sabato 30 giugno 2012

Coordinamento Regionale Umbro - RIFIUTI ZERO - la Strategia




Le proposte del controvertite contro la crisi


Un'altra strada. 


 I 150 partecipanti al Forum Internazionale «Un'altra strada per l'Europa», tenutosi giovedì 28 al Parlamento europeo a Bruxelles, hanno discusso delle alternative praticabili alla mancanza di azione efficace contro la crisi europea attese dal Consiglio europeo di Bruxelles. Tra le azioni concrete richieste, le seguenti cinque proposte assumono il carattere di estrema urgenza.
Per affrontare la drammatica accelerazione della crisi finanziaria europea - segnata dall'interazione tra crisi bancaria e crisi del debito pubblico - la Banca centrale europea deve agire immediatamente in qualità di prestatore di ultima istanza per i titoli di Stato. Il problema del debito pubblico va risolto con una responsabilità comune dell'eurozona, attraverso meccanismi istituzionali che possano essere introdotti immediatamente; il debito va sottoposto a una valutazione e un «audit» pubblico.
È necessario un radicale ridimensionamento della finanza, con l'introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, limiti alla finanza speculativa e ai movimenti di capitali e con un'estensione del controllo sociale, in particolare sulle banche che ricevono salvataggi pubblici. Il sistema finanziario dovrebbe essere trasformato in modo tale da sostenere investimenti produttivi sostenibili da un punto di vista sociale e ambientale. È necessario rovesciare le politiche di austerità in tutti i paesi d'Europa e rivedere i termini dei Memorandum imposti ai paesi che hanno richiesto «aiuti d'emergenza» dall'Unione europea, a cominciare dalla Grecia; i pericolosi vincoli del «Patto fiscale» vanno eliminati in modo che i governi possano tutelare la spesa pubblica, il welfare e i salari, mentre l'Europa deve assumere un ruolo maggiore per stimolare la domanda, promuovere la piena occupazione e avviare uno sviluppo equo e sostenibile. Le politiche europee devono inoltre portare all'armonizzazione fiscale, mettere fine alla concorrenza tra stati e spostare l'imposizione fiscale dal lavoro ai profitti e alla ricchezza. Il lavoro e la contrattazione collettiva devono essere difesi; i diritti del lavoro sono parte essenziale dei diritti democratici in Europa. Occorre impegnarci subito per cambiamenti di lungo termine nelle seguenti direzioni:
Un «new deal verde» può rappresentare la via d'uscita dalla recessione in Europa con grandi investimenti per una transizione ecologica verso la sostenibilità, creando nuovi posti di lavoro di qualità, ampliando le capacità produttive in settori innovativi e allargando le possibilità di politiche nuove a livello locale, in modo particolare sui beni pubblici.
La democrazia deve essere estesa a tutti i livelli in Europa; l'Unione europea va riformata e la concentrazione di potere nelle mani degli Stati più potenti - così come si è realizzata con la crisi - va rovesciata. L'obiettivo è una maggiore partecipazione dei cittadini, un ruolo più incisivo del Parlamento europeo e un controllo democratico molto più significativo sulle decisioni chiave. Le prossime elezioni europee del 2014 devono rappresentare un'opportunità per compiere scelte tra proposte alternative per l'Europa all'interno e trasversalmente gli Stati membri dell'Unione.
Di fronte al rischio di un collasso dell'Europa, le politiche europee devono cambiare strada e un'alleanza tra società civile, sindacati, movimenti sociali e forze politiche progressiste - in particolare nel Parlamento europeo - è necessaria per portare l'Europa fuori dalla crisi prodotta da neoliberalismo e finanza, e verso una vera democrazia.

il Manifesto 30-6-2012

Disoccupati e sfrattati




Quest'anno il Pil diminuirà di almeno il 2,4 per cento. Nessuno vuole spendere più un euro. Il blog lo aveva già previsto da tempo. Non ci voleva molto. Una politica folle con l'aumento abnorme della tassazione e tagli ai servizi fatti alla carlona non poteva che portare alla recessione. Perché, anche se non ve lo hanno ancora detto, siamo entrati in recessione. Prima della crescita bisognerà aspettare almeno il 2014. La recessione e la disoccupazione sono gemelle siamesi. Aspettiamoci quindi qualche milione di disoccupati in più nel prossimo anno e mezzo. Questa è la vera emergenza. Trovare modalità e risorse per aiutare chi perde tutto e rischia di finire in mezzo a una strada. Lo Stato deve prendersi carico degli ultimi sia sospendendo gli sfratti e garantendo le proprietà, sia istituendo un reddito di cittadinanza per i disoccupati. Dove trovare le risorse? Livellando le maxi pensioni, tagliando le spese militari, i finanziamenti all'editoria e ai partiti, eccetera, eccetera. C'è solo l'imbarazzo della scelta.

fonte: http://www.beppegrillo.it/

venerdì 29 giugno 2012

VERTICE EUROPEO: MOLTO FUMO POCO ARROSTO di Moreno Pasquinelli,


Monti non tira le cuoia (per adesso) ma l'euro resta in bilico

Scriviamo a caldo, mentre i lavori del vertice europeo si sono appena conclusi. Le edizioni web dei principali quotidiani italiani gridano al "grande successo" visto che "l'accordo è stato raggiunto". Ma quale accordo è stato raggiunto? E riusciranno le misure adottate a sventare il rischio di un crack combinato di banche e debiti sovrani?
Contrariamente ai media italiani, spagnoli e francesi, Financial times e Wall street journal sono molto più prudenti e i loro giudizi sono improntati al pessimismo. A ragione.
Cosa infatti contempla l'Accordo della notte scorsa? Oltre alla scontata conferma dell'aiuto di 100 Mld alla Spagna, esso contempla l'istituzione di un meccanismo di vigilanza, gestito dalla Bce, sulla banche dell'eurozona. Una volta istituito, e solo dopo, il MES potrà utilizzare i suoi fondi  per ricapitalizzare e soccorrere le banche in difficoltà —in difficoltà, non dimentichiamolo per avere in pancia un' enorme quantità di titoli pubblici ormai prossimi ad essere "titoli spazzatura" (acquistati con la liquidità offerta loro dalla Bce (Ltro), e per avere in bilancio una massa di crediti considerati inesigibili.
Molto fumo, poco arrosto. 
Primo: sono in molti a ritenere che le risorse effettivamente erogabili (circa 500 Mld a disposizione del MES, 200 Mld teoricamente disponibili del fondo Efsf), sono del tutto insufficienti in caso di nuova tempesta finanziaria. 
Secondo: come si sa, questi fondi vengono elargiti dagli stessi stati membri, tra cui gli stessi che dovranno ricorrere agli aiuti. Un meccanismo quantomeno singolare per cui, Spagna e Italia, potranno sì attingere alle risorse del MSE e del Efsf, ma solo dopo che avranno sborsato le loro quote (solo l'Italia  ha un onere di 139 miliardi). In altre parole per calmierare lo spread questi paesi dovranno indebitarsi ulteriormente, col che non solo crescita del debito ma addio al pareggio di bilancio. 
Terzo: come la Merkel e lo stesso Draghi hanno precisato questa mattina, chi attingerà a questi fondi di salvataggio dovrà subire la supervisione della troika Bce-Ue-Fmi quindi rispettare condizioni rigorose. In buona sostanza la medesima procedura a cui è sottoposta la Grecia, le stesse cure da cavallo come contropartita.
Hanno una bella faccia tosta, i giornali italiani, a definire questa operazione un "solido scudo" contro il rischio di fallimenti bancari e di default dei debiti sovrani. Si tratta di uno scudo di cartapesta. In sintesi questo Accordo è ben più modesto di quanto noi stessi ritenevamo possibile [Verso il vertice del 28 giugno]. Ben lontano, com'è evidente, dal risultato che si attendevano i mercati finanziari. E' doveroso ricordare quali erano le misure considerate salvifiche e inderogabili: (1) Eurobond, (2) permettere alla Bce di acquistare i titoli pubblici e (3) spingere la Bce ad avviare una politica monetaria di Quantitative easing come la Fed americana.
In estrema sintesi e al di la delle chacchiere, la "linea dura" della Merkel ha avuto la meglio. E ciò si vedrà nelle prossime ore, con gli spread che saliranno. Si vedrà con la reazione delle borse sin dalle riaperture di lunedì prossimo.
Mario Monti spaccia il tutto per vittoria. Ha imparato da Berlusconi il mestiere di piazzista. Ottiene in effetti luce verde all'eventualità di salvataggio delle banche spagnole e italiane in caso di tempesta finanziaria, ma a condizioni ben peggiori di quelle che si aspettava. Per di più non è affatto scontato che, una volta salvate le banche sull'orlo della bancarotta, si riesca a fermare la speculazione ribassista sui titoli pubblici e il contagio sui debiti sovrani.
La grande stampa italiana, il Pd, Casini e quella parte del Pdl che vogliono tenerlo in sella per il tempo che serve loro a riprendere fiato, sono obbligati a tenergli il moccolo. Se in effetti Monti fosse tornato a casa con in mano il fallimento conclamato del vertice, egli molto probabilmente, avrebbe dovuto fare le valigie. 
Ma il mezzo fallimento non è una mezza vittoria. E questo lo vedremo molto presto, nelle prossime settimane, forse nei prossimi giorni.

“I bambini col cancro portino la croce”: le bestemmie della Binetti By ilsimplicissimus


Credo che se la senatrice Binetti fosse vissuta in Palestina ai tempi di Ponzio Pilato, i vangeli sarebbero diversi: avrebbe strappato bestemmie pure a Cristo. 
Invece di andare da un buon terapeuta, questa seguace della massoneria cattolica, insiste nel voler essere un ennesimo cilicio per questo Paese.
Oggi ha superato se stessa  dichiarandosi contraria alla terapia del dolore per i bambini pazienti oncologici, “perché è giusto che anche loro portino la croce di Gesù”. Non è nemmeno commentabile, queste posizioni non hanno nulla a che fare con la religione, persino con quella simulazione rappresentata in pompa magna dalla casta cardinalizia, ma solo con la poca salute mentale della senatrice chiaramente affetta da schizofrenia di tipo paranoide, come ampiamente illustrata nel DSM IV. Anzi proprio la pietas cristiana imporrebbe di ricoverarla al più presto.
D’accordo che siamo di fronte a una sindrome diffusa nella casta , visto che anche la Fornero soffre dei medesimi sintomi e pretende che i lavoratori portino la croce prima di ottenere il lavoro. Ma francamente quando è troppo è troppo e dobbiamo chiederci a chi si debba l’elezione di questo avanzo di manicomio. Probabilmente  allo stesso che ha candidato Calearo. Il quale è ormai, a sua volta, un avanzo tout court.
Per fortuna a tutto questo c’è un sicuro rimedio farmacologico: calcinculina in dosi massicce per via intramuscolo. Una volta lontani dal potere che aggrava straordinariamente i sintomi, i pazienti migliorano e tornano quasi umani, perdono quel senso di onnipotenza che li induce alla pornolalia sociale e umana. Anche per i cittadini è un ristoro non dover pagare profumatamente per il loro mantenimento:  essere solidali con chi soffre di malattie mentali invalidanti in Parlamento è un dovere, a patto però di tenerli con la camicia di forza per impedire che aggrediscano la società italiana.

giovedì 28 giugno 2012

La Costituzione esce dalle fabbriche di Giorgio Cremaschi, Micromega

Il 20 maggio 1970 veniva approvato lo statuto dei lavoratori. Allora si disse, usando una frase di Di Vittorio, che la Costituzione varcava finalmente i cancelli dei luoghi di lavoro. Oggi ne esce, con la controriforma del lavoro suggellata dalle dichiarazioni tecnicamente reazionarie della ministra Fornero. Il lavoro non ha più diritti e non è più un diritto, può solo essere il premio di chi vince la competizione selvaggia nel mercato e nella vita.
Di fronte a questa drammatica sconfitta sento prima di tutto il bisogno di scusarmi per la parte che ho in essa. Tempo fa avevo scritto e detto che di fronte all’ attacco all’articolo 18 avremmo fatto le barricate. Pensavo ancora alla Cgil guidata da Cofferati dieci anni fa e alle rivolte dei sindacati e del popolo greco oggi. Non è stato così, mi sono sbagliato sono stato troppo ottimista. E ora subiamo la più dura sconfitta sindacale dal dopoguerra senza aver combattuto in maniera adeguata.
Colpa dei lavoratori impauriti e ricattati dalla disoccupazione e dalla precarietà? No, colpa dei dirigenti di quello che una volta definivamo movimento operaio ed in particolare di quelli della Cgil. Non è vero infatti che su questo tema non ci fossero spinte alla mobilitazione. È vero anzi il contrario. A primavera era cresciuto un movimento diffuso nelle fabbriche con adesioni agli scioperi anche di iscritti a Cisl e Uil. C’era stata la manifestazione Fiom del 9 marzo a Roma e quella promossa dal NoDebito a Milano. La Cgil aveva proclamato 16 ore di sciopero. Certo erano ancora avanguardie di massa quelle che si mobilitavano, ma il loro consenso era diffuso e trasversale, maggioritario nel paese.
Uno sciopero generale della portata delle lotte del 2002 era alla portata ed avrebbe aperto un fronte complessivo con il governo, mettendo in gravi difficoltà Cisl e Uil e ancor di più il partito democratico. Ed è per questo che non si è fatto. La squallida mediazione definita tra i partiti di governo si è trasferita sul progetto di legge, Cisl e Uil hanno accettato e la Cgil ha finito di opporsi. E, fatto ancor più grave, ha accettato la mediazione che cancellava l’articolo 18 facendo finta di aver vinto. A quel punto la prospettiva di una unificazione delle lotte è saltata e anche la Fiom ha drasticamente ridimensionato la propria iniziativa. Il movimento si é quindi ridotto a singole azioni di lotta, da ammirare ringraziare, ma insufficienti a pesare sul quadro politico. Tante fabbriche metalmeccaniche, prime la Same e la Piaggio han continuato eroicamente a scioperare. I sindacati di base hanno generosamente scioperato il 22 scorso. Ma non poteva bastare, tenendo conto anche del terribile regime informativo che censura ogni dissenso mentre ossessivamente grida: viva Monti, viva l’euro, viva il rigore.
La giornata del voto ha così rappresentato la sconfitta. Con poche centinaia di persone davanti Montecitorio divise a metà, e con gli organizzatori della Cgil che mettevano la musica rock ad alto volume per coprire le voci dell’assemblea spontanea che si stava svolgendo in una parte della piazza.
Sì io sento il bisogno di scusarmi per questa sconfitta e per come è maturata, anche se credo di aver fatto tutto quello di cui sono capace per impedire che le cose andassero così.
Ora abbiamo il modello Marchionne esteso a tutto il mondo del lavoro e dobbiamo ricostruire potere e forza. Non sarà facile ma ci dobbiamo provare, ancor di più noi che siamo consapevoli della portata di questa sconfitta. Senza fare sconti a chi ne è più responsabile nel sindacato, e senza dimenticare mai più la colpa di Monti e del Pd che lo sostiene. Dei quali dovremo essere solo intransigenti avversari.

Fotovoltaico: la spesa statale degli incentivi è minima rispetto ai vantaggi

Incentivi fotovoltaico, secondo l’ASPO i costi sono giustificati
I circa 70 miliardi di euro che serviranno a incentivare il fotovoltaico nel periodo 2012-2031 non sono una spesa inutile né, men che meno, una grande truffa ai danni dei cittadini che li pagano in bolletta. Al contrario i benefici complessivi degli incentivi al fotovoltaico sono superiori al loro costo.
È l’analisi dell’ASPO che, in un post a firma di Dario Faccini su Nuove Tecnologie Energetiche, fa i conti per capire se e quanto conviene incentivare l’energia rinnovabile prodotta dal sole.
Faccini confronta la spesa per gli incentivi, per 20 anni, che ammonta a 72,4 miliardi di euro con le altre spese caricate sulle bollette degli italiani negli scorsi anni e che, per alcune voci, dureranno fino al 2020. Spese importanti come il decommissioning nucleare (una ventina di miliardi) o anche gli incentivi Cip6 per le assimilate alle rinnovabili (un’altra ventina di miliardi). Il tutto per un totale che Faccini calcola il 61,7 miliardi di euro di peso sulle bollette.

Poi, però, ci sono i vantaggi del fotovoltaico:
La colonna centrale è molto importante in quanto riporta alcuni benefici che deriveranno dal fotovoltaico già installato. In ordine, partendo dal basso, si possono stimare in modo conservativo: 1,16 miliardi per minori spese di quote CO2; 15,7 per l’abbassamento del prezzo dell’elettricità nelle ore centrali della giornata (peak shaving); circa 8 per minori esternalità ambientali e sanitarie (danni evitati rispetto ad aver utilizzato centrali termoelettriche); 19,3 come valore di mercato dell’energia prodotta. Tralasciando quest’ultimo contributo, la parte di colonna colorata rappresenta i benefici che abbiamo noi, come cittadini paganti la bolletta elettrica.

A guardare le cinque colonne del grafico che rappresenta i costi e i benefici degli incentivi al fotovoltaico sembrerebbe che i secondi siano minori dei primi: 72,4 miliardi di costi contro circa 45 miliardi di benefici. In realtà c’è anche altro da considerare: gli incentivi hanno fatto crollare il prezzo degli impianti fotovoltaici del 60% in meno di sei anni. Spiega Faccini:
Ecco che ora si inizia a intravedere quello che va considerato a tutti gli effetti come il grande successo delle varie incentivazioni al fotovoltaico dei paesi più avanzati: grazie a esse il costo di installazione è crollato. Solo in Italia è sceso del 60% almeno in 6 anni. L’incentivazione pubblica quindi non è servita solo per avere energia prodotta dal fotovoltaico, ma anche per creare le condizioni per un economia di scala dell’intero settore finalizzato all’abbattimento dei costi di installazione
Se avessimo installato tutti i 13 GW di potenza fotovoltaica che abbiamo in Italia nel solo anno 2006 avremmo speso ben 65 miliardi di euro. Se li dovessimo installare tutti oggi spenderemmo 24,7 miliardi di euro. La differenza tra queste due cifre va sommata a quei 45 miliardi di benefici che prima sembravano pochi ma che, facendo bene i conti, non lo sono affatto.
Fonte: ASPO

Bilancio partecipativo: iniziati i lavori delle opere decise dai cittadini

Presentati i lavori pubblici votati dai cittadini
SARANNO I CITTADINI A INAUGURARE A SETTEMBRE LE SCUOLE MIGLIORATE GRAZIE AL BILANCIO PARTECIPATIVO.  Al via in questi giorni i lavori che si concluderanno prima del nuovo anno scolastico

Saranno gli ottanta cittadini che hanno elaborato i progetti del bilancio partecipativo a inaugurare le opere pubbliche, scelte dalla comunità attraverso il voto popolare del dicembre scorso, che saranno realizzate dall’amministrazione comunale prima dell’avvio del nuovo anno scolastico.
A breve, infatti, partiranno i lavori – da ricordare che in ogni ex circoscrizione ha vinto un progetto riguardante le scuole – e saranno conclusi a settembre, prima della ripresa delle lezioni.
Questa la novità emersa ieri sera (martedì 19), durante un’iniziativa organizzata dal sindaco Giorgio Del Ghingaro, dalla giunta e dal dirigente responsabile Valter Alberici per presentare a tutti gli interessati gli interventi che a breve diventeranno operativi.
“La trasparenza ha rappresentato l’elemento cardine di questa importante esperienza di partecipazione – dice l’assessore alla partecipazione, Alessio Ciacci – e pertanto vogliamo condividere con i cittadini ogni passaggio, fino all’ultimazione dei lavori. La partecipazione si è dimostrata uno strumento prezioso per migliorare l’azione amministrativa, ed è con grande piacere che già possiamo annunciare che ripeteremo, anche quest’anno, l’esperienza del bilancio partecipativo. Abbiamo, inoltre, deciso di far inaugurare le opere realizzate agli ottanta cittadini perché è giusto che, dopo la fatica di aver acquisito informazioni sulla gestione del bilancio comunale e l’impegno nella progettazione, possano toccare con mano il frutto concreto delle loro idee. A Capannori, da metà settembre, ci saranno sul territorio dei lavori pubblici pensati, progettati, votati, e di conseguenza realizzati, direttamente dai cittadini nell’interesse generale. Vogliamo continuare in questa direzione costruendo un modo nuovo di fare politica e di pensare il futuro della nostra comunità. Ringrazio, infine, tutti i partecipanti e gli uffici comunali che hanno provveduto a trasformare in progetti definitivi le scelte della comunità”.


fonte: http://www.ciaccimagazine.org/

Appuntamento speciale a Marlia: La Festa del Mercato Contadino

SABATO 30 GIUGNO SI FESTEGGIA IL 3° COMPLEANNO DEL MERCATO CONTADINO DI CAPANNORI
Dalle 8.30 alle 12.30 ventuno banchi con prodotti della filiera corta, una lotteria e un’edizione speciale di “Soffitte in piazza”

Giornata di festa sabato 30 giugno a Marlia per il terzo compleanno del Mercato contadino di Capannori. Dalle ore 8.30 alle 12.30 in piazza del Mercato, accanto ai tradizionali banchi dei prodotti di filiera corta, sono previsti eventi speciali. A chi farà acquisti nella prima parte della mattinata sarà consegnato un biglietto della lotteria, la cui estrazione avverrà alle ore 11. Il vincitore si aggiudicherà un cesto di prodotti tipici. La mattinata proseguirà con un buffet di specialità offerte dagli espositori allietato dalla musica di una band.
Nel corso della festa si svolgerà anche un’edizione speciale di “Soffitte in piazza”, il mercatino dedicato alla vendita e allo scambio di oggetti usati che non si adoperano più e rischiano di essere gettati come rifiuti.
Sono 21 i banchi che si trovano al mercato contadino, che è gestito dall’associazione “Per Lammari”. In vendita ci sono fiori e piante, comprese quelle da orto, ortofrutta, miele, zafferano, formaggio vaccino e pecorino, yoghurt, legna e biomasse, carne fresca di tutti i tipi, salumi, anche di cinta senese dop, miele e saponette. Tra i prodotti che è raro trovare in vendita altrove ci sono delle varietà di insalata, come quella di Castelfranco e la Pesciatina, oppure i fagioli rossi di Lucca e quelli “malati”. Tutti i prodotti vengono controllati mediante verifiche periodiche in azienda effettuate da un esperto.


fonte: http://www.ciaccimagazine.org/

Condominio popolare di 3 piani in legno. Giovedì l’inaugurazione a Capannori

GIOVEDI’ 28 GIUGNO SI INAUGURANO GLI ALLOGGI ECOLOGICI DI EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA DI SANTA MARGHERITA
Sono pronti gli alloggi ecologici di edilizia residenziale pubblica in via dello Scatena a Santa Margherita. Saranno inaugurati – e consegnati a 9 famiglie appartenenti alle fasce più deboli della popolazione – giovedì (28 giugno) alle ore 12.30. Alla cerimonia saranno presenti l’assessore alle politiche per la casa della Regione Toscana, Salvatore Allocca, il sindaco, Giorgio Del Ghingaro e il presidente di Erp Lucca, Francesco Franceschini.
L’edificio, realizzato grazie a un finanziamento regionale, è ad alta efficienza energetica ed è stato costruito rispettando i criteri della bioedilizia. Si tratta del secondo caso di alloggi di edilizia popolare ecologica realizzati a Capannori.

Nel 2010 furono inaugurati quelli di Marlia, i primi del genere in Toscana, certificati in classe energetica A, che hanno ottenuto un riconoscimento per il Premio Toscana Ecoefficiente 2012, ritirato dall’Assessore all’Ambiente Alessio Ciacci in occasione di TerreFutura a Firenze il 25 Maggio scorso.

fonte: http://www.ciaccimagazine.org/

Esperti italiani e francesi a confronto sulle politiche ambiantali a Capannori

Seminario conclusivo del progetto europeo transfrontaliero Active
GIOVEDI’ 28 GIUGNO ESPERTI ITALIANI E FRANCESI A CONFRONTO SULLE BUONE PRATICHE AMBIENTALI
. Tra le tematiche affrontate ci saranno la tia puntuale, il programma comunale di prevenzione dei rifiuti di Capannori e Agenda 21



Esperti della Toscana e della Corsica si confronteranno sulle buone pratiche ambientali giovedì 28 giugno a partire dalle ore 9 a Villa Mansi a Segromigno in Monte nel corso del seminario di chiusura del progetto europeo transfrontarliero Activ.Ve – Action Verte finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del Programma Operativo di Cooperazione Territoriale Transfrontaliera – Italia – Francia “Marittimo” 2007 – 2013, di cui Capannori è Comune capofila. Sarà una giornata di studi, aperta anche al pubblico che potrà intervenire facendo domande, durante la quale saranno analizzati i comuni denominatori della azioni di sostenibilità ambientale realizzate dai soggetti partner del progetto affinché possano essere valorizzate ed esportate.
Si parlerà di alcuni casi modello come il contributo che la “tia puntuale”, sperimentata da gennaio in 8 frazioni del Comune di Capannori porta all’obiettivo “Rifiuti Zero”, del programma comunale di prevenzione dei rifiuti di Capannori e di come in alcune comunità dell’Unione del Comuni della Valdera si siano realizzate pratiche virtuose, quali la raccolta differenziata con gli asini a Santa Maria a Monte.
Dopo la registrazione dei partecipanti, il seminario si aprirà con i saluti del sindaco di Capannori, Giorgio Del Ghingaro. Seguirà la presentazione del progetto e la proiezione del video “Acti.ve. Un approccio comune di sviluppo sostenibile al servizio dei territori partner nell’area di cooperazione” a cura di Arianna Buti del Centro studi europeo Plural. Interverranno poi Pietro Ugolini, professore dell’Università di Genova – direttore del Cruie (Centro di ricerca per l’urbanistica, le infrastrutture e l’ecologia) e presidente del comitato scientifico di Acti.ve, che tratterà l’argomento “Verso una rete transfrontaliera di Agenda 21”. L’assessore all’ambiente, Alessio Ciacci, invece, illustrerà le azioni del progetto Acti.ve a Capannori. Mario Santi, rifiutologo, parlerà del programma comunale di prevenzione dei rifiuti del Comune di Capannori. Maurizio Gatti, presidente di Ascit, parlerà della tariffazione puntuale. “Lo studio di fattibilità di Agenda 21” sarà, invece, l’argomento trattato da Marie-Françoise Marti del Dipartimento della Corsica del Sud. La mattinata si concluderà con gli interventi di Giovanni Forte, direttore dell’Unione Valdera, che parlerà delle azioni del progetto “Acti.ve” in Valdera, e di Francesco Luvisi di Lucense, che esporrà lo studio di fattibilità per la realizzazione di un impianto di valorizzazione di rifiuti industriali attraverso i processi partecipativi della cittadinanza.
Il seminario si concluderà nel pomeriggio con una tavola rotonda, in programma dalle ore 14 alle ore 16, dal titolo “Esperienze di politiche sostenibili negli Enti Locali a confronto


fonte: http://www.ciaccimagazine.org/

mercoledì 27 giugno 2012

I QUATTRO EURO FALSI, da Left Avvenimenti


Cesaratto, Brancaccio, Stirati, Gnesutta: quattro economisti italiani smontano i quattro più importanti “luoghi comuni” che riempiono le pagine dei giornali, nei giorni che precedono il vertice di Bruxelles del 28 e 29 giugno, nel quale si deciderà il futuro dell’Europa. Tesi economiche ripetute come un mantra, eppure false sul piano teorico ed empirico. Quattro economisti “critici” ci spiegano perché le tesi fondamentali dell’economia neoliberista non sono la soluzione, ma il problema.

1. Per salvare l’euro serve un’Europa politica basata sull’austerity? NO.
Assolutamente no se per Europa politica si intende ciò che ha più volte ripetuto Angela Merkel. L’Europa che ella prefigura è assai inquietante: una definitiva espropriazione della libertà democratica dei cittadini sulle decisioni in materia di bilancio, accentrate a Bruxelles. In cambio la Germania propone un “fondo di redenzione” in cui i Paesi metterebbero in comune il debito eccedente il fatidico 60 per cento del Pil, impegnandosi a restituirlo in una ventina d’anni. Null’altro che un rafforzamento del cosiddetto fiscal compact già imposto da Berlino: due decenni di austerità assicurata in una Europa divisa fra ricchi e poveri. È questa una prospettiva inaccettabile e disastrosa. Più Europa servirebbe, invece, se l’obiettivo fosse quello di assicurare la crescita delle aree più svantaggiate. Qualsiasi soluzione deve rispondere al problema alla base della crisi: la moneta unica ha aggravato i differenziali di competitività fra le economie europee deboli e forti. Questo ha prodotto una decade di stagnazione e poi la crisi per l’Italia, mentre la Spagna ha mascherato il problema dietro una crescita di carta, anzi di mattone, finanziata da afflussi di capitali tedeschi e si ritrova oggi indebitata sino al collo. In genere coloro che credono nei poteri salvifici dell’Europa politica tralasciano tali problemi e ne trascurano i relativi costi e ostacoli politici, provenienti soprattutto dai tedeschi. Una Europa politica genuina e sostenibile implica infatti principi di riequilibrio economico fra Paesi e di perequazione sociale fra i propri cittadini che possono essere realizzati in due modi. Il primo è una vera svolta europea volta a: mettere assieme i debiti pubblici (eurobond) stabilizzando i debiti pubblici nazionali, invece di ridurli; creare un bilancio federale degno di questo nome per sostenere domanda, occupazione e ambiente; riformare la Bce nella direzione del sostegno alla politica fiscale e sviluppo; fissare un target di inflazione almeno al 4 per cento, con l’impegno tedesco ad attenersi a tale obiettivo, dando spazio al recupero di competitività dei Paesi periferici. In alternativa si potrebbe procedere verso una “transfer union” che mantiene lo status quo nelle competitività relative, mentre i Paesi forti redistribuiscono alla periferia i proventi dei surplus commerciali sotto forma di congrui trasferimenti monetari, in modo da realizzare una perequazione negli standard di vita. Mentre la seconda strada è chiaramente inattuabile, la prima potrebbe essere tempestivamente perseguita. Ciò senza richiedere premature ed eccessive cessioni di sovranità nazionale. Ma l’opposizione della Germania a quelle ragionevoli misure è formidabile, non volendo quel Paese abbandonare il proprio modello neomercantilista basato sulle esportazioni. In verità c’è al momento un bailamme di proposte volte ad aprire un varco al muro dei nein tedeschi. La confusione è dunque grande e non promette nulla di buono e di tempestivo, mentre i mercati non perdoneranno le mezze misure. Appena i tassi sui buoni decennali italiani supereranno il 7 per cento preparatevi al peggio. di Sergio Cesaratto. Ordinario di economia politica all’università di Siena. Scrive sul blog politicaeconomiablog.blogspot.com
2. L’aumento dello spread dipende dal debito pubblico degli Stati? NO.
Lo spread è la differenza tra due tassi d’interesse. Nello specifico, è la differenza tra i tassi di interesse che pagano sul proprio debito i Paesi periferici dell’euro e il tasso pagato sui titoli della Germania. Lo spread tende ad aumentare quando il mercato inizia a contemplare l’eventualità di una caduta del valore dei titoli dei Paesi periferici. Per convincere i mercati a trattenere i titoli e magari ad assorbirne di nuovi, bisogna offrire un tasso d’interesse più elevato. In genere è così che lo spread inizia la sua inquietante scalata. Fin dalla nascita dell’euro, e in modo ancor più accentuato a partire dalla crisi del 2008, gli spread dei paesi aderenti alla zona euro hanno presentato correlazioni non tanto con il deficit e il debito pubblico, quanto piuttosto con il deficit e il debito verso l’estero, sia pubblico che privato. In altri termini, non è l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate fiscali a preoccupare tanto, quanto piuttosto l’eccesso di importazioni sulle esportazioni verso l’estero. Un eccesso che si concentra nei paesi periferici dell’Unione e che rappresenta l’immagine speculare del surplus di esportazioni tedesco. Rispetto alla vulgata, che si concentra pressoché esclusivamente sui pericoli derivanti dai bilanci pubblici, questi risultati appaiono sorprendenti. Eppure, la loro spiegazione è semplice. Gli alti tassi d’interesse, e quindi anche gli alti spread rispetto ai tassi tedeschi, si spiegano con il fatto che gli operatori sui mercati prevedono non semplicemente un fallimento di alcuni Stati, quanto piuttosto un loro sganciamento dall’Euro e una svalutazione del cambio. In particolare, in una fase di crisi come l’attuale, i Paesi in deficit commerciale verso l’estero potrebbero vedersi costretti a un certo punto ad abbandonare la moneta unica, riconquistare la sovranità monetaria e svalutare la moneta nazionale. Se dunque lo spread sale, ciò significa che gli operatori finanziari non prevedono semplicemente un default di alcuni Stati, ma si attendono che questi abbandonino la zona euro. Chi contempla questa eventualità risulterà disposto a trattenere i titoli dei Paesi a rischio di sganciamento solo in cambio di tassi d’interesse più elevati. Pertanto, l’evento che appariva inconcepibile appena pochi mesi fa, ora viene scontato nei valori effettivi ai quali si scambiano i titoli sui mercati finanziari. Ed è bene ricordare che tale sconto avviene sui titoli sia pubblici che privati: la previsione di una uscita dall’euro modifica il valore dei debiti non solo dello Stato ma anche delle banche, delle imprese e delle famiglie. di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, autori di L’Austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Il Saggiatore, Milano 2012). Nel 2008 Brancaccio scrive il saggio Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista (Studi economici, 2008), nel quale anticipa il tema di un’Europa divisa tra Nord e Sud e prevede la crisi degli spread

3. Per tornare alla crescita bisogna liberalizzare il mercato del lavoro? NO.
Secondo la teoria tradizionale la deregolamentazione del mercato del lavoro e la flessibilità verso il basso dei salari farebbero aumentare l’occupazione. Si sostiene, cioè, che la domanda di lavoro è inversamente proporzionale al suo costo. Più alti sono i salari, minore è la domanda di lavoro, più cresce la disoccupazione. Questa idea nel corso del ’900 è stata messa in discussione de Keynes e Sraffa e sul piano empirico non ha riscontri. Persino un’istituzione internazionale favorevole alla liberalizzazione del mercato del lavoro come l’Ocse nei suoi studi non ha trovato relazioni tra gli indici di protezione dell’impiego e i tassi di disoccupazione. Altri studi dimostrano al contrario che la disoccupazione è in relazione con l’andamento della domanda aggregata. E che esiste una relazione positiva tra alti salari, crescita dei consumi, crescita del Pil e alta occupazione. La deregolamentazione del mercato del lavoro e la spinta in basso dei salari possono determinare anche la riduzione della produttività: le imprese, potendo comprimere il costo del lavoro, sono meno incentivate a introdurre innovazioni tecnologiche. In un mercato aperto, una riduzione dei costi e dei salari può effettivamente consentire una crescita delle esportazioni. Ciò è recentemente avvenuto, ad esempio, in Irlanda e in Germania. La prima ha attratto investimenti offrendo alle imprese vantaggi fiscali. La Germania è invece riuscita a far crescere la produttività, senza far crescere i salari. Ma la competitività è sempre relativa. Se tutti i competitori abbassano i salari, non vince nessuno. L’unico risultato è una riduzione della domanda e della crescita. Per recuperare il differenziale di competitività con la Germania i Paesi della sponda Sud dovrebbero ridurre i salari e i prezzi dei beni esportati di qualcosa come il 30 per cento. Se accadesse (come è probabile) che la riduzione dei salari non producesse un’eguale discesa dei prezzi, il potere d’aquisto delle retribuzioni si ridurebbe, creando contraddizioni sociali insostenibili. D’altra parte se anche i prezzi scendessero, questo renderebbe comunque il debito contratto, sia pubblico che privato, più oneroso, con conseguenze gravissime. Se il problema è di riallineare la competitività di Berlino con quella dei Paesi della sponda Sud, ciò si può fare anche facendo crescere sia i salari reali (in modo da recuperare il terreno perduto rispetto alla produttività) che i prezzi in Germania. L’inflazione ha conseguenze meno negative della deflazione. E ciò potrebbe trovare consensi anche tra i lavoratori tedeschi. di Antonella Stirati, docente alla facoltà di Economia Federico Caffè dell’università Roma tre. Scrive sul sito economiaepolitica.it

4. La Bce non può fare nulla per sostenere crescita e occupazione? NO.
Chi sostiene che la Bce non può far nulla per la crescita e l’occupazione assume aprioristicamente che l’unico modo di essere banca centrale è quello definito dallo statuto dell’Istituto di Francoforte. Ma le funzioni attribuite a una Banca centrale sono solo il riflesso di un particolare momento storico. Nella realtà del passato obiettivi e strumenti sono stati variamente declinati; nel caso della Bce – sotto la pressione del pensiero neoliberale – la scelta politica è stata esplicita: l’obiettivo è il contenimento del tasso d’inflazione dell’area e lo strumento è la regolazione del volume di liquidità sul mercato monetario (quel particolare mercato internazionale in cui le banche si scambiano i mezzi liquidi eccedenti). L’interlocutore della Bce sono quindi le banche (il settore pubblico è posto in un angolo) nell’assunto che le loro decisioni siano quelle più valide per l’intero sistema: gli obiettivi delle banche divengono così di fatto gli obiettivi di politica economica. Seguendo questa logica la Bce ha rinunciato a svolgere il suo ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti degli Stati, vittime della crisi degli spread. Inoltre l’azione della Banca centrale, seguendo l’onda americana, ha tenuto bassi i tassi d’interesse sui fondi più liquidi sostenendo la spinta dei risparmiatori (e degli istituti finanziari) a spostarsi verso attività finanziarie più rischiose; paradossalmente i bassi tassi d’interesse non hanno favorito l’attività produttiva (tranne l’immobiliare). Infatti il minor costo del credito è stato più che compensato dalle minori attese di redditività dell’apparato produttivo, causate dalle deboli condizioni di domanda. L’attività finanziaria si è quindi avvantaggiata a scapito di quella produttiva. Dopo lo shock della crisi finanziaria americana la Bce ha cambiato il passo, ma non il suo quadro di riferimento. Sulla crisi bancaria è intervenuta immettendo quantità rilevanti di liquidità che hanno dato respiro alle banche in difficoltà; ma sulla crisi dei debiti pubblici ha ceduto il passo, limitandosi a spingere la banche a investire sui titolo di debito degli Stati. È in ogni caso il sistema delle banche a essere il terminale delle scelte di politica economica. La Bce potrebbe fare molto di più per la crescita e l’occupazione. Ma servirebbe un diverso contesto istituzionale, in cui il sistema finanziario sia in grado di rappresentare un contenimento della finanza (speculativa) globale al fine di sostenere le opportunità produttive all’interno dell’area. È un aspetto dell’ormai necessaria ristrutturazione istituzionale europea per una politica economica che ponga al suo centro l’occupazione, i suoi redditi e i suoi diritti. Finora l’assetto della Bce e il suo comportamento è stata coerente con il quadro neoliberista all’interno del quale è nata (e che tanti danni ha fatto). Ma nulla vieta, se non radicati interessi, che essa possa assumere un diverso assetto e adottare comportamenti coerenti con un quadro di politica economica che si proponga la realizzazione di un’effettiva cittadinanza europea. Sulla consapevolezza della necessità di cambiare quadro non vi sono molti segni, ma vi sono. di Claudio Gnesutta, ex docente di Economia politica a La Sapienza di Roma, esperto di politica monetaria. Scrive sul sito sbilanciamoci.info

“Il lavoro non è un diritto” di Salvatore Cannavò, Il Fatto Quotidiano


“Stiamo cercando di proteggere le persone e non i loro posti di lavoro. Gli atteggiamenti delle persone devono cambiare. Il lavoro non è un diritto; Deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio”. Le affermazioni del ministro Elsa Fornero al Wall Street Journal rappresentano un programma politico nella loro secchezza e anglosassone sintesi. Spesso, quando si danno interviste ai giornali stranieri, si dice meglio quello che si pensa davvero, lo spirito di fondo che muove le proprie azioni.
Da quello che capiamo noi, avendo seguito il ministro dal momento del suo insediamento, la filosofia che la ispira è quella di una società, probabilmente idealizzata, in cui le persone non stiano ferme sul posto, si diano da fare, si “guadagnino” appunto il lavoro piuttosto che aspettare che questo gli piova dal cielo. E’ un concetto che abbiamo sentito più e più volte, addirittura dagli anni 80 quando un craxiano con i boccoli, come Gianni De Michelis, consigliava ai giovani di imparare ad “arrangiarsi”.
Solo che è un concetto che non fa i conti con quell’impegno certosino e generoso di migliaia e migliaia di giovani e meno giovani, precari e disoccupati, che accettano di combattere una quotidiana battaglia, sempre impari, per conquistare una vita decente. A sentire certe affermazioni del ministro sembra che questa realtà non esista e che, al contrario, i giovani disoccupati siano seduti sul divano ad aspettare l’offerta migliore. Il modo migliore per descriverli, del resto, da parte di chi non sa risolvere il problema dell’occupazione.
Per questo di un’espressione che dice che “il lavoro non è un diritto” resta solo la parte amara, quella vera. Il lavoro viene lentamente espunto dalla giurisprudenza europea dal novero dei diritti non tanto garantiti ma su cui una società è impostata e cerca di convergere. E non è un caso che nell’intervista al WSJ questo concetto venga declinato in altre forme. La riforma, spiega infatti Fornero, “è anche una scommessa sugli italiani cambiare il loro comportamento in molti modi”.
Ma è il quotidiano finanziario a ricordare l’essenziale quando afferma che “uno dei principi chiave della nuova legge è che i datori di lavoro saranno in grado di licenziare i singoli lavoratori per motivi economici”. “Forse il più grande significato dello sforzo della signora Fornero - continua il WSJ - è che la legge ha smantellato la vacca più sacra del lavoro in Italia, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori”. Si possono fare tutti i discorsi del mondo, teorizzare le migliori filosofie di vita e del lavoro, ma la “riforma Fornero” entrerà nella storia, e sarà ricordata, solo per questo.

Articolo 18, un voto costituente, di Giorgio Cremaschi, Micromega

L’approvazione della controriforma del lavoro con voto di fiducia cambia definitivamente il quadro sociale e politico del paese, è un atto costituente.
Sul piano sociale la legge sanziona il successo del modello Marchionne. Che paradossalmente si afferma in tutto il paese proprio mentre in Fiat sta fallendo il progetto di rilancio industriale. Non è un caso.
Il progetto imposto a Pomigliano due anni fa rappresentava infatti non solo un modello per la Fiat, ma un via indicata a tutte le forze dominanti per affrontare la crisi scaricandola sul lavoro. E come tale si è affermato grazie al governo Monti e alla Bce. Questa via chiede all’ Italia di stare sul mercato diventando un paese low cost, con precarietà, supersfruttamento, distruzione dei diritti sociali.
La legge Fornero rappresenta il culmine ideologico del progetto di controriforma sociale che costruisce questa via. Con essa la precarietà del lavoro diventa permanente per tutte e tutti e lo statuto di lavoratori viene sostanzialmente abolito. Dopo questa legge in tutti il luoghi di lavoro cresceranno arbitrio e oppressione, l’Italia sarà ancora più ingiusta e la sua democrazia ancora più evanescente.
Ma ci saranno anche effetti sul sindacato e sulla politica. La Cgil subisce qui la sua più grave sconfitta del dopoguerra, tanto più dura perché il principale sindacato italiano non ha lottato davvero per evitarla.
Sul piano politico è evidente che il voto in Parlamento suggella la fine del centrosinistra classico, per dirla con Vendola, a favore di quello montiano allargato a Casini.
Allora su entrambi i fronti, sindacale e politico, bisogna costruire la risposta e l’alternativa.
Sul piano sindacale bisogna operare per l’unità di tutte le forze che dentro e fuori la Cgil, dicono no a Monti e a Fornero, per ricostruire la forza del sindacalismo di classe. Questa unità è incompatibile e alternativa a quella con Bonanni ed Angeletti, che invece difendono la controriforma così come stanno con Marchionne.
Sul piano politico bisogna costruire a sinistra l’alternativa al Pd e al suo sistema di alleanze, come è avvenuto in Grecia rispetto al Pasok.
Questi due processi avranno sicuramente tempi e modalità diverse, ma ci saranno perché sono necessari.
Coloro che dicono sì alla controriforma Fornero stanno dall’altra parte, e noi dobbiamo ricostruire la nostra parte contro di loro.

Spending review: restano le pensioni d’oro, tagliati i buoni pasto agli statali di Thomas Mackinson, Il Fatto Quotidiano

spending review interna nuova

Nessun taglio alle 100mila pensioni d’oro che ogni anno costano 13 miliardi. Sì invece a quello dei buoni pasto per 450mila dipendenti pubblici che fa risparmiare solo 10 milioni. E, ciliegina sulla torta, un pasticcio sulle gare d’appalto che potrebbe costare allo Stato 1,2 miliardi, corretto oggi in commissione grazie a un emendamento passato contro le intenzioni del governo. Prende insomma una curiosa piega la prima spending review del governo Monti. L’atto ufficiale sarà un decreto pesantissimo che il Consiglio dei ministri licenzierà dopo il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno. Circa 20 miliardi di tagli così distribuiti: 4,2 miliardi nel 2012, dai 7 ai 10 per ciascun biennio 2013-2014. Il provvedimento punta a scongiurare l’aumento autunnale dell’Iva (dal 21 al 23%), mettere in sicurezza i conti pubblici e fronteggiare l’emergenza terremoto. Monti lo presenterà domani alle Regioni e quindi ai vertici del Pdl Berlusconi e Alfano. Poi la pausa per il vertice di Bruxelles e le consultazioni con i sindacati il 2 luglio. Ancora da fissare, invece, l’incontro con gli altri vertici della maggioranza Casini e Bersani.
Come in dettaglio sarà raggiunto l’obiettivo di risparmio non è ancor chiaro ma il piano sarà modellato sul pacchetto-Bondi che mette nel mirino gli acquisti di beni e servizi della pubblica ammnistrazione (sanità in primis) e la spesa per il pubblico impiego. Con qualche sorpresa.
Di sicuro le misure di risparmio non passeranno attraverso il tanto sospirato taglio alle pensioni d’oro dei manager pubblici. Qui la notizia è già ufficiale: il governo ha accantonato il tetto sulle pensioni sopra i 6mila euro dando parere negativo a un emendamento presentato dal deputato Pdl Guido Crosetto. Doveva essere una misura di equità nel gran calderone dei tagli ma nel Cdm in programma domani mattina non c’è n’è traccia. Da Palazzo Chigi filtra solo la promessa di riproporre la questione insieme alle misure sullo sviluppo. Si ripartirà da quell’emendamento che prevede che le pemnsioni erogate in base al sistema retributivo non possano superare i 6mila euro netti al mese mentre sono fatti salvi le pensioni e i vitalizi corrisposti esclusivamente in base al sistema contributivo. Per ora è tutto rimandato e il sistema continuerà ad elargire 109mila pensioni sopra gli 8mila euro che costano 13 miliardi di euro l’anno (dati Inps).
Si va avanti a testa bassa, invece, sul contenimento dei costi della pubblica amministrazione. Nelle scorse settimane si è tanto parlato di una stretta sulle spese telefoniche della Pubblica amministrazione che parte dal Dipartimento della funzione pubblica per coinvolgere via via altri settori. Le chiamate saranno abilitate solo in ambito urbano per tutti mentre soltanto i dirigenti potranno fare chiamate nazionali e verso cellulari. “Una rivoluzione di buon senso”, l’ha definita il ministro Filippo Patroni Griffi che ha emanato la circolare taglia bolletta. Parlare meno, mangiare meno. Perché prende sempre più consistenza l’ipotesi di un secco taglio ai buoni pasto dei dipendenti pubblici. Nel pacchetto dell’ex liquidatore Bondi c’è infatti un’ipotesi di messa a dieta di 450mila dipendenti che già da due anni subiscono il mancato adeguamento all’inflazione dei contratti collettivi. I loro buoni pasto passerebbero dai 7-8 euro attuali a un valore di 5,29 euro che è la soglia minima esentasse per il lavoratore (per cui non viene denunciato ai fini Irpef) e per il datore di lavoro (non viene calcolato ai fini previdenziali).
Per il governo dalla dieta si ricaverebbero circa 10 milioni di euro. Una cifra che appare risibile ai sindacati di categoria che chiedono di ridurre i privilegi dei manage pubblici piuttosto affamare i dipendenti già in difficoltà. «Ridurre l’importo del buono pasto dei dipendenti pubblici a 5,29 euro, cioè la soglia massima esentasse, significa tornare al valore di acquisto di 15 anni fa e quindi togliere fisicamente il pane dalla bocca a tanti lavoratori senza far risparmiare in maniera significativa lo Stato». Lo sostiene Franco Tumino, presidente Anseb, l’associazione delle società emettitrici buoni pasto aderente a Fipe-Confcommercio, commentando alcuni contenuti della spending review.
Su tutti questi provvedimenti si attende il muro di partiti e sindacati mentre è la Ragioneria centrale dello Stato a mettere le mani avanti su un altro capitolo delicatissimo della spending review, cioè la norma del decreto sulle aggiudicazioni di appalti che – secondo una modifica intervenuta nel passaggio in Senato – verrà applicata anche alle procedure di affidamento per le quali si è già proceduto all’apertura dei plichi. Secondo gli esperti di via XX Settembre questa scelta poteva comportare contenziosi e costare allo Stato oltre 1 miliardo di euro. Preoccupazioni riassunte in una lettera inviata al Parlamento dalla ragioneria generale dello Stato e dalla Consip. Oggi nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera un emendamento (approvato da Pdl e Udc, con governo e Pd contrari) ha ripristinato la regola secondo la quale l’apertura in seduta pubblica delle buste si applicherà solamente alle gare per le quali le buste non erano state aperte alla data dell’entrata in vigore del provvedimento.