sabato 8 giugno 2013

La riscossa di Berlusconi (e il crepuscolo del Pd) di Dino Greco, Liberazione.it



Mentre Enrico Letta emette flebili lamenti nei confronti dell’Unione europea, mentre il Partito democratico esaurisce ogni propria energia in dilanianti lotte fra correnti e rissosi capibastone, mentre i dopolavoristi del M5S si baloccano con questioni del tutto secondarie consumando in ininfluenti baruffe il loro apprendistato parlamentare, Berlusconi fa politica, spaziando indisturbato in un campo lasciato totalmente sgombro dai suoi sbiaditissimi partner di governo.
 
Il capo del Pdl lavora con grande determinazione ed efficacia comunicativa su due terreni principali.  
Da un lato, quello istituzionale, buttandosi a peso morto nelle voragini culturali spalancatesi nel Centrosinistra per mettere in gestazione una riforma che consolidi la fuoriuscita dalla democrazia parlamentare e approdi ad un presidenzialismo autoritario, possibilmente senza contrappesi, possibilmente senza zavorre di origine costituzionale che contemplino poteri indipendenti – men che meno sovraordinati – rispetto all’esecutivo. 
Dall’altro, il terreno cruciale dell’economia, a proposito del quale Berlusconi chiede con chiarezza adamantina che l’Italia smetta di strusciare chiedendo elemosine, digrigni i denti con Angela Merkel e si affranchi dalla prepotenza tedesca. Anche a costo di “scomporre i meccanismi dell’area dell’Euro” e di tornare alla lira. Dunque, mentre Enrico Letta non varca i confini della più innocua moral suasion, Berlusconi si intesta una linea che ha il sapore del recupero di una sovranità nazionale che l’architettura monetarista dell’Ue ha liquefatto.
Ovviamente Berlusconi tace sul che fare, non dice nulla sui trattati europei, sulle concrete misure nelle quali dovrebbe materializzarsi una nuova politica economica; ovviamente il suo strombazzato “new deal” non passerebbe per la cruna di politiche sociali a tutela dei salari e del welfare, né attraverso la ricostruzione di un potere e di una proprietà pubblici capaci di riorientare un processo di sviluppo drammaticamente compromesso da una classe imprenditoriale che ha depredato le risorse del Paese godendo di una illimitata libertà.
Il progetto di Berlusconi si può al dunque condensare in due proposizioni: stato autoritario e rapporti sociali dominati da un liberismo assoluto. E tuttavia, ciò che passa nella vasta opinione pubblica e trasversalmente a tutti i ceti sociali è che da una parte c’è un imbelle traccheggiamento, una navigazione a vista, incapace di reagire ai drammi sociali che quotidianamente crescono per intensità e dimensione, mentre dall’altra c’è la volitiva muscolarità dell’uomo forte, convinto delle proprie idee e capace (la memoria non fa parte delle virtù italiche) di realizzare ciò che dice.
 
Nel guscio del governo di coalizione, nell’abbraccio “strategico” fra Pd e Pdl voluto da Napolitano, si sta producendo una catastrofica implosione della forza che soltanto tre mesi fa pensava di avere in tasca un luminoso futuro e il governo del paese. Ma il Pd non dà la sensazione di potere-sapere-volere venir fuori dalla trappola letale in cui si è messo.
 
Noi, noi comunisti, voglio dire, le proposte le avremmo anche, ma non arrivano a destinazione, perché poggiano su gambe troppo gracili, perché possono essere facilmente sepolte nell’anonimato da un fuoco di sbarramento mediatico che non abbiamo (ancora) capito come aggirare. E perché il partito che ci serve è in tanta parte da ricostruire e da rinnovare.  
Eppure bisogna avere chiara almeno una cosa: che per quanto il percorso sia in salita ripida, non c’è altra strada (utile) che quella della ricostruzione di un pensiero critico, autonomo dall’ideologia dominante, capace di indicare una prospettiva diversa e praticabile, su cui progressivamente agglutinare forze, soggettività politiche e sociali che oggi, anziché trovare il modo di unirsi, continuano a guardarsi in cagnesco, ritraendosi orgogliosamente a coltivare sempre più angusti orticelli.

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