martedì 31 luglio 2012

La ritirata ordinata, orchestrata dalla Bce di PierGiorgio Gawronski, Il Fatto Quotidiano

Stiamo assistendo alla ritirata dei neoliberisti, davanti all’incalzare… della realtà. Di fronte a questa mera eventualità, i mercati esultano, ed io con loro. Ricordo le previsioni ‘neolib’: 
(1) L’austerità riporterà la fiducia nei mercati finanziari e reali, cancellando gli spread, e rilanciando la crescita. 
(2) L’avvio delle “riforme strutturali” avrà lo stesso effetto. 
(3) Le banche centrali non possono fare molto contro la crisi. 
Infatti (4) l’aumento della moneta provocherà iperinflazione; il rischio vero da cui bisogna guardarsi è finire “come lo Zimbabwe”; l’aumento dei prezzi delle materie prime non è temporaneo ma segnala l’avvio di un processo inflattivo globale. 
(5) Le politiche di sostegno alla domanda, finalizzate a compensare la caduta della spesa privata e a sostenere le vendite delle imprese, saranno inefficaci. (6) Una delle ragioni è la seguente: la crescita dei debiti pubblici in tutto il mondo spingerà i tassi d’interesse reali alle stelle al netto degli spread – cioè nei paesi privi di ‘rischio default’: USA; Germania, Giappone, UK, ecc.

Tutte queste previsioni sono state smentite dai fatti; invito i lettori a verificare. Gente in buona fede concluderebbe: il modello che utilizziamo non funziona, dobbiamo cambiarlo. Si, cominciano a farlo: ma di nascosto, confondendo le acque. Come nelle dittature, dove la realtà è quella indicata dal Potere, le situazioni comiche si moltiplicano. Un esempio sono le contorte motivazioni con cui Draghi prepara l’opinione pubblica tedesca alla “svolta” della BCE (speriamo) in arrivo.
Draghi avrebbe finalmente trovato un pretesto per “aggirare il mandato” della BCE, e “salvare l’Euro” abbattendo gli spread: “Spread elevati riducono l’efficacia dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria”. Quindi la BCE ha il diritto di abbatterli; l’efficacia della politica monetaria – il cui unico obiettivo, per la BCE, è “la stabilità dei prezzi” – deve essere preservata ad ogni costo!
Qualche sommessa domanda. Perché gli spread ora disturbano la politica monetaria, e prima no? Perché ieri gli interventi della BCE non potevano che essere “limitati e temporanei”, e ora no: la BCE farà “tutto il necessario per salvare l’Euro”? Perché prima “i poteri della BCE” erano deboli e “limitati… abbiamo solo guadagnato tempo… Tocca ai governi…”; mentre ora Draghi assicura: quel che faremo “…credetemi: sarà abbastanza!”? Perché la BCE si preoccupa del meccanismo di trasmissione ora, quando vede un’inflazione “vicina e sotto al 2% a fine 2012”, non quando cresceva ben oltre il 3%? Infine: se il mandato della BCE è inadeguato, perché non dirlo? Lo stesso Draghi non ha forse più volte invocato (p.es. Dicembre 2011) altre modifiche ai Trattati EU? E poi, basterà abbattere gli spread per “salvare l’Euro”?
I veri motivi della svolta sono altri: la strategia liberista é fallita. Le barzellette di Draghi meriterebbero di essere seppellite da una risata, se l’ideologia in ritirata non fosse ancora pericolosa! Gli Eurocrati guidati dalla BCE si apprestano a:
  1. Abbassare gli spread ma, temo, solo un po’, e con meccanismi “costosi”. Così mantengono la pressione su Governi e Parlamenti, e allarme fra la gente. Se qualcuno non avesse ancora capito che gli spread sono una variabile politica, c’è sempre tempo!
  2. Conservare il più possibile gli attuali meccanismi istituzionali dell’Eurozona. è la loro Europa: la vogliono sufficientemente “flessibile” da consentire ai loro modelli di funzionare. Il che è impossibile. Non succede neanche in America.
In poche parole: dopo averla fatta grossa, di fronte al mondo allibito, questi signori sono nell’angolo. O usano le ‘famigerate’ politiche keynesiane per uscirne – inclusa la banca centrale prestatrice di ultima istanza - o distruggono l’Euro. Dall’angolo cominciano a uscire, ma lentamente, coprendosi con foglie di fico, confondendo le carte. Per salvare non solo l’orgoglio personale, ma anche le riforme tecnocratiche, e la forma attuale delle difettose istituzioni europee, a fronte dell’ormai prevedibile ondata di ritorno dei popoli Europei, che chiederanno conto di una crisi ormai chiaramente ‘europea’ e ‘monetaria’. Ed allora: ben vengano le aperture della BCE. Ma se credono che siamo disposti ad accettare altri dieci anni di deflazione, depressione, e disoccupazione, secondo me si sbagliano.

Ilva: ecologisti e anticapitalisti di Rossana Rossanda, Il Manifesto

«Purché le due cose – difesa dell’occupazione e difesa dell’ambiente – vengano fatte insieme». Così scrive Alberto Asor Rosa, in occasione del dilemma fra chiudere l’Ilva smettendo di contaminare la zona o lasciarla aperta contaminandola. E ricorda che un dilemma simile si era verificato in val di Chiana, sul riuso di uno stabile dismesso, proposto da un’impresa che si occupava di biomasse e che aveva visto gli ambientalisti chianini disturbati da una invasione di disoccupati che volevano lavoro.
Giusto dunque operare insieme per lavoro e natura. Ma a chi si parla? Mi si permetta di protestare quando ci si rivolge, in ugual modo, alla proprietà e agli operai e ai loro sindacati. È un pezzo che anche questi sono accusati di essere stati “sviluppisti”, e quindi avvelenatori del pianeta, anche da parte di noti padri della patria. Come se fossero loro a decidere se aprire o chiudere una fabbrica, e a determinarne le linee e l’organizzazione della produzione, nonché la distribuzione. Ma non sono loro affatto! Non essendo in condizioni di investire, può investire e decidere su che cosa produrre sempre e solo la proprietà del capitale. Agli operai non resta che afferrare un salario, se se ne presenta la possibilità, vendendo la propria forza di lavoro; salario con il quale vivono, non avendo altri redditi, e del quale quindi non possono fare a meno. La fabbrica inquina o, peggio, infetta? Non sono loro né a infettare né a smettere di infettare, non hanno scelta se non combattere, come hanno fatto al Petrolchimico di Marghera.
Ma è difficile chiedere loro di cambiare l’azienda, da cui traggono quel misero salario in cambio di niente. Ed è perfettamente ipocrita chiedere loro di produrre pulito, produrre ecologico. Essi non hanno scelta, e se sono messi davanti a quella di perdere il lavoro o rischiare di avvelenarsi, rischieranno prima di avvelenarsi, salvo battersi poi per rischiare di meno. Non possono fare altrimenti.
Per questo non parlerei di alleanza fra operai e capitale. Nella difesa di una produzione sporca, gli operai non sono “alleati” con la proprietà sono “ricattati” dalla proprietà. Quando Viale o altri dicono: si produca meno o si passi a una produzione ecologicamente sana, si cessi di inquinare il pianeta, a chi parlano? Seriamente? Seriamente possono parlare soltanto alla proprietà, privata o pubblica, diretta o per azioni, nazionale o multinazionale, e solo ad essa, i salariati non potendo decidere né che cosa né come né dove produrre. Sì, qualche volta hanno cercato di farlo, come nel ’69, ma sono stati sconfitti dai padroni, dal governo, dalla stampa, in nome della democrazia, e la loro lotta è stata subito dopo resa sempre meno possibile dai licenziamenti in massa che sono seguiti.
Chi si ricorda che la Fiat aveva allora 129.000 dipendenti? Ora, ci informa Gabriele Polo, ne ha circa 15.000. L’operaio è meno di un uomo libero, lo è meno di un altro cittadino.
Da un mese a questa parte, dopo la vittoria dei socialisti in Francia – socialisti, non bolscevichi, anzi un po’ meno di socialdemocratici delle origini – il padronato dichiara in difficoltà una dozzina di grandi imprese. E ristruttura. Licenziando. Esempio: la Psa automobili (Peugeot +Citroen) ha annunciato ottomila “esuberi”, tra l’altro chiudendo del tutto il sito di Aulnay, alla periferia di Parigi, del quale ha occupato più di metà della superficie. Poiché per un occupato nell’automobile licenziato si calcolano altre quattro perdite di posti di lavoro (dal panettiere, macellaio, fruttivendolo del sito, all’indotto vero e proprio) la Psa decide dunque di aumentare i disoccupati di circa 35.000 persone. Il governo protesta, e si dichiara disposto a una serie di aiuti soltanto a condizione che la Psa imposti la produzione in vetture elettriche, riducendo il noto inquinamento della benzina o diesel. Zac, il presidente del consiglio d’Europa, Rompuy, assieme all’altra testa fina che dirige la Commissione, Manuel Barroso, aprono un’inchiesta se ha diritto di farlo o no, per le conseguenze che questa condizione potrebbe avere sul mercato. L’altra grande azienda automobilistica, la Renault, che ha probabilmente commesso meno errori nella produzione, ha fatto in questi giorni un contratto con la Corea per le batterie che le servono per la medesima, il governo si dice d’accordo, ma a condizione che la proprietà coreana produca in Francia. Apriti cielo, protezionismo!
Nessuno osa dire in questo luglio fatale: menomale che meno automobili escono dalla fabbrica. Fanno troppo spavento le facce stravolte di chi ha lavorato dieci o venti anni per Peugeot o Citroen e si sente dire di colpo che sarà licenziato, e sa che di lavoro difficilmente può trovarne un altro. Ma nessuno neanche dice che i responsabili di questo disastro umano, e del peso che ne deriverà per i conti pubblici, sono i signori del Cac 40, le proprietà quotate in borsa. I “mercati” sembrano incorporei, quanto per il Vaticano lo spirito santo, che come loro spira dove vuole.
Si deve essere ecologisti. Ma quindi anticapitalisti. O, come minimo, sostenitori di una primazia del pubblico sull’economico, in modo da determinarne l’indirizzo e la non dannosità per l’ambiente. Perché non si dice anche questo? Perché dal 1989 in poi non si ha più coraggio di dire nuda e cruda la verità sul meccanismo dell’impresa del capitale, nonché sulla rinuncia della sfera politica, continentale o nazionale, a controllarle.
Per l’Ilva, come qualche anno fa per la val di Chiana, non c’è dilemma fra lavoro e ambiente, c’è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l’uno o l’altro, o tutti e due.

Dopo la tragedia greca tocca alla farsa spagnola


Dopo la tragedia greca, quella che si sta consumando in Spagna ha le fattezze di una farsa, alla quale però pochi sembrano credere. L’Europa si appresta a mettere a disposizione della Spagna cento miliardi di euro per salvare il sistema bancario di un paese virtualmente fallito senza il sostegno della Bce e del fondo salva stati. Per la Grecia, a titolo di confronto, ammontavano a centotrenta. A corredo del prestito, il governo spagnolo si impegna in una manovra da 65 miliardi di euro in due anni, la quarta in sette mesi. La manovra interviene pesantemente in termini di tagli alla spesa pubblica, colpendo gli stipendi degli statali, i sussidi di disoccupazione, introducendo nuovi tagli agli enti locali che si tramuteranno in tagli ai servizi essenziali che in Spagna sono svolti prevalentemente per via decentrata sul territorio.
Il salvataggio della Spagna è quindi condizionato alla cura del settore pubblico. Il peso del settore pubblico in Spagna è simile a quello italiano, ma inferiore a quello francese, per non menzionare alcuni paesi scandinavi. Il punto è se la cura cui si sta sottoponendo l’economia spagnola sia quella giusta. E’ il settore pubblico il vero malato della Spagna?
Basta guardare ad alcuni dati negli anni precedenti alla crisi per vedere che le sue ragioni vanno semmai ricercate nel settore privato. La storia del recente boom iberico è nota: una forte crescita sostenuta da un boom nel settore edilizio a sua volta sostenuto da ingenti flussi di capitale dall’estero (soprattutto dai paesi europei, con Germania e Francia in prima fila). Fenomeni di crescita trainata dalle costruzioni sono dei cliché nella storia del capitalismo. Il mercato appare un circolo virtuoso in cui prezzi crescenti, profitti e investimenti si rinforzano a vicenda. Le banche a loro volta concedono risorse crescenti a tassi allettanti. Finchè la barca va il sistema distribuisce risorse per tutti: imprese di costruzione, imprese di servizi e intermediazione, banche. Che cosa accadeva nel settore pubblico, ovvero il «grande malato» della Spagna? Il debito pubblico in Spagna è sceso in modo consistente, e ancora nel 2008 era circa il 40% del Pil, molto inferiore a quello di Regno Unito, Francia e Germania. Nel frattempo, l’esposizione finanziaria verso l’estero è cresciuta a ritmi forsennati, e il livello di debito del settore privato – escluso il settore finanziario – ha raggiunto un livello pari a quattro volte il debito pubblico.
Il resto è storia recente. Come ogni bolla che si rispetti anche quella del mercato edilizio in Spagna esplode. Il settore bancario è la prima vittima, carico di debiti e mutui in buona parte inesigibili. Questo spinge le banche a vendere gli immobili che avevano in garanzia facendo ulteriormente aumentare l’offerta di immobili, e quindi cadere i prezzi in una spirale che si avvita specularmente, ma molto più repentinamente, rispetto a quanto al ciclo virtuoso degli anni precedenti. Un paese con un sistema bancario in crisi è un rischio che nessuno, né il paese stesso né tantomeno i paesi europei, si possono permettere. In breve, lo stato spagnolo interviene a sostegno del sistema bancario. Ed è qui il nodo centrale: il debito accumulato nel settore privato è stato di fatto trasferito in quello pubblico: dal 2008 al 2012 il rapporto debito pubblico-Pil raddoppia, passando dal 40 all’80%. Arriviamo quindi alle vicende di questi giorni. Il settore pubblico, gravemente malato (si legga indebitato) necessita di una cura a base di austerity (si legga tagli alla spesa pubblica) con conseguenze facilmente immaginabili sul welfare. Difficilmente comprensibili, se si pensa che tra le funzioni principali dei sistemi di sicurezza sociale c’è il sostegno alla popolazione nelle fasi di recessione, come ad esempio i sussidi alla disoccupazione. Invece di essere usati in maniera anti-ciclica, questi ammortizzatori sociali sono ora ridotti.
Alla farsa spagnola non sembrano credere coloro che scendono in piazza e capiscono che la loro situazione volge verso la tragedia greca. E non sembrano crederci troppo neanche i mercati, poco convinti che il ritornello austerity-recessione ripetuto ad libitum possa dare i frutti sperati. Ma intanto il gioco è fatto, il fallimento del mercato europeo, così come è stato congegnato, si è trasformato nel fallimento degli stati sovrani.
L’impulso calvinista che imperversa in Europa non lascia scampo, gli stati dovranno rimettere i loro debiti, e con loro i cittadini.
 
Andrea Filippetti - il manifesto

lunedì 30 luglio 2012

La lettura sbagliata della crisi di Luciano Gallino, La Repubblica

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.
Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.

Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.

In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.

La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio.

Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario.

I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria. Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro.

L’esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l’acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.

La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall’estate di quell’anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell’ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli
attivi dell’eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell’accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano).

A metà giugno il ministro italiano dell’Economia – cioè Mario Monti - commentava il green paper: «È importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese». Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole.

Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l’istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l’inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l’inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana.

Marchionne no! Lui non c'entra di Alessandro Robecchi, Il Manifesto



Parlare di meritocrazia in un paese che vanta tra le sue eccellenze Sergio Marchionne è come organizzare un mondiale di scacchi tra babbuini: una cosa abbastanza insensata. L’ultima uscita del “vero socialdemocratico” (cfr: Fassino) che guida la Fiat, cioè l’attacco a un concorrente capace di vendere macchine in tutta Europa e nel mondo, è più comica che paradossale. Credevamo che Marchionne fosse un grande sostenitore del liberismo e del mercato, ed eccolo invece invocare una «razionalizzazione» del mercato dell’auto in Europa. Tradotto in italiano: implorare che francesi e (soprattutto) tedeschi facciano e vendano meno macchine. E’ come se un maratoneta si appellasse al giudice di gara per chiedere che i concorrenti corrano con la suocera in spalla, e giustamente il commissario europeo per la concorrenza non gli ha nemmeno risposto, affidando la questione al suo portavoce, che gli ha signorilmente riso in faccia («Le intemperanze di Marchionne»…).
Insomma. Prima era colpa della Fiom. La Fiom venne cacciata con un referendum-ricatto e ora nello stabilimento modello de-fiomizzato si va allegramente in cassa integrazione. Poi fu colpa della crisi e del mercato, ma intanto i concorrenti vendevano più macchine di lui. Allora fu la volta dei concorrenti: come si permettono di produrre e vendere, addirittura di fare una politica dei prezzi? Dove credono di essere, su un libero mercato?
Ora, immaginiamo lo staff di Sergio Marchionne al lavoro per elaborare altre ardite teorie. Tipo prendersela con le strade: «Se fossero tutte in discesa le nostre macchine andrebbero meglio!». Oppure con le curve: «Se non ci fossero potremmo fare a meno del volante!». Aspettiamo con ansia, certi che qualche colpevole si troverà. Al momento, Marchionne guida la Fiat con esiti disastrosi da sette anni, l’unico segno più che si ricordi è quello delle sue stock options. E questo sarebbe niente, se non dovessimo anche sentirci recitare ogni giorno come il rosario la ridicola tiritera sulla meritocrazia.

Stelle, greche e torri: i troppi generali al tempo della crisi di Toni De Marchi, Il Fatto Quotidiano

Sono quelli della greca, lo strano ghirigoro che sta sotto le stellette, da una a quattro. E sono davvero tanti, almeno in Italia: 480 secondo i dati pubblicati dal Conto annuale del Tesoro 2010 della Ragioneria generale dello Stato. Ma poi ci sono quelli delle torri con tre stelle, anche loro un’enormità:  2342. In tutto ci sono dunque 2822 tra generali (le greche) e colonnelli (le torri). Considerando che, sempre secondo il documento della Ragioneria, i militari italiani sono 182.336, abbiamo la bellezza di un generale ogni 381 militari e un colonnello ogni 78. Un numero molto alto, anche rispetto al totale degli ufficiali delle tre forze armate, che sono in tutto 21.544 (sempre secondo lo stesso Conto annuale) cioè un generale o colonnello ogni 8,5 ufficiali.
A confronto con gli Stati Uniti queste cifre dovrebbero far arrossire (di vergogna, come si diceva una volta). Le forze armate dello zio Sam contano 1.417.730 donne e uomini (dato 2010) e hanno in tutto 984 generali da 1 a 4 stelle, cioè un generale ogni 1440 uomini. Appena il doppio di generali per un esercito quasi otto volte più numeroso del nostro. Un po’ meno sbilanciato il raffronto dei colonnelli. Dall’altra parte dell’Atlantico sono 12.229, cioè uno per 116 militari di tutti gli altri gradi. Comunque sempre imparagonabile (piccola nota: i civili americani sono 919.254, uno ogni 2,54 militari, a proposito quanto scrivevo in un mio precedente articolo)
Anche la Germania non scherza. Là i generali sono appena 202, uno ogni 980 donne e uomini in divisa considerando che la Bundeswehr, con organici di 198 mila militari, non è molto più grossa delle nostre forze armate.
La Gran Bretagna è apparentemente messa male come noi: 496 generali, cioè uno ogni 386 militari. Non a caso, nell’ultimo piano di riduzione della spesa militare, ne è previsto un sostanzioso taglio. Ma i colonnelli sono la metà, appena 1220. Per di più, rispetto al totale degli ufficiali, i rapporti sono molto più equilibrati, considerando che da loro sono 31.930, il 50 per cento in più che da noi. Dunque c’è un colonnello o generale ogni 19 ufficiali contro i nostri 8,5.
Insomma, la classica piramide rovesciata di cui parlavano già negli anni Settanta i pochi studiosi italiani di sociologia militare. Adesso non ne parla più nessuno, visto che quasi tutte le ricerche nel campo sono direttamente o indirettamente sovvenzionate dal Ministero della Difesa oppure, se non lo sono, non hanno un accesso facile ai documenti.
Al di là dei numeri, c’è un altro fenomeno distorsivo tipico delle caste chiuse e autoreferenziali com’è quella dei militari. Un fenomeno che traspare in tutta la sua brutale dimensione dai freddi numeri della Ragioneria dello Stato secondo la quale solo 129 (leggete bene: centoventinove) ufficiali nei gradi da maggiore in su non godono di “trattamento superiore”: centoventinove su 12.604, cioè appena l’1,02%. Insospettabilmente, le parole d’ordine del movimento Occupy hanno trovato terreno fertile nelle nostre Forze armate che sono riuscite per prime a invertire la situazione: il 99% è privilegiato, l’uno per cento è escluso.
Che cos’è il “trattamento superiore”? Semplice, se un ufficiale ha più di 13 anni di servizio prende lo stipendio da colonnello, a prescindere dal grado effettivamente rivestito, e quello di generale di brigata se ha più di 25 anni di servizio (articolo 1802 del Codice dell’ordinamento militare). Considerando che ci si arruola attorno ai venti anni, a 35 anni tutti sono colonnelli, e a 45 tutti generali. Almeno dal punto di vista dello stipendio. La giustizia distributiva è arrivata nelle forze armate italiane già da molti anni e nessuno l’avrebbe sospettato. Non ditelo ai precari.
Difficile dunque meravigliarsi se l’ammiraglio-ministro Di Paola (che ha dichiarato una pensione del 2011 superiore ai 300 mila euro) si lamenta che il 70 per cento delle spese del suo ministero finiscono in stipendi. Tanto più che tra il 2006 e il 2010, nel chiuso dei tavoli di concertazione generali-ministro, questi ufficiali si sono visti aumentare gli stipendi del 27% per la Marina, del 18% per l’Esercito, mentre i volontari in servizio permanente si sono dovuti accontentare del 9% o poco più e i civili hanno visto le retribuzioni diminuire fino al 3,15% (relazione della Ragioneria generale dello Stato alla Comissione difesa del Senato). Una perfetta ingiustizia distributiva.

domenica 29 luglio 2012

Nel mondo senza leader è la rete che domina di Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano

-Qualcosa è accaduto mentre noi eravamo occupati nel tentare di salvarci dalla bancarotta. Sono scomparsi i leader. Non parliamo di quelli che c’erano nel passato “normale”. Si sono tolti di mezzo da soli, a volte, in circostanze drammatiche. Altre volte semplicemente sono svaniti come nell’effetto speciale di un film. C’erano, e occupavano spazio, notizie, interviste, talk show. C’erano e non ci sono più. Sono ancora in giro, ma non in favore di telecamere. Se parlano non si sente la voce. E non trascinano nessuno. Il fenomeno non è solo italiano. Il mondo in questo momento è occupato da marce e comizi, da sit in e assemblee, dove nessuno guida e nessuno ha qualcosa di speciale da dire, non nel senso del carisma, della leadership, del messaggio con cui mettersi alla testa di una folla.
Ognuno parla fra altri e, fra altri, viene ascoltato e dimenticato. Ci sono trovate estrose ed eventi drammatici, si va dalla tragedia allo spettacolo, dal furore alla indignazione alla presa in giro. Manca sempre il protagonista. É nato un attivismo collettivo abbastanza ordinato, con informazioni in tempo reale e un vero e proprio collegamento in diretta che non chiede niente agli organizzatori, non il suono, non le luci, non lo studio o il costo per le riprese. E neppure un capo. Tutto avviene e basta.
Direte che questa è la rete, che il nuovo strumento ha sfarinato e poi ricompattato quella che una volta era la massa, che si aggregava intorno a un fede (detta ideologia) e identificava un capo da seguire, una volta stabilito il percorso. Adesso “ricompattare” vuol dire sincronizzare, informare, collegare giorno e notte senza lasciare il minimo spazio vuoto. In questo mondo c’e’ una vasta pianura di orizzonti infiniti dove tutto appare possibile, e dove chiunque è in grado di trovare o seguire o indicare una strada. Ci sono segnali di orientamento, come nei sentieri di montagna, ma ciascuno si avvia da solo e conta di trovare gli altri, senza che gli altri siano parte o personaggi della sua vita, senza che vi siano legami, tranne il progetto. Il progetto è in parte un testo, in parte citazione, in parte frammento di libro, in parte grido che passa di “postazione” in “postazione” venendo da chissà chi e chissà dove, ma bello, azzeccato. Scomparirà quasi subito.
In rete vi sono poderosi archivi ma non c’e’ memoria, non nel senso umano, che ricorda per amore, per ossessione, per associazione o per caso. Perciò tutto resta per sempre, e tutto si perde per sempre, perchè una frenesia (tecnica, non nervosa) di cambiamento percorre ogni tempo e spazio di ciò che accade in rete e ciò che oggi è la cosa da fare, la sola, con urgenza ed emergenza, domani è sparita. Domani è pieno d’altro. E se c’era un leader che aveva afferrato il prima, subito dopo ci vorrà un altro, perchè tutto è cambiato e le tracce del prima si perdono subito.
E’ una esperienza nuova mischiarsi ai gruppi spontanei di esseri umani che si formano dappertutto, ciascuno testimoniando una missione e raccontando una pena. La prima differenza con le generazioni di protesta che li precedono è che non sfidano, resistono. La seconda è che l’estremismo (ovvero un senso di impossibile, di inaudito, di eccessivo) viene esibito da chi governa verso i cittadini, un curioso rovesciamento dell’estremismo del ” vogliamo tutto”. Ora vuole tutto – o questa è l’impressione diffusa – chi governa, qui o in Europa, e i gruppi che si mobilitano tentano ogni tipo di barriere e di resistenza, non per avere di più ma per cedere meno.
Come vedete è uno strano mix, fatto di un mondo virtuale che nasce in rete (sia i progetti di resistenza che quelli di governo). Quando diventa vero, nelle fabbriche, nelle case, nelle piazze, nelle strade, porta dalla rete due tratti inesorabili: la solitudine e una strana sorta di eguaglianza, che non è l’eguaglianza come valore sociale. É un dato statistico in cui ciascuno conta come un altro. E anche se a un certo punto si scatena un gioco fra chi è più bravo, la gara vale solo per quel momento, come una partita di scarabeo. Poi ognuno torna ad essere un pezzo del gioco.
E infatti ogni volta, nei gruppi veri fatti di esseri umani e non di Facebook e di numeri, si vedono megafoni abbandonati nelle mani di qualcuno che ha già parlato e non sa a chi passarlo, microfoni aperti (si sente la voce ” prova…prova”) che aspettano qualcuno che si faccia avanti volontario per parlare, vedi palchi a lungo deserti, perchè nessuno, abituato a vivere dietro il computer, pensa che tocchi a lui, a lei, di prendere l’iniziativa e di parlare, guidare.
Ognuno nasce spettatore dello schermo che non smette di generare fatti inediti, ognuno interessato quasi solo alle cose nuove che trova. E si abitua a esprime il suo giudizio con le tre righe di Twitter. In queste condizioni nessuno prende il comando. Il comando di cosa?

I numeri dell’Inps smentiscono Fornero di Michele Carugi, Il Fatto Quotidiano

A fronte del quasi dimezzamento delle nuove pensioni e dell’età media effettiva di pensionamento che si è innalzata a 61,3 anni e cioè di quasi un anno secco rispetto al 2011, che conferma una tendenza già iniziata nel 2011 e che ha portato a ottimi risultati economici in quell’anno sul versante puramente previdenziale, il presidente dell’Inps Mastrapasqua ha dichiarato: “I dati Inps sul calo delle nuove pensioni dimostrano che le riforme hanno funzionato e che il sistema previdenziale é stato messo in sicurezza”. Va dato atto peraltro a Mastrapasqua, di avere sostenuto già dal 2010 che il sistema previdenziale era stabilizzato, in questo concordando con moltissimi altri personaggi pubblici ed esperti del settore.
A scanso di equivoci non è superfluo sottolineare che la riforma Fornero non ha avuto alcun impatto di alcun genere sui risultati dell’Inps del primo semestre del 2012, poiché i suoi effetti devastanti sulle persone e quelli economici si cominceranno a sentire solo dal 2013.
Allora le domande che sorgono spontanee sono:
  1. Da quale infausta motivazione furono ispirati Trichet e Draghi quando nell’agosto 2011 scrissero la famosa lettera al Governo italiano nella quale chiedevano tra le altre cose che si mettesse mano con urgenza alla riforma della previdenza?
  2. Che cosa ha motivato Fornero a pensare e poi attuare la riforma che si sta rivelando, oltre che drammaticamente insostenibile per centinaia di migliaia di pensionandi senza lavoro, anche del tutto superflua?
  3. Perché le forze politiche hanno colpevolmente avallato la bieca riforma proposta da Fornero salvo apportare alcune modifiche meno che marginali?
Le mie risposte sono le stesse già date altre volte. Trichet semplicemente non sapeva di cosa parlava essendogli probabilmente sconosciuti i dettagli del nostro sistema previdenziale. Draghi mirava a sostenere preventivamente una riforma non necessaria ma che certamente è utile per spostare a regime risorse dai contributi dei lavoratori alle spese dello Stato in altre aree e migliorare i conti pubblici. Fornero ha attuato una riforma di cui è ideologicamente convinta da sempre anche contro le evidenze di non necessità e ha trovato sponda da tutti coloro che volevano “fare cassa”. I partiti politici hanno subito ottusamente il ricatto consistente nel “prendere o lasciare”, e cioè o si approva tutto ciò che il Governo Monti propone oppure lo stesso lascia.
Nessuna di queste motivazioni ha radici nei conti del nostro sistema previdenziale preesistente, che a questo punto solo un commentatore in malafede potrebbe continuare a definire instabile e illumina meglio le ragioni grettamente di cassa che stanno dietro alla furia riformatrice altrimenti ingiustificata.
I circa 200.000 esodati che pagheranno sulla loro pelle la riforma saranno agnelli sacrificali, il cui sangue non scorrerà per risanare i conti della previdenza o per garantire pensioni migliori ai giovani di oggi, bensì per bilanciare nei conti dello Stato spese quali l’assistenza (gestita dall’Inps) oppure, peggio, per mantenere un flusso di risorse che contribuisca a finanziare aree di spreco, clientelismo e parassitismo che non si andranno a toccare, perlomeno non sufficientemente.
Altresì, l’età pensionistica più alta d’Europa verrà raggiunta con effetto quasi immediato non perché ciò fosse necessario per i numeri previdenziali, ma per migliorare la situazione di cassa dello Stato prelevando da una delle poche aree in equilibrio grazie ai contributi dei lavoratori e delle imprese.
Ci dissero, in dicembre, che occorreva la riforma perché lo Stato rischiava di non poter neppure pagare le pensioni esistenti; ciò sembrò da subito un’invenzione, sensazione confermata vedendo i conti della ragioneria dello Stato che indicavano i primi benefici a partire dal 2013 e che quindi rendevano non credibile che tali risparmi servissero a pagare le pensioni nell’immediato.
 
Ci dissero anche che la riforma era una delle cose necessarie per dare agli investitori internazionali fiducia sul paese e quindi far abbassare lo spread; tutti hanno visto cosa è successo in seguito allo spread e come questo sembri del tutto in dipendente dallo stato del nostro sistema pensionistico.
In conclusione, ritengo che ci siano state raccontate molte storie fantasiose che la realtà dei fatti smentisce una per una; di fronte a questo occorre che il Governo ci liberi quanto prima della presenza del ministro Fornero e che venga cancellata la sua riforma o almeno modificata radicalmente con buon senso; ci si aspetterebbe che tutti i partiti ne chiedessero le dimissioni, cosa che invece è stata fatta solo da alcune forze all’opposizione e nel non supportarla si è persa un’occasione.
Temo, invece, che il ministro resterà al suo posto e che continuerà a sostenere contro l’evidenza che la sua riforma era necessaria e che non ci sono risorse per risolvere il problema di tutti gli esodati e che in partiti politici continueranno a giocare con proposte di legge future ed emendamenti minimali, continuando a sottostare al ricatto surreale di chi dice: “o questo governo esattamente com’è oppure il diluvio”.
Continueranno su questa strada che però, è bene lo sappiano, li porterà al tracollo elettorale e porterà la nazione a una reale ingovernabilità; sempre che la rabbia degli esodati che oltre che bastonati sono anche ora irrisi dalle cifre pubblicate dall’Inps, saldata a quella dei lavoratori che vedono la pensione allontanarsi enormemente senza un motivo reale, non esploda e costringa finalmente qualcuno a smetterla di trincerarsi dietro favolette sempre più risibili e ad affrontare la realtà del fatto che la riforma si può e si deve modificare radicalmente, molto radicalmente e che le risorse per il problema esodati ci sono, basta evitare di stornarle dalla previdenza per destinarle ad altro e che cambiando il Ministro del lavoro non necessariamente i Governi devono dimettersi; si chiama “rimpasto” ed è doveroso quando la principale riforma di quel ministro viene smentita dalla realtà dei numeri.

IL VERTICE (QUELLO VERO) CHE DECIDE di Moreno Pasquinelli, http://sollevazione.blogspot.com


«Meglio una fine terrorizzante o un terrore senza fine?»

Come spesso accade, le notizie importanti, sono quelle che vengono fatte passare in sordina. La bisca dove la finanza globale gioca a risiko coi capitali mondiali rischia —non solo a causa dell'agonia dell'euro ma dello stato comatoso del sistema USA— di saltare per aria.
Ecco dunque che al capezzale accorrono d'urgenza i sommi sacerdoti, creduti capaci, coi loro riti apotropaici, di scacciare i demoni della disgrazia e della morte. 
La notizia è questa: lunedì prossimo, 30 luglio, ci sarà un imprevisto summuit tra il governatore della bce Mario Draghi, il Presidente della BundesBank Jens Weidmann, il Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ed infine il Segretario al Tesoro americano Timothy Geithner.
Non poteva esserci conferma più evidente che nelle stanze dei bottoni del capitalismo occidentale serpeggia il panico, anzi la paura non solo che l'eurozona imploda, ma che questo schianto, mentre l'Occidente imperialista è sull'orlo dell'abisso, gli dia la spinta finale.
Settimana decisiva davvero, quella che si apre lunedì. Visto che lo stesso giorno ci sarà una decisiva asta dei BOt e giovedì 2 agosto si riunirà il Consiglio direttivo della Bce. E qui si spiega il vertice vero, quello in questione con Geithner.


Le affermazioni roboanti di Draghi l'altro ieri hanno reso euforiche le borse: "finalmente anche la Bce, come la Fed e la banca centrale britannica, donerà anch'essa sangue fresco ai vampiri della finanza speculativa". Tanto pagherà Pantalone: ovvero le masse popolari, i lavoratori salariati. I Mario Monti li hanno messi lì apposta.

L'euforia dei mercati finanziari, dicevamo ieri, ha il fiato corto. Alcuni, anche tra quelli che ci seguono, ritengono invece che la ierocrazia politico-finanziaria, alla fine, non solo ci metterà una toppa, non solo guadagnerà altro tempo. Ritengono che alla fine l'euro sarà salvo e che con esso avanzerà, con gli Stivali delle sette leghe, il disegno agghiacciante della dittatura dispiegata della finanza, il che implica il passaggio ad un super-Stato europeo.

Noi dubitiamo che questo disegno si realizzerà, anzitutto per le contraddizioni interne al disomogeneo blocco imperialistico e, in seconda battuta, perché i popoli opporranno una resistenza distruttiva (in forme inedite e non prevedibili) ad un piano che prevede un vero e proprio genocidio sociale. Ma niente. Il lato oscuro e pessimista della ragione prevale. Al fondo a noi pare ci sia sempre un pizzico della sindrome della Grande e imbattibile Cospirazione.


Il fatto è che questo pessimismo si alimenta anche grazie ai ballon d'assai o, se preferite, alle fanfaluche dei media di regime.

Non sono passate 48 ore che già si offre una nuova lettura del discorso di Draghi. 

"Non è affatto vero che la Bce comprerà titoli di Stato direttamente agli Stati". "Non è detto che ne comprerà dosi massicce sui mercati secondari" (figuriamoci in asta!). "E' incerto che la Bce avvii una terza LTRO". Insomma, non è più certo nulla. Non siamo soli a considerare le parole di Draghi un mero annuncio.


Infatti la Buba, la Banca centrale tedesca, per bocca dello stesso 
Jens Weidmann, già ieri ribadiva il suo rotondo e secco NO agli acquisti di titoli di Stato sovrani. Di Quantitative easing nemmeno se ne parla, tantomeno di dare la licenza bancaria al fondo salva-stati, l'ESM/MES.

Turbinio di dichiarazioni e controdichiarazioni. La Merkel emetteva una nota congiunta con Hollande, che i media hanno spacciato come il semaforo verde ad una politica delle maniche larghe da parte della Bce. La BundesBank isolata? Uno scontro frontale in seno all'armata tedesca?

Sì', i media così hanno presentato la cosa. E quindi hanno dato un risalto enorme ad una frase che avrebbe pronunciato
 il ministro delle Finanze di Berlino, Schäuble, che avrebbe dichiarato di «guardare con favore alla disponibilità della Bce a intervenire nel quadro del mandato della banca centrale». "Schäuble zittisce Weidemann", battono alcune agenzie di oggi 28 luglio. Parole che sono state sufficienti ad arruolare surrettiziamente Schauble dallo schieramento dei falchi a quello delle colombe.
Vero? falso? Falso!


«Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha smentito ogni progetto di acquisto di bond da parte dell'Efsf nel quadro di un piano di aiuti europeo alla Spagna. Lo ha detto in un'intervista che sarà pubblicata domani dalla Welt am Sonntag. Schäuble ha definito «totalmente infondate» le indiscrezioni apparse sulla stampa francese e spagnola circa una richiesta di nuovo aiuto da parte di Madrid, che si tradurrebbe anche nell'acquisto di bonos da parte del fondo europeo Efsf al fine di frenare il differenziale tra i titoli spagnoli e il Bund tedesco». [Il sole 24 Ore del 27 luglio 2012]
Insomma: panico e caos regnano sovrani nei piani alti del potere politico-finanziario. sapranno trovare un compromesso? Probabile. Ma panico e caos sono cattivi consiglieri. Troveranno un compromesso pessimo e i mercati non attenderanno molto per segnalarlo.

Come salvarci dal pensiero unico di Carlo Freccero, Il Fatto Quotidiano

L’interesse dell’appello “Furto di informazione” pubblicato sul manifesto non sta tanto, come dice il Corriere della Sera di ieri , nell’ennesima contrapposizione tra neokeynesiani e neoliberisti, quanto nell’aver affrontato per la prima volta il problema a priori, fuori dal puro contesto economico. L’appello è firmato da economisti ma pone piuttosto un problema filosofico. Tra qualche anno il neoliberismo di oggi rischia di venir letto dagli storici come il paradosso di un’epoca che impiega tutte le sue risorse a distruggere il benessere economico guadagnato nel tempo. Da piccolo avevo un libro di favole intitolato “Il tulipano screziato”. La storia raccontava la bolla speculativa del mercato dei tulipani nell’Olanda del ‘600.
Un unico bulbo di tulipano poteva avere un immenso valore. La storia ha fatto giustizia dei tulipani e la farà delle nostre attuali convinzioni. Il marxismo (come teme Giuliano Ferrara) non c’entra niente. C’entra il pensiero critico e la capacità di prendere distanza dalle cose.

Il salasso per tutti
Qualche anno fa il neoliberismo veniva chiamato “pensiero unico”, definizione che evocava la possibilità di altri pensieri possibili. Oggi il neoliberismo si chiama semplicemente “economia” e non importa se esistono teorici come Paul Krugman o Joseph Stiglitz che vedono le cose da un altro punto di vista. Stiamo vivendo una crisi. Dobbiamo inchinarci alle leggi economiche e accettare i sacrifici che ci vengono imposti come dolorosi ma necessari. Il neoliberismo non è più una tesi economica discutibile e relativamente recente, ma un dato di natura. La crisi del 1929 è stata affrontata con politiche keynesiane ed è stata superata. La crisi attuale viene curata con politiche neoliberiste e non fa che peggiorare. È come se a un paziente disidratato venissero praticati salassi anziché fleboclisi: morirà. Ma per secoli il salasso è stata l’unica pratica medica accreditata per curare ogni tipo di malattia con esiti disastrosi. Oggi noi applichiamo alla crisi un’unica forma di terapia: tagli e sacrifici, convinti come i medici di un tempo, di non avere altre alternative a disposizione.

Anticasta, l’unica critica lecita
Si dirà: questi sono temi da affrontare tecnicamente in campo economico. Non a caso il nostro è un governo di “tecnici”. Viviamo in uno stato di eccezione in cui le necessità economiche prevalgono sulle istanze politiche. L’uomo comune può solo affidarsi a chi è più competente di lui come si affiderebbe a un medico in caso di malattia. La sua critica deve essere circoscritta agli abusi e agli sprechi che impediscono al mercato di funzionare e produrre ricchezza e benessere per tutti. Ma questo è già pensiero unico, rinuncia a ogni alternativa possibile. Guardiamo la situazione italiana degli ultimi decenni. Avevamo un governo sedicente liberista in cui il liberismo era mitigato e spesso stravolto dal populismo. Un’opposizione che si dichiarava più liberista del governo ed evocava maggior rigore. Abbiamo oggi un governo tecnico sostenuto da entrambi gli schieramenti. E l’unica alternativa è costituita da una reazione contro la politica, che viene accusata (a ragione) di sperperi, nepotismo, privilegi. Mentre per il governo la causa della crisi è il debito pubblico e l’azione dissennata dei governi precedenti, per i gruppi anticasta, la causa della crisi sta nella corruzione della politica che impedisce al mercato di funzionare. Formalmente contrapposte le due tesi aderiscono nella sostanza a un'unica tesi: questo è l’unico mondo possibile, possiamo migliorarlo ma non cambiarlo. Gli italiani sembrano in preda a una forma di depressione che li porta a non reagire, mentre il loro mondo affonda e il benessere costruito dal dopoguerra viene sacrificato sull’altare della necessità economica. Cos’è che ha cambiato le nostre capacità di reazione, ha annullato il nostro spirito critico? La censura, la mancanza di informazione, i tagli alla scuola e alla ricerca. Ci è stata instillata in questi anni la convinzione che la cultura non conta nulla, che il pensiero è inutile, che l’unico valore è il benessere economico. E la morte del pensiero critico non ha prodotto benessere, ma disastro e miseria. Per questo l’appello pubblicato dal manifesto sul “furto di informazione” riguarda, prima ancora delle politiche economiche il tema dell’informazione. Una politica economica non è “naturale ”, presuppone una scelta tra più alternative. E la scelta politica presuppone informazione. Per questo mi sono battuto per la sopravvivenza del servizio pubblico. Una pluralità di emittenti private non garantisce pluralismo informativo. La stessa cosa vale per le testate giornalistiche. Fino a oggi l’editoria ha richiesto ingenti capitali. E i magnati dell’editoria che possono sostenere certi costi, difficilmente saranno dalla parte dei ceti meno abbienti.

Il presente come sola possibilità
Ai tempi de “Il Capitale” di Karl Marx il proletariato aveva valore per il suo lavoro. Ai tempi de “La società dello spettacolo” di Guy Debord per la sua capacità di consumo. Oggi non ci resta che il voto, per questo l’economia globalizzata limita l’autonomia degli Stati. E per questo la politica vuole controllare l’informazione. Dobbiamo ricreare una libertà di informazione, studiare nuovi canali e possibili veicoli di informazione perché si rompa l’incantesimo che ci porta a considerare il presente come l’unica possibilità. Siamo realisti, chiediamo l’impossibile .

L'estate calda della scuola fra tagli di spesa e disservizi

Tagli alla scuola, aumento delle tasse universitarie , caos nei test per accedere ai corsi per l'abilitazione all'insegnamento, ferie dei supplenti "cancellate" per calmare lo spread e allarme delle province per l'avvio dell'anno scolastico. Per trovare un'estate più calda, non solo dal punto di vista meteorologico, di quella che il mondo della formazione sta vivendo in questi giorni occorre andare indietro di qualche anno: quando il governo Berlusconi nel 2008 annunciò una serie di interventi su scuola e università. Questa volta la revisione della spesa riguarda anche la ricerca scientifica, motore per l'economia di qualsiasi Paese. Le due uniche buone notizie sembrano le oltre 26 mila assunzioni a tempo indeterminato nella scuola a partire da settembre e il possibile dietrofront del governo sui tagli alla ricerca.

Aumento delle tasse universitarie.
A dare l'allarme, dopo l'approvazione del decreto-legge sulla Spending review è stata l'Unione degli universitari. Rivedendo il meccanismo di calcolo del cosiddetto
 
20 per cento - la quota di pressione fiscale universitaria che, secondo una legge del 1999, gli atenei non possono superare rispetto al finanziamento statale - il Fondo di finanziamento ordinario - le università avrebbero avuto la possibilità di aumentare le tasse, sia per gli studenti in corso sia per i fuori corso. Ma, dopo le proteste degli studenti, in sede di conversione in legge, è arrivata una mezza marcia indietro che alimenta le polemiche. Gli atenei, potranno aumentare le tasse fino al 100 per cento, in base al reddito, soltanto ai fuori corso. E col gettito aggiuntivo incrementare il welfare studentesco. Ma, secondo Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil, "l'idea che si possano recuperare i fuori corso attraverso l'aumento delle tasse universitarie è semplicemente assurda e pericolosa". "Dietro i fuori corso - continua Pantaleo - ci sono molteplici ragioni non sempre documentabili. Il rischio è di penalizzare sempre i più deboli, perché chi è ricco potrà tranquillamente continuare a frequentare l'università anche con l'aumento delle tasse".

Tagli alla scuola. Dopo la cura da cavallo imposta dal governo Berlusconi, la revisione della spesa interviene ancora sul personale docente e Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario). A settembre saranno 15 mila, secondo le prime stime dei sindacati, i supplenti che non troveranno più un posto e uno stipendio. Il perché è presto detto. I 10 mila docenti in soprannumero saranno costretti a settembre a fare da tappabuchi nelle scuole anche per piccole supplenze, quelle che erano appannaggio dei precari. A questi, occorre aggiungere 3.565 insegnanti inidonei all'insegnamento per ragioni di salute che, questa volta, verranno spediti nelle segreterie scolastiche, come assistenti amministrativi, o nei laboratori, come assistenti tecnici. Ci sono poi altri 430 insegnanti all'estero che saranno costretti a rientrare in Italia e 900, tra ex docenti tecnico pratici della C555 e coloro che sono transitati dagli enti locali allo Stato con una qualifica che non trovava corrispondenza nella pianta organica statale (C999), che diventeranno assistenti amministrativi o collaboratori scolastici. In tutto, 14.905 posti che fra un mese verranno meno ai supplenti.

L'odissea dei Tfa. Doveva lanciare l'era dell'insegnamento a numero chiuso, ma si sta trasformando in un vero pasticcio. Nell'occhio del ciclone, ancora una volta, i test di ammissione ai Tirocini formativi attivi, che dovrebbero consentire a laureati non in possesso di abilitazione di conseguirla dopo un anno di esperienza sul campo. La nuova formazione iniziale per gli insegnanti, lanciata dalla Gelmini, prevede un corso universitario quinquennale e un anno di tirocinio attivo che si conclude con un esame abilitante. In questa prima fase di transizione tra il vecchio e il nuovo ordinamento, per coloro che sono già in possesso di una laurea, è possibile partecipare al solo tirocinio, che però è a numero chiuso. A gestire la selezione e i corsi ci pensano gli atenei italiani. Ed ecco i test messi a punto dal ministero dell'Istruzione per individuare i 20 mila fortunati che potranno conseguire l'abilitazione all'insegnamento. I primi esiti pubblicati dal Cineca (il consorzio universitario che gestisce il test) e le prime proteste degli interessati, tuttavia, non sono affatto incoraggianti. Per insegnare francese alla media e al superiore sono riusciti a superare il quizzone soltanto in 96, i posti disponibili erano ben 765. I partecipanti lamentano l'eccessivo nozionismo e l'ambiguità di alcune domande. Una circostanza confermata dallo stesso Cineca, che comunica agli interessati il "bonus" di tre domande, considerate a tutti corrette, a prescindere dalla risposta data. Una ammissione di "colpevolezza" abbastanza esplicita che si ripete per sette delle 11 graduatorie pubblicate. Ma anche quando non vengono riscontrati "errori" ufficiali restano parecchi dubbi che daranno vita a migliaia di ricorsi. Nella classe di concorso A047 - matematica - per il ministero è andato tutto bene, ma l'Umi - l'Unione matematica italiana - non sembra essere d'accordo. E segna con la matita blu errori in ben cinque domande: quelle contrassegnate con in numeri 12, 24, 38, 39 e 47.  

Le province protestano. E' sempre la revisione della spesa al centro della polemica, questa volta con le province. E non per il taglio delle stesse ma per la riduzione dei trasferimenti dallo Stato. Secondo il presidente dell'Upi (l'Unione delle province d'Italia), Giuseppe Castiglione, i tagli ai bilanci delle province metteranno a rischio l'avvio dell'anno scolastico al superiore. Le province assicurano il pagamento delle bollette telefoniche, della luce e dell'acqua, ma anche la sicurezza e la manutenzione degli edifici scolastici. Ma con i tagli, di 500 milioni per il 2012 e un miliardo per il 2013, gli enti locali non potranno più, secondo Castiglione, garantire tutti i servizi. "Il governo - spiega - considera come spesa corrente anche una serie di servizi che eroghiamo ai cittadini che, a nostro parere, non possono essere contratti. Tra questi quelli scolastici".

Le ferie dei supplenti. Il ministero dell'Economia, in questi giorni, ha invitato le segreterie scolastiche a sospendere il pagamento delle cosiddette ferie non godute al personale docente fino al termine delle lezioni. Una norma del decreto legge 95 stabilisce che le ferie non sono più monetizzabili. Ma ai 90 mila supplenti fino al termine delle lezioni, finora, non potendole fruire in estate, sono state sempre pagate. E intervenendo in estate il decreto non potranno neppure fruirle durante le lezioni. La prospettiva, anche adombrata dai sindacati, è una palese lesione del diritto alle ferie e si intravedono altri ricorsi all'orizzonte.

Il taglio delle presidenze. A settembre saranno 2.221 le presidenze in meno in Italia. La cura dimagrante è frutto del dimensionamento scolastico - meno 1.080 istituzioni scolastiche - e del decreto sulla stabilità emanato dal governo Berlusconi poco prima di passare la mano a Mario Monti, che prevede solo un "reggente" - un preside che è già titolare in un'altra scuola - per i 1.141 istituti sottodimensionati: cioè con meno di 600 alunni o 400 nelle piccole isole e nei comuni montani. Gli addetti ai lavori, per questa ragione, intravedono un ulteriore calo della qualità del servizio. A queste si aggiungono le difficoltà che sta incontrando il ministero a portare a termine il concorso per 2.386 per nuovi dirigenti scolastici. E lo stop imposto dal Tar in Lombardia, a pochi giorni dalla nomina dei vincitori di concorso, perché le buste dove sono stati conservati i compiti erano semitrasparenti e non garantivano l'anonimato durante la correzione.

Immissioni in ruolo nella scuola. E' una delle poche buone notizie di questa estate rovente della scuola. Il ministero ha avanzato al dicastero dell'Economia la richiesta per assumere entro settembre 26.448 unità di personale scolastico (21.112 unità di personale docente e  5.336 di personale Ata). La comunicazione è stata data alla Camera, pochi giorni fa, durante un'interrogazione parlamentare dei deputati del Pd, Maria Coscia e Tonino Russo, che chiedevano lumi sul piano triennale di assunzioni varato dal precedente esecutivo. Nei prossimi giorni, il ministro Francesco Profumo dovrà emanare il relativo decreto con i posti per provincia e i provveditorati saranno costretti a un tour de force per garantire tutti i docenti in cattedra per l'avvio delle lezioni.

I tagli alla ricerca. La Spending reviw non ha risparmiato neppure gli enti di ricerca italiani. L'allegato 3 del decreto declina tutti i tagli imposti nel triennio 2012/2014 agli enti di ricerca, compreso quello imposto all'Infn (l'Istituto nazionale di fisica nucleare) che ha contribuito alle ricerche sul bosone di Higgs, una scoperta che se confermata può aprire scenari rivoluzionari nello studio della fisica delle particelle. E dopo le ennesime proteste il governo ha fatto una mezza marcia indietro: il taglio del 2012, pari a 19 milioni spalmati su tutti gli istituti che dipendono dal Miur, è stato cancellato. Ma il colpo di scure è soltanto rinviato: per il 2013 e per il 2014 resta un taglio di 51 milioni per anno. 
 
fonte: Repubblica

Ci rimettono sempre: intervista a Maurizio Landini

Intervista a Maurizio Landini: “L’Ilva resti aperta ma si investa per non inquinare.”. Il sindacato ammette un ritardo
Maurizio Landini è appena uscito dall’incontro con il nuovo presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, mentre in mattinata aveva partecipato a un’animatissima assemblea dei dipendenti. Propone quello che chiedono gli operai: ovvero che finalmente l’impresa e la politica bonifichino la città e creino produzioni sostenibili, senza perdere posti di lavoro. Nel contempo, però, il leader della Fiom ammette che i lavoratori stanno facendo un «salto culturale», e che prima erano in ritardo sul tema ambientale. Ancora, Landini commenta lo scontro tra l’amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne e la Volkswagen, propendendo con evidenza a favore delle ragioni della casa tedesca.
Gli operai difendono il loro posto, ma la questione ambientale a Taranto è urgente. Come conciliate i due temi?
Che gli operai difendano il proprio posto mi pare legittimo. La cosa importante è che non si è ceduto a chi credeva alla contrapposizione lavoratori-magistratura. Al contrario si chiede a tutti i soggetti coinvolti, a partire dall’Ilva, di difendere il lavoro ma insieme anche la sicurezza e la salute, dei dipendenti e della città. Il problema riguarda tutta l’area di Taranto, altre imprese importanti. Va anche detto che l’Ilva non è più la fabbrica di 20 anni fa: negli ultimi anni ha investito 1 miliardo contro l’inquinamento.
Ma vi sembra credibile ottenere una Ilva «pulita»? Vedendo oggi Taranto si perderebbe ogni speranza.
Tutto il territorio è inquinato da oltre 50 anni, a causa dell’Ilva ma non solo: ci sono altri grossi impianti, e non a caso l’accordo siglato al ministero non si riferisce all’Ilva ma a tutta l’area di Taranto.
Ma perché non abbiamo visto negli ultimi anni gli operai in piazza per l’ambiente, e riusciamo a vederli mobilitati soltanto oggi? Hanno dovuto aspettare la magistratura e gli ambientalisti?
Credo ci siano ragioni e responsabilità precise, non solo dei lavoratori: i passati governi, la Regione prima di Vendola, la stessa Ilva. È passata l’idea che pur di lavorare va bene tutto. Il sindacato ha fatto alcune iniziative, ma non faccio fatica ad ammettere che per il mondo del lavoro siamo a un passaggio culturale, e che qualche ritardo su questo fronte prima c’è stato. Cosa, perché si produce e con quale sostenibilità, è un tema che va rivolto a tutti i soggetti, in primis all’impresa e alla sua responsabilità sociale.
Adesso cosa vi aspettate?
Abbiamo appena incontrato il nuovo presidente Ferrante e abbiamo accolto con favore il suo impegno di continuare a produrre, collaborando con istituzioni, governo e sindacato. Il 3 agosto c’è il riesame e vedremo, ma il punto piuttosto è aprire un percorso vero di investimenti pubblici e privati. D’altronde non puoi fermare le produzioni in un’acciaieria come quella, per precisi vincoli tecnologici. Se la chiudi non la riapri più.
Si potrebbe pensare però di chiudere solo il ciclo a caldo, più inquinante.
Non puoi distinguere tra ciclo freddo e caldo, devi tenerli insieme, non puoi dividerli. Sono un vero ciclo integrato.
E sullo scontro Marchionne-Volkswagen la Fiom cosa dice?
Dico che è innanzitutto un elemento di novità il fatto che Marchionne invece di insultare la Fiom, insulta altri. Vedo la difficoltà per la Fiat di vendere in Europa: non ha mai investito e innovato i suoi prodotti, è preoccupante. In Italia chiederei piuttosto una politica industriale dell’auto e la mobilità, in modo da far entrare investitori stranieri nel nostro territorio. Interi pezzi dell’industria spariscono, la Fiat non investe. Dopo due anni e mezzo, chi ha firmato accordi con Fiat dovrebbe riflettere.
Ma perché il modello Volkswagen vince e quello Fiat crolla in Europa?
In una concessionaria Vw trovi auto da 10 mila euro a 150 mila, in tutte le gamme. Mentre alla Fiat non è così. C’è poi un grande vantaggio competitivo e tecnologico, marchi diversi, l’acquisto di nuove piattaforme. Vw è anche il primo costruttore di auto andato in Cina. Ma soprattutto non ha licenziato quando aveva difficoltà: ha preferito ridurre gli orari e investire. L’Audi, tedesca, ha da poco comprato Lamborghini e Ducati Motor: in entrambi gli stabilimenti noi della Fiom abbiamo ottimi rapporti con i capi, ma soprattutto l’80% alle elezioni. Nonostante la Fiom vanno bene, fanno utili e investono. Audi ha comprato prima che modificassero l’articolo 18.

Antonio Sciotto - il manifesto

Da Pomigliano a Taranto, delitto d'estate di Stefano Galieni



A Taranto si è in fondo in questi giorni confermata la nemesi delle nefandezze connesse al modello di sviluppo. La parola d’ordine semplificata è semplice, o si crepa di cancro, grazie alle esalazioni prodotte dal polo siderurgico, o si crepa di disoccupazione se questo, come da decisioni giudiziarie, verrà chiuso. In mezzo loro, i lavoratori, le loro famiglie il cui destino è sospeso e carico di rabbia che non trova pace, loro che bloccano e occupano la città e che pretendono una soluzione che sembra incompatibile con le decisioni dei padroni. Tutto è sospeso fino al 15 settembre quando il tribunale si pronuncerà sulla richiesta di riapertura della fabbrica ma l’operazione che ha portato anche all’arresto di coloro che dovevano garantire anche la sua bonifica non promette bene. Da Taranto arriva rabbia e disperazione a malapena fermata dall’intervento provvido di uno dei pochi uomini del sindacato ancora dotati di una certa credibilità come Maurizio Landini. Prevale il senso d’impotenza e del perso per perso, la lotta condotta giorno dopo giorno, forse senza prospettive, di pura anche se necessaria resistenza. La vicenda di Taranto è solo quella oggi alle cronache, il paese intero sembra devastato dalla metastasi del blocco del circuito produttivo, non si vende e non si consuma e allora perché produrre? Il viaggio che segue, a macchia di leopardo e senza nessuna pretesa di essere esauriente, è attorno a zone produttive, a singoli comparti, a vertenze particolari, lavoratori e lavoratrici che passeranno l’agosto in fabbrica o in piazza e che forse apriranno con largo anticipo l’autunno caldo. Ma dietro una situazione del genere c’è anche la vittoria di un modello che si è rivelato totalmente fallimentare. L’alfiere delle fiere forzate, degli stabilimenti in eccesso, delle giornate di cassa integrazione distribuite come bombe a grappolo è di certo l’amministratore delegato della Fiat, il dott. Marchionne. Facile prendersela con la politica dei prezzi della concorrenza tedesca quando si è puntato tutto sulla distruzione dei contratti nazionali, sui salari bassi, su modelli che non valgono la cifra a cui vengono venduti. «Gli ultimi giorni di produzione della “Musa” sono stati drammatici –racconta con rabbia Pasquale Lojacono, ex rappresentante Rsu della Fiom, ormai cacciata dagli stabilimenti – Ci rendevamo conto che tutto stava precipitando e che la Fiat non voleva fare investimenti ad agosto ma un colpo del genere è veramente di quelli che fanno male». Si perché da alcuni giorni i prodotti fallimentari elaborati dai geni della direzione non verranno più fabbricati, risultato per 2600 lavoratori non ci saranno più collocazioni mentre altri 2300 potranno lavorare al massimo 2 giorni a settimana.
Anche a Mirafiori si sta consumando l’ennesimo sterminio, alla faccia di trovate pubblicitarie come “Fabbrica Italia”, i lavoratori, anche quelli in attività, raccontano di aver perso con i diversi periodici cassa integrazione, almeno 18 mila euro ciascuno di salario. Chi aveva risparmi li ha bruciati, molti hanno dovuto attingere anche al fondo pension e al tfr.«Io ormai come sindacalista sono stato cacciato via- racconta ancora Pasquale – Ma alcuni giorni fa sono andato in direzione per accompagnare un lavoratore a cui avevano fatto una contestazione. L’impressione che ho avuto, parlano con i dirigenti, è che neanche loro credono più in un futuro. Il problema è che molti lavoratori ora non ce la fanno più a resistere, in parecchi si sono indebitati per andare avanti. A Torino, come in qualsiasi altra città non campa una famiglia con 800 euro». La Fiom fa notare anche come il tanto decantato accordo che ha spaccato tutto, si sia rivelato totalmente inadeguato Nasconde il fatto che si vogliono produrre meno vetture con meno lavoratori e basta. Pasquale, come gran parte degli altri ,ha lavorato 12 giorni in 7 mesi, per il resto solo cassa integrazione. Questo impianto è uno di quelli che sta per morire nell’indifferenza generale, secondo Pasquale e la Fiom la sola soluzione per mantenere il livello occupazionale è quella della riduzione dell’orario di lavoro, ma da quell’orecchio l’ad della Fiat non ci vuole sentire, per mantenere un rapporto con i lavoratori si sono organizzate assemblee degli iscritti fuori dal luogo di lavoro, incontri con i simpatizzanti, ma a Torino è anche difficile, quello che resta della Fiat è sparso per un vasto territorio, anche raggiungere i lavoratori non è facile.
La situazione della Fiat e della produzione di veicoli è secondo Emanuele De Nicola, di Melfi, entrata in una fase che potrebbe essere di non ritorno.«Come annunciato ci hanno messo in cassa e riprenderemo a lavorare (forse) il 29 agosto. Ma qui non si illude nessuno, è troppo tempo che lavoriamo 8 giorni al mese se va bene, il salario diminuisce me non ci sono produzioni da fare. Si avvicina la fine se non ci sarà un intervento diretto del governo. Personalmente ho seri dubbi che la Fiat voglia realmente restare in Italia». Anche i lavoratori di Melfi non passeranno ferie tranquille, si sta ancora aspettando la sentenza definitiva che riguarda lo scontro fra Fiom e Fiat, si aspetta dal 10 luglio ma ancora c’è il silenzio. Non si tratterebbe di una vittoria simbolica, si ridefiniscono anche con questa sentenza, le relazioni industriali in Italia. «Noi – continua Emanuele – auspichiamo una ripresa per fare chiarezza rispetto alle intenzioni reali della Fiat, dobbiamo capire se vogliono o meno riconvertire le produzioni. I dirigenti Fiom come Emanuele hanno una linea ben definita, sono convintiche soltanto investendo in ricerca e innovazione per creare un nuovo modello di auto a basso impatto ambientale e realmente ecocompatibile si possa uscire dalla crisi. Oggi si producono più automobili di quante se ne vendono, quindi andrebbe cambiata radicalmente la strategia industriale:«Dobbiamo partire dall’idea di città intelligenti – dice Emanuele – in cui si rimette in discussione il concetto stesso di mobilità, il servizio pubblico, capire come uscire prima che inizi la scarsità, dalla dipendenza dal petrolio, ragionare insomma. Cose che la Fiat sembra non voler fare. E il governo nazionale sembra subalterno alle decisioni di Marchionne, oppure si da credito a buffonate come la messa in affitto di stabilimenti industriali. Occorre altro, non basta la Punto Evo che produciamo noi, anche a metano che non si vende, bisogna sperimentare i motori ad idrogeno, investire sul fotovoltaico, e se la Fiat non è in grado di farlo che se ne vada senza pretendere nulla. A me sembra che il governo francese si sia creato meno problemi per affrontare la crisi della Peugiot . E chi pensava che la Fiom fosse la responsabile della chiusura degli stabilimenti ora ci deve ripensare.
La Fiat, e più in generale la produzione siderurgica, sono l’aspetto più visibile di un Paese in cui ad essere al crollo è l’economia reale che ne dica il presidente del consiglio. Le realtà produttive che sono rimaste hanno scelto di scaricare tutte le difficoltà sui lavoratori con orrende devastazioni contrattuali, l’uso massiccio della cassa integrazione (straordinaria o in deroga), cercando di espellere il conflitto dalla fabbrica e dimostrando assoluta assenza di volontà nella riprogrammazione della propria strategia di mercato. Migliaia e migliaia di lavoratori, le loro famiglie, che vivono questo scorcio d’estate in maniera drammatica, senza soldi e senza la voglia nemmeno di pensare alle meritate ferie. E poi ci sono gli altri, quelli che attengono ad altri comparti, il mondo frammentato e disperso dei lavoratori precari, delle piccole aziende, dei servizi in cui l’occupazione o diminuisce o è cattiva occupazione. Le cifre sono spaventose 3.152.763 sono quelli registrati come lavoratori precari 24.133.764 quelli a tempo indeterminato 2.402.482 gli ufficialmente disoccupati. Nel primo quadrimestre del 2012 sono state utilizzate dalle aziende 322 milioni di ore di cassa integrazione per una media di 470.000 lavoratori in cassa a tempo pieno. In media sono stati persi per ogni lavoratore 2.600 euro in busta paga per un totale di 1,2 miliardi di euro. Lo sottolinea la Cgil sulla base dei dati Inps sulla cig nel 2012. Dopo il dato record del 2011, anche nell’anno in corso le ore di cassa integrazione utilizzate dalle aziende si aggireranno intorno al miliardo.
Anche per questo 2012, quindi, il quarto anno consecutivo di crisi, “la cassa integrazione si avvia ad attestarsi attorno al miliardo di ore autorizzate”, osserva il segretario confederale, responsabile Industria, Elena Lattuada – si continuano a registrare dati negativi che indicano uno stato di profondissima crisi e di inesorabile declino del settore industriale. Senza ripresa – avverte – questi dati peggioreranno tirandosi dietro disoccupazione e desertificazione industriale. Bisogna dare risposte al profondo malessere sociale rimettendo al centro il lavoro”.
Ad aprile – sottolinea la Cgil nella sua elaborazione dei dati Inps diffusi nei giorni scorsi – sono stati chiesti 86 milioni di ore (-13,6% su marzo). Nel primo quadrimestre sono state autorizzate 322,8 milioni di ore in linea con lo stesso periodo del 2011. “Le ore di cig – afferma la Cgil – azzerano dall’inizio dell’anno 470.000 posizioni di lavoro ma coinvolgono mediamente 940 mila persone con un’incidenza di cig per occupato nell’industria pari a 46 ore per dipendente”.
Nei primi quattro mesi del 2012 il totale delle ore di cig ordinaria è stato di 101 milioni di ore (+26,54% tendenziale) . La richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria nel periodo gennaio-aprile (110,9 milioni) segna un calo del 18,6% sullo stesso periodo dell’anno scorso.
Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) con 110,9 milioni di ore autorizzate (+3,79%) risulta lo strumento più usato. I settori che presentano un maggiore volume di ricorso alla cigs in questi quattro mesi sono quello del commercio con (39,9 milioni e +31,16%) e il settore meccanico (21,9 milioni ma con un -31,88%). Le regioni maggiormente esposte con la cassa in deroga da inizio anno sono la Lombardia con 20,5 milioni di ore (+19,70%), l’Emilia Romagna con 12,5 milioni (+15,19%) e il Lazio con 11,7 milioni di ore (+154,18%).
“Considerando un ricorso medio alla cig, pari cioè al 50% del tempo lavorabile globale (9 settimane) – afferma la Cgil – sono coinvolti da inizio anno 938.525 lavoratori in cigo, cigs e in cigd. Se invece si considerano i lavoratori equivalenti a zero ore, pari a 17 settimane lavorative, si ha un’assenza completa dall’attività produttiva per 469.262 lavoratori, di cui 160 mila in cigs e altri 160 mila in cigd. Continua così a calare il reddito per migliaia di cassintegrati: dai calcoli dell’Osservatorio cig, si rileva come i lavoratori parzialmente tutelati dalla cig abbiano perso nel loro reddito 1,2 miliardi di euro, pari a 2.600 euro per ogni singolo lavoratore”.
Cifre di questo tipo fanno pensare che il numero di coloro che quest’anno stanno già riducendo in maniera tremenda il proprio tenore di vita e che difficilmente potranno permettersi una vacanza estiva, è destinato a crescere in maniera esponenziale.
Come se non bastasse bisogna considerare che fra chi ha un contratto a tempo indeterminato, cresce in maniera esponenziale il numero di colo che si ritrova in cassa integrazione sapendo che la mobilità, ovvero il licenziamento, restano dietro l’angolo, mondi diversi fra di loro che spesso non hanno neanche modo di incontrarsi e di dialogare, di fare massa comune, in cui si cercano le soluzioni per sbarcare il lunario. Parlare di “ferie” e di vacanze a chi vive in una simile condizione spesso suona come un insulto, come il voler rammentare che le condizioni di vita, di un anno due anni addietro, oggi non hanno modo di esistere. Stefano Materia, segretario Fiom Cgil di Catania, ci racconta sconsolato di come stia morendo l’attività produttiva nella sua provincia. «In questi giorni abbiamo saputo che per i 39 lavoratori della Nokia, che producono software – dice ,con tono irato – non ci sono prospettive se non qualche ricollocazione individuale. Lo stesso per gli altri che costituivano l’indotto. Catania e Siracusa sono il cuore produttivo della Sicilia ma da noi ormai siamo con la Cig al 70%, resiste Siracusa ma è come se si tenesse su una gamba sola. La produzione nostra finisce in Portogallo, noi resistiamo, lunedì e martedì saremo in sciopero e manifesteremo». Si c’è chi l’estate la vive anche come momento di lotta e di difesa del posto di lavoro, combattendo contro un sistema che li vuole schiacciati.
Ma c’è chi lotta, resiste e in qualche maniera riesce a non lasciarsi, per ora schiacciare. Tutti al mondo conoscono gli “studios” di Cinecittà, luogo storico per la produzione culturale in Italia e nel mondo. Luigi Abete è un imprenditore che intende acquistare l’area ( in cui per altro sorge anche un parco) per creare altra speculazione edilizia, ovviamente dichiarando di voler invece mettere in atto un rilancio. Messi in discussione i posti di lavoro dei circa 250 che degli studios sono l’anima e anche la storia, ma anche le migliaia di posti che ruotano attorno all’industria cinematografica. Sono intervenute le Rsu interne, si è tentato di rompere il silenzio che il potente Abete ha tentato di imporre sulla vertenza e si sono attuati presidi,ci si è relazionati alla città anche con momenti spettacolari come la finta nevicata di inizio luglio. Alla fine,grazie al prezioso lavoro di compagni come Citto Maselli, si è mosso il mondo della cultura, quella che si percepisce anche come opportunità di vita e di lavoro. Hanno preso parola persone come Ghini, Tognazzi, Tornatore. La vicenda è uscita dai confini nazionali e sono intervenuti Loach e Tritignant, lo stesso Le Figarò si è soffermato sulla vicenda. Abete non ha preso molto bene la determinazione dei lavoratori, continua a dichiarare di volersi liberare dei riottosi ma nel frattempo c’è chi comincia a chiedere le sue di dimissioni. A protestare contro lo smantellamento di un pezzo di industria privatizzata già 15 anni fa ora ci sono anche gli abitanti del quartiere che non vogliono vedere trasformato un parco importante per il territorio in cemento allo stato puro. Il comitato “Cinecittà bene comune” e forze politiche come il Prc sostengono la loro lotta.