armi, cioè 23 miliardi di euro, più i 17 miliardi per i cacciabombardieri F35, avremmo realizzato la manovra finanziaria 2012”.L’Italia è all’ottavo posto al mondo per spese militari, oltre ad essere il secondo produttore mondiale di armi dopo gli Stati Uniti. Per il 2011 lo stanziamento complessivo è stato di 20.556,9 milioni di euro, cifra che esclude però lo stanziamento per l’Arma dei Carabinieri, le Funzioni Esterne, il Trattamento di Ausiliaria e i fondi presi “in prestito” dal bilancio del MiSe (min. Sviluppo Economico) e MIUR (min. istruzione Università e Ricerca). “Se aggiungiamo il costo esorbitante che ha avuto la guerra in Libia (stimanti sui 12 milioni di euro a settimana!!!) e il costo per gli F-35 (il cui programma in collaborazione con gli USA ha avuto un costo di 208 miliardi di dollari nel 2011) ci salta fuori una manovra finanziaria”.