mercoledì 30 gennaio 2013

Merito? Eguaglianza! di Alessandro Robecchi, Micromega

Il ‘merito’ è una truffa. ‘Far progredire i migliori’, proclamano i pasdaran del merito. Ma a chi spetta valutare le capacità altrui, se non a coloro che, spesso tutt’altro che meritevolmente, stazionano in cima alla scala sociale? Eppure, anche dal basso s’invoca il merito, fingendo di non sapere che la valutazione finale spetterà agli inquilini dei piani alti. Cioè ai privi di merito.
Un fantasma si aggira per l’Italia. E non è Angelino Alfano.
È un fantasma che passa di bocca in bocca, che rimbalza dalle cronache ai convegni, che entra ed esce dalle pieghe di ogni discorso, che fa da premessa ad ogni ragionamento, che olia gli ingranaggi di qualsiasi riflessione sul «rinnovamento» italiano.
È il fantasma del «merito».

Se ogni italiano potesse avere un euro per ogni volta che si evoca il merito, avrebbe il merito di diventare ricco senza alcun merito, esattamente come i ricchi che ad ogni passo gli sventolano la parola «merito» sotto il naso.

Se lo stesso italiano avesse un po’ di memoria storica, peraltro, saprebbe che la fregatura aleggia nell’aria, come ogni volta che una parola fa irruzione sulla scena politica e ne prende il controllo, ripetuta ossessivamente, mai spiegata o argomentata. Un dogma: il merito.
Erano gli anni Novanta quando passò a volo radente, bombardando a tappeto la popolazione, la parola «flessibilità». Dal ministro Treu (primo governo Prodi) in poi, quella febbre contagiò tutto e tutti, con il risultato di produrre quaranta diversi tipi contrattuali di paraschiavitù a tempo determinato.
Una volta diventato più moderno e flessibile, il paese ne avrebbe guadagnato in efficienza e ricchezza, e si è visto. Dopotutto anche farsi amputare una gamba è un buon sistema per perdere peso.
Quando si cominciò a pronunciare la parola «privatizzazioni» fu chiaro a tutti che i monopoli sarebbero diventati società per azioni pur restando monopoli.
Dunque, se avessimo un po’ di memoria nel nostro bagaglio, guarderemmo al nuovo mantra sul «merito» con almeno un pizzico di perplessità.
E invece: un tripudio.

Si pensa erroneamente che la satira prenda le parole della politica per stravolgerle e ribaltarle in paradosso. Si tende invece a sottovalutare come la politica rubi materiale alla satira e – con una giravolta ancor più paradossale – lo adatti alle sue esigenze e ai suoi disegni. Così, pochi sanno che la parola meritocrazia deriva da un’opera satirica del 1958, The Rise of Meritocracy 1870-2033, autore Michael Young, che smascherava e derideva, con verve e sarcasmo, la balzana idea di una società basata solo sul merito. La meritocrazia risultava così come la campana a morto della democrazia: non più il governo del popolo, ma il governo dei migliori.
Già, migliori a fare cosa? Allacciate le cinture, partiamo.

Se state decollando o atterrando con un aereo, un caro e accorato pensiero andrà, insieme all’ansia di non rovesciare il prosecco, al «merito». Anche se non ve ne rendete conto, un angolino del vostro cervello sta pensando al pilota, al fatto che è meglio che sia un tipo in gamba e non soltanto, per dire, il fidanzato della figlia dell’amministratore delegato o del capo del personale della compagnia aerea. È la stessa cosa che amiamo pensare del chirurgo che ci opera, dell’autista dello scuolabus dei nostri figli, del macchinista del Frecciarossa o del nostro consulente finanziario.
Il merito inteso come capacità di fare quello che si sta facendo, insomma, è un dato che si dà per acquisito, cui la popolazione tiene parecchio, se non altro per autodifesa.

Il discorso si fa più complesso nell’attuale situazione italiana, quando a reclamare merito sono le classi dominanti. Esse non invocano quasi mai il merito per sé (danno per scontato che, abitando in cima alla piramide sociale, il loro merito sia conclamato), ma per tutti gli altri, e segnatamente per quelli che potrebbero eventualmente, un giorno, prendere il loro posto.
Il paradosso del «merito» così come viene oggi sbandierato è assai divertente e istruttivo. Si tratta, sulla carta, di far progredire i migliori. Ma a decidere chi siano i migliori è la struttura gerarchica già in essere, spesso formatasi prima dell’avvento del discorso sul merito. Dunque, anziché l’apertura di una prospettiva, il merito diventa una corsa a ostacoli, con siepi, muri e barriere ben piazzati per scremare, selezionare, arrestare la corsa dei presunti «meritevoli» di cui si valuta il merito.

Ricordava Bruno Trentin, buonanima, in un suo lucidissimo articolo (l’Unità, 13 luglio 2006), che stabilire i criteri del merito è già un discorso sul merito. Faceva notare, il vecchio sindacalista, la funzione antisindacale degli assegni di merito nella struttura retributiva del mondo operaio. Un premio per i puntuali, per chi non sciopera, per chi non pianta grane, per chi non si mette in malattia nemmeno con la febbre, per chi accetta senza fiatare l’aumento dei tempi. Merita di più non chi «sa fare», ma chi ubbidisce.

Ma questo era il vecchio taylorismo, signori!
Entriamo invece ora in qualunque ufficio dell’Italia moderna, in quel terziario avanzato che arretra, nell’antica modernità dei contrattini a scadenza, dove migliaia di giovani laureati, colti, sapienti, maneggiano fotocopiatrici dando prova della loro perfetta conoscenza della lingua inglese (on, off, print).
Il merito potrà essere così valutato: disponibilità a lavorare oltre l’orario, disponibilità a restare a casa qualche settimana o mese tra un contratto e l’altro, svolgimento di mansioni da lavoratore dipendente anche senza le garanzie previste e, non di rado, disponibilità a sostituire con forte riduzione di diritti e salario i lavoratori espulsi.
Non c’è dubbio che, per l’azienda, siano gran meriti e che il refrain «premiare il merito» abbia qui una sua diretta e incontestabile validità.
Il «premio» al merito (naturalmente al merito così come lo intende l’azienda) non è più, come nelle vecchie fabbriche di cui parlava Trentin, un’aggiunta paternalistica a un diritto-base, ma la conferma stessa di quel diritto: il rinnovo del contrattino.

Del resto, parlare di merito in Italia appare un’operazione piuttosto complessa. Basta prendere l’elenco dei partecipanti ai convegni, simposi, assemblee e congressi dei giovani imprenditori italiani. La parola «merito» affolla i loro discorsi, spesso pronunciata con toni tribunizi, accenti da Savonarola, ultimatum. Premiare il merito! Riconoscere il merito! Valutare il merito! Il paese è fermo perché non si tiene nella dovuta considerazione il merito!
Poi, a scorrere i cognomi degli indignati domandatori di merito, si scopre che nove volte su dieci il merito della loro invidiabile condizione sociale è attribuibile alla rendita di posizione, all’eredità del babbo o del nonno che hanno fondato l’azienda, ai soldi di famiglia con cui hanno fondato la startup. Insomma ai meriti – o alle posizioni di privilegio – di altri.

Un paese ereditario, dove il 40 per cento degli architetti ha il padre architetto, dove le farmacie si tramandano di padre in figlio come nelle corporazioni del medioevo, dove fare il notaio è missione impossibile per chi non discenda da lombi di notaio – abbiamo notai dop, come vini e formaggi – si sta accapigliando per imporre la parola merito.
Un chiaro caso di intossicazione di massa: qualcuno ha sciolto dell’acido negli acquedotti e tutti sono ubriachi di meritocrazia.

Del resto, gli esempi storici di merito italiano sono essi stessi paradossi micidiali. Parlare di merito nel paese di Francesco Cossiga, per dire, è come parlare di felicità matrimoniale in casa di Barbablù. Un ministro dell’Interno che assiste al rapimento del capo del suo partito, che lo ritrova cadavere due mesi dopo, che guida le indagini con l’arguzia di un ispettore Clouseau contro non certo irresistibili geni del male, anziché essere pietosamente pensionato senza lodi, ed anzi cacciato con ignominia, viene premiato con la prima carica dello Stato, servito, riverito e ascoltato pure nei non rari momenti di follia.
Si fosse seguito il ferreo criterio del merito, certo, non sarebbe successo, e non è che uno dei più mirabolanti paradossi italiani, cose vecchie e polverose.

Sui meriti attuali, invece, si tende a sorvolare. Non perché non se ne parli o perché non raggiungano l’onore delle cronache, ma perché si tende subito a correre in soccorso dei meritori, difendendoli dalla «colpa» d’essere figli di, nipoti di, mogli, cognati. Per dire, sui due lavori (non precari) della figlia della ministra Fornero (nella stessa università dove insegnano mamma e papà, peraltro) si è polemizzato non poco. Anche della liquidazione milionaria (3,6 milioni di euro), dopo un anno di lavoro, del figlio della ministra Cancellieri (presso Fondiaria-Sai di Salvatore Ligresti) si è detto, specie ricordando che la ministra aveva tuonato a suo tempo che i giovani d’oggi vogliono la pappa fatta e che «pretendono di lavorare vicini a papà e mamma» (ancora!). In questo caso ci si affretta a dire che sì, avranno avuto la strada spianata, ma sono tanto bravi, che colpa ne hanno? Si possono forse penalizzare? Gli altri, quelli bravi ma senza famiglia adeguata, che si arrangino. Diciamo dunque che c’è merito e merito: quello turbo, supportato dalle condizioni sociali, e quello semplice, magari eccellente e comprovato, ma – ahimè – non piazzato già in partenza su un poderoso trampolino.
Sulle prebende dei vari rampolli blasonati, sui fortunati eredi di rendite accumulate dalle precedenti generazioni, insomma, si argomenta ogni giorno, anche menando qualche scandalo, ma senza apparenti vie d’uscita.
Tutti giovani di merito, s’intende, e tutti con il merito di avere lussuose corsie preferenziali.

Ecco: non è vero che l’ascensore sociale è fermo, semplicemente è completo, occupato dalla nomenklatura, e la gente normale usa le scale, faticosamente e sbuffando. Mentre arranca, gradino dopo gradino, si sente gridare da chi sta salendo in ascensore: merito! Coraggio! Ci vuole merito!
Non risulta dalle mie pur capillari ricerche, un figlio di ministro o sottosegretario, o grande manager pubblico o privato, o maggiorente di ogni tipo, che frigga le patatine da McDonald o consegni pizze a domicilio. Sono pronto a fare penitenza se mi si dimostrasse il contrario, anzi, in quel caso ne prenderei due, con le acciughe.

Naturalmente il discorso del merito non è tutto qui. Anzi, quello descritto è solo un effetto collaterale. È proprio perché la classe dirigente italiana ha poco o nulla a che vedere con il merito che il discorso sul merito attecchisce rigoglioso.
Ed eccoci al secondo paradosso sul merito. La popolazione che non raggiunge i piani alti invoca il merito, il concorso non truccato, la posizione guadagnata per capacità e non per appartenenza castale, il duro lavoro anziché la strada spianata. Ne ha abbastanza dei privilegi, delle carriere già disegnate, delle corsie preferenziali. E dunque, ipnotizzata da una prospettiva di giustizia sociale basata sulla competizione, invoca il merito non sapendo o fingendo di non sapere che il suo merito verrà valutato proprio da chi sta in alto.
Lo schiavo costruttore di piramidi si indigna perché, portando due pietre, ha lo stesso trattamento dello schiavo che ne porta una. E chiede al guardiano armato di frusta di intervenire per senso di giustizia. Naturalmente, i concorsi pubblici per guardiano armato di frusta sono bloccati.
Ed è sulla valutazione del merito – di più, sulla gentile concessione di una valutazione del merito – che s’avanza il terzo enorme paradosso del merito, il più clamoroso, il più evidente e il meno esplorato.

Prendete una gara olimpica, per esempio i cento metri piani. Mettete sulla linea di partenza Usain Bolt, il grintoso velocista giamaicano, e un giovane di pari età con una gamba ingessata e uno zaino di cento chili sulla schiena. Ecco: all’arrivo applaudite il vincitore e riconoscetegli il merito della vittoria.
Fatto? Perfetto: eccovi servita la squisita specificità italiana del discorso sul merito.

Perché con la stessa festante sicumera con cui si invoca il merito, si respinge, al contempo, qualunque possibile riferimento a una parola antica e desueta, poco moderna e impolverata, nostalgica e ideologica: uguaglianza.

Mio figlio, nato in una casa in cui si legge, si discute, si usa un decente italiano senza sterminare i congiuntivi, si vedono telegiornali, si viaggia nelle capitali europee, si visitano musei, si gioca, si fa normale uso di tecnologia, gareggia nello stesso campionato del suo compagno di classe, un giovane rom Sinti. Quello viene da una roulotte gelida d’inverno e rovente d’estate, magari periodicamente abbattuta dalle ruspe delle guardie comunali, frequenta la scuola un giorno su tre e ha la stessa confidenza con la lingua che ho io con la fisica quantistica. Che esito avrà questa nobile gara di merito? Chi dei due salirà più velocemente le scale dell’affermazione sociale? Scommettiamo? Vincerei senza problemi, ma come si può capire, con un certo merito.

Parlare di merito senza parlare di uguaglianza, dunque, si configura come una truffa con destrezza. Truffa, perché il discorso contiene un oggettivo premio di maggioranza per chi già è favorito per posizione sociale, tradizione familiare, disponibilità economica. E destrezza perché si tenta di convincere chiunque sia appena poco più che totalmente imbecille che il farsi strada nel mondo dipende da lui soltanto, dalla sua capacità, dal suo merito e non dalla struttura della società, dai suoi meccanismi profondamente ingiusti.
In pratica, qualunque discorso sul merito che prescinda dal discorso dell’uguaglianza non è altro che un chiaro disegno conservatore, volto a conservare, appunto, gli equilibri esistenti.
Non sfuggirà a nessuno, del resto, l’esilarante balletto delle previsioni che periodicamente indicano ai giovani i più fruttuosi e promettenti rami di studio. La laurea, il miraggio di promozione sociale dei baby boomers, non bastava più. Ci voleva il master. Possibilmente il master all’estero. Trovandosi poi un esercito di laureati e masterizzati a far fotocopie in ufficio, ci si pose il problema di consegnare a man bassa lauree brevi. Poi si disse che un buon diploma sarebbe stato meglio. Poi si arrivò a dire che un buon lavoro manuale avrebbe pagato di più. Ora, che abbiamo un gran bisogno di idraulici, di infermieri e di piastrellisti, dei quali sarà assai più facile valutare il merito. E soprattutto meno rischioso per chi potrebbe essere insidiato dalle loro capacità.
Bello, eh, il merito! Ma c’è un gran bisogno di proletari, e non di intellettuali pretenziosi. Gli attacchi al diritto allo studio, i tagli della signora Gelmini, le ironie della signora Fornero sui giovani «choosy» che è meglio si accontentino e l’aumento delle rette universitarie (quest’anno, 7 per cento in più rispetto all’anno scorso, in media) dicono proprio questo. Che il merito è una grande tosatura delle insulse pretese della piccola e media borghesia, che aspirava a diventare ceto medio e viene ricacciata in basso. Perché non merita.

E poi, per chiudere il cerchio, ecco l’ultimo paradosso dell’inganno del merito.
E quelli che non meritano? In una società così pervicace e feroce nel premiare il merito, che fine farà chi proprio non ci arriva? Chi non sa fare e forse non saprà mai, chi rimane indietro, chi rifiuta il meccanismo, chi non è dotato?
Un’enorme rupe Tarpea potrebbe essere una soluzione abbastanza moderna? Un grande penitenziario per i non meritevoli? Un’isola? Un confino?
Andiamo, in fondo non sarebbe un prezzo troppo caro per una società di tipo liberista basata sul nuovo-vecchio feticcio del secolo XXI. Il merito.

Ma che brutta campagna elettorale! di Giacomo Russo Spena, Micromega

Il leader del centrosinistra Bersani, un giorno sì e l’altro pure, cerca un dialogo postvoto con il Professor Monti (il quale di tecnico ha nulla, di politico tutto). Berlusconi ormai colleziona i calendari di Mussolini e propone catene di Sant’Antonio. Grillo preferisce parlottare con Casa Pound, intonare i suoi vaffanculo e attaccare i sindacati. Ingroia – a sinistra avrebbe un’autostrada – si fossilizza in sterile polemiche con la Boccassini, che forse a mia insaputa si candida anche lei. Difficile immaginare una campagna elettorale così brutta e soprattutto lontana dai sentimenti, dalle paure e dalle condizioni materiali delle persone. Senza fare facile demagogia, sembra un dato di fatto che la politica (in senso sano del termine) sia la grande assente in questa tornata. Passano i giorni, il 24 febbraio si avvicina, e non si ascolta dibattito su disoccupazione giovanile, piaga delle precarietà – ormai non solo lavorativa ma esistenziale – chiusure delle imprese. Sulla difficoltà di arrivare a fine mese. Al massimo qualche promessa, ma poco credibile: alcuni leader tentano di rifarsi una verginità. Bersani – che dopo aver votato la riforma in Parlamento – afferma di volersi occupare entro i primi 100 giorni da premier degli esodati. Chissà chi l’ha creati. Oppure promette il taglio alla spesa per gli F-35 e pure quelli chissà chi li ha rifinanziati.
Monti – ancora più stupefacente – dopo aver tassato anche l’aria fa promesse berlusconiane di sgravi fiscali e tagli di Irpef e Irap. E l’Imu, boh? Non si capisce chi l’ha messa e chi l’ha voluta. Intanto  mentre i media si occupano dell’ultima mossa machiavellica di Berlusconi per vincere le elezioni – SuperMario Balotelli! – nel Paese succede che a Palermo la polizia carica gli operai della Gesip, “rei” di chiedere il pagamento della seconda rata della cassa integrazione. Grave colpa, in effetti. E qualcuno mi sa dire che succede a Taranto? E nelle carceri? La Corte Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo – poche settimane fa – ha condannato l’Italia per “violazione dei diritti umani, tortura e trattamento inumano e degradante”.
Abbiamo pochi mesi per rimediare all’aberrazione delle galere nostrane arrivate a 66mila detenuti a fronte dei 48mila posti letto. Barbarie. Non ci sono altri termini plausibili. Eppure nessun ultimo governo è riuscito a risolvere l’emergenza, tanto che la stimabilissima associazione Antigone – delusa dall’inefficienza della Casta non sensibile al problema – sta promuovendo tre leggi di iniziativa popolare per l’introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura, per l’abrogazione della legge Fini Giovanardi sulle droghe e, come terza, per una nuova normativa per il carcere dove si introduce ad esempio la figura del difensore civico.
Altro caso emblematico: a Roma l’altroieri sono morti due clochard dal freddo, in grande aumento nella Capitale. Ma non solo. Si attende, con ansia, qualcuno che esca dal pollaio e dal politicismo per ritornare a parlare al Paese reale. Quello che ormai soffre la fame e vede grigio il proprio futuro.
PS: alla fine voterò, turandomi il naso, il “meno peggio” e la lista più vicina alle istanze sociali e alternativa a berlusconismo e montismo ma… mai come in questa tornata elettorale comprendo l’astensionismo

La disfatta dei salari, i sindacati e Petrolini di Giorgio Cremaschi, Micromega

Ci sono notizie che durano il tempo di una breve del telegiornale, e poi vengono inghiottite dal bidone aspiratutto degli scandali e della campagna elettorale, mescolati tra loro.
L’ISTAT ci ha comunicato che la dinamica attuale dei salari è la peggiore degli ultimi trent’anni. Questo dato dovrebbe essere alla base di ogni proposta che si fa per affrontare la crisi. Ma non è così. La caduta dei salari è diventata un dato di colore, fa parte dello spettacolo del dolore mostrato in televisione, sul quale meditano e dissertano i candidati. Ma senza che si pronunci la frase semplice e brutale: aumentare la paga!
Poco tempo fa il CNEL ha comunicato un altro dato su cui riflettere davvero. Negli anni 70 la produttività del lavoro in Italia è stata la più alta del mondo, poi è solo calata. Sì, proprio quando il lavoro aveva più salario e più diritti,”rendeva ” di più!
Anche questa notizia è stata rapidamente metabolizzata e poi successivamente ignorata dal sistema politico informativo. Immaginiamo infatti come sia difficile collegarla alla precedente. La produttività e i salari calano assieme da trenta anni, ma non ci sarà un rapporto tra i due dati?
No, una seria analisi su tutto questo non la si può fare, altrimenti bisognerebbe concludere che sono fallimentari tutte, ma proprio tutte le politiche economiche e sociali tese ad agire sulla compressione del costo del lavoro.
Insomma tutte le politiche del lavoro di tutti i governi degli ultimi trenta anni hanno concorso a determinare il disastro attuale. E tutte le ricette in continuità con esse, flessibilità competitività blablabla, cioè quelle delle principali coalizioni che si contendono il governo del paese, sono inutili, sbagliate, dannose.
Ma tutto questo non avviene, anche perché mancano all’appello coloro che per funzione per primi dovrebbero sollevare scandalo ed indignazione per tutto questo.
Il grande comico Petrolini una volta si trovò in teatro uno spettatore che dalla galleria lo insultava.. Ad un certo punto interruppe la recita e si rivolse al disturbatore dicendo: io non ce l’ho con te, ma con chi ti sta vicino e non ti butta di sotto!
I grandi sindacati confederali hanno accompagnato con i loro accordi questi trenta anni di ritirata dei salari e del lavoro, a volte ottenendo come scambio vantaggi di ruolo e potere. I lavoratori andavano indietro, ma il sindacato confederale andava avanti sul piano istituzionale.
Il disastro dei salari ed il declino economico sono dunque anche figli delle politiche di moderazione rivendicativa, di concertazione e complicità, che hanno prevalso in questi ultimi trenta anni nel movimento sindacale.
Grazie a queste politiche, per lungo tempo l’organizzazione del sindacato confederale non ha risentito del peggioramento delle condizioni del mondo del lavoro. Finché Monti ha ufficialmente affermato che si poteva fare a meno anche di quello scambio, il consenso sindacale non era più necessario, si potevano massacrare le pensioni senza accordo. Così dopo la ritirata del lavoro è cominciato il vero declino sindacale.
Non è vero che i sindacati non servono, ma è vero che il sindacato che pensa di sopravvivere continuando ad accettare le compatibilità e i vincoli economici degli ultimi trenta anni non serve più a niente. Neanche a se stesso.

Monti e il profumo delle brioches di Maria Antonietta di Alessandro Robecchi, Micromega

Sapesse, signora mia… Quella che segue è una piccola riflessione su chi ci governa (al momento, ma temo anche domani e forse per sempre), su chi sa ridere di loro e sulle differenze antropologiche (nemmeno politiche!) tra loro e noi. Involontaria protagonista, la signora Lidia Rota Vender, esimia professionista, alta società civile (!), candidata al Senato con la Lista Monti alle elezioni del 2013.
Eccola mentre – alla convention di presentazione della lista – racconta due aneddoti sulla vita di Mario Monti. Siamo dalle parti delle brioches di Maria Antonietta, delle riunioni del Rotary, del circolo di canasta travestito da casta tecnocratica che ci governa, tanto elegante e civica, quelli che le “cene eleganti” le fanno davvero, restando vestiti. Quelli che – andandosene Berlusconi tra sberleffi e ghigni proletari – venivano salutati dal Paese come i salvatori della patria, ai tempi (è passato poco più di un anno) in cui si salutava il loden del professor Monti come una rivoluzione culturale. Un anno dopo, le cifre economiche del Paese sono decisamente peggiori (dal potere d’acquisto alla disoccupazione, dagli investimenti all’erogazione dei crediti alle imprese e ai lavoratori, dai consumi ai redditi), ma i famosi mercati sembrano meno turbolenti. Ecco. Ma questo non basta. O non serve. O non è quello che qui si vuol dire. Ciò che strabilia sentendo gli “aneddoti” della dottoressa Rota Vender è altro. E’ un’aria di culto della personalità di tipo sovietico applicata al tecnocrate bancario. E’ una specie di “realismo capitalista”. E’ la retorica dell’imprenditore. E’ il circolo ristretto che se le canta e se le suona, che non vede né il mondo né la società intorno, che pensa e crede di essere il mondo e – peggio – il mondo giusto.
Non c’è niente di violento o di deplorevole nelle parole della signora dal palco in cui presenta il suo candidato premier. Eppure c’è un universo di differenze, di distanze abissali. C’è il mondo parallelo di una borghesia che basta a se stessa e vede solo sé, che scambia i suoi valori da privilegiati per valori universali. Non c’è il lavoro, non c’è la vita, non c’è la società. C’è solo lei, la razza padrona. Una faccenda che fa il paio con la signora Elsa Fornero che a chi le chiede della sua riforma del lavoro risponde (ieri a Firenze) con una frase francamente strabiliante: “Questa riforma del lavoro è una scommessa, non ho elementi per dire se funzionerà”. L’indifferente leggerezza di chi parla delle vite degli altri – delle nostre, tra l’altro – come se parlasse della salute delle sue begonie e del circolo del bridge. Anche qui, come nella deliziosa performance della signora Rota Vender, sentirete chiaro e forte il profumo delle brioches di Maria Antonietta.
La satira, poi, fa il suo mestiere. Maurizio Crozza, nel suo spettacolo, ha saputo cogliere l’essenza di questa razza padrona. Non le sue leggi, i suoi decreti, i suoi voti di fiducia, le sue (contro)riforme, ma la sua vera essenza. L’anima nuda. Il presidente che incoraggia il ragazzino a diventare imprenditore (già, quale missione sarebbe più nobile!). Il presidente che indovina tutte le risposte a Trivial. E via così, il Duce che ara dieci ettari, la luce dell’ufficio di piazza Venezia accesa anche di notte perché Lui lavora sempre. E’ il caro, vecchio, immortale sogno della borghesia italiana: i migliori tra noi ci pensano e risolveranno tutto. Ma è anche – nell’apoteosi di involontario ridicolo – una meravigliosa rivelazione: quella razza padrona c’è, è qui, in mezzo a noi, ancora (e sempre) comanda, governa, decide, incurante (eppure potrebbe averne i mezzi culturali!) della sua gloriosa inadeguatezza. Un tempo lontano, quando eravamo piccoli (e stupidi) la chiamavamo “borghesia assassina”. Ora che non siamo più piccoli (ma stupidi chissà), abbiamo imparato a misurare le parole, ma non per questo siamo diventati ciechi e sordi.
Come diceva Crozza, “E’ gente che conosce il mondo attraverso i suoi maggiordomi. E’ gente che si chiede: ma tutti questi italiani che non riescono ad arrivare alla fine del mese, e non riescono ad arrivare alla fine del mese, non riescono ad arrivare alla fine del mese… ma santo cielo… ma perché non partono prima?”.
A stretto giro, il presidente del consiglio Mario Monti ha accusato il colpo. Venendo meno al rituale aplomb (quello del loden e, si direbbe, delle risposte a Trivial) ha bollato Crozza come “patetico disinformato” (a Zeta, il nuovo programma di Gad Lerner). Ma siccome il diavolo è nei dettagli, ha aggiunto: “Abbiamo in lista anche dei terremotati poveri!”. Ecco, di nuovo quel profumo di brioches di Maria Antonietta.
Chiudo qui questa piccola riflessione. Con la notazione – mica tanto in margine – che la satira questa volta ha colpito nel segno. Ha fatto male. Non una caricatura, non una parodia. Ma una traduzione, una dimostrazione pratica, una fotografia svelata. Come ha scritto la mia amica Roberta Carlini, economista insigne, attenta osservatrice di quel mondo finanziario-padronale che ci governa: “Quella di Crozza è la foto più vera e crudele fatta a Monti e alla sua Alta Società Civile da quando è salito in campo”. Ecco. Per questo il piccolo spezzone di spettacolo qui sotto non è solo satira, né solo politica, né solo capacità artistica e genio comico. E’ – esattamente, perfettamente – ciò di cui parliamo quando parliamo di razza padrona, dell’elegante circolo di canasta che ci governa, e di noi che sappiamo vederlo. Buona visione.


Mps, Monti fa il buonista di Michele Carugi, Il Fatto Quotidiano

La vicenda del Monte dei Paschi, con tutte le sue implicazioni politiche e penali è stata parzialmente sviscerata dai media; altro verrà auspicabilmente fatto a breve dalla magistratura. Su ciò che è avvenuto non c’è pertanto molto di più da commentare di quanto non sia stato ampiamente detto, anche perché di certo ci sono solo l’insipienza dei gestori e l’ampiezza del problema, per il resto si attendono appunto le conclusioni delle indagini.
Si può però fare un commento comparativo sulle modalità di salvataggio della banca, con il prestito di 3,9 miliardi di euro grazie ai “Monti bond”. Ascoltando Monti, il prestito è vantaggiosissimo per lo Stato in quanto ritorna interessi in partenza al 9% con possibilità che salgano perfino al 15% max.; inoltre Monti ha ampiamente spiegato che il prestito è un aiuto ai correntisti e non alla banca.
A parte il fatto che la rilevanza dei tassi di interesse presa a sé stante non è sempre indice di buon affare, – subprime docet – quello che fa pensare è l’approccio particolare che Monti sembra avere quando si parla di banche.
Venendo alla comparazione, un’impresa in difficoltà non ottiene finanziamenti; a meno che qualche istituto di credito non sia così esposto nei confronti dell’azienda da considerare un ulteriore finanziamento come un rischio inferiore al possibile default con perdita del credito, l’impresa viene messa nelle condizioni di fallire o, alternativamente, l’azionista è forzato a ri-finanziare e se non ce la fa, a vendere – talvolta a regalare – a chi può farlo; in quest’ultimo caso l’azionista perde la proprietà dell’impresa.
Contrariamente a questa prassi – molto liberista, peraltro – quando si parla di banche si parla spesso di prestiti ponte da parte dello Stato per traghettarle in acque sicure; è quello che è successo negli Usa dopo i crack dei sub-prime; anziché forzare le banche sull’orlo del default a emettere azioni che gli Stati potrebbero acquistare assumendo anche il controllo delle banche stesse, si erogano prestiti per ammontare equivalente; molto meglio per i banchieri, i quali possono rimettersi in sesto, restituire i prestiti e tornare a fare quello che facevano prima tirando un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. 
Le imprese non bancarie no; a quelle niente prestiti; se la proprietà è stata sprovveduta, se non ha saputo gestire bene una crisi di mercato o ciclica, se non ha ridotto per tempo la capacità produttiva per adeguarla alla domanda, oppure se ha sbagliato un investimento in impianti o prodotti, viene punita con la perdita dell’azienda; se va bene l’azionista riesce a (s)vendere; se va male l’acquirente lo trova talvolta l’amministratore temporaneo nominato dal giudice.
Come cittadino che ha contribuito per la propria parte a quei 3,9 miliardi di euro che vengono prestati a Mps avrei preferito che gli stessi fossero stati utilizzati per assumerne il controllo, nominare consiglieri di amministrazione di fiducia che seguissero da vicino le attività di risanamento per poi rivendere le proprie quote sul mercato una volta terminate.
Questo è ciò che con grande probabilità sarebbe successo se ad avere bisogno di un prestito ponte fosse stata un’impresa; quando la stessa non fosse stata abbandonata al default. Mi si dice: “Ma la banca non può fallire in quanto ha i correntisti che ne uscirebbero malconci”; obietto a ciò: un azienda ha dipendenti e fornitori creditori, i quali non hanno neppure una clausola di garanzia come quella dei correntisti, che sono coperti fino a 100.000 euro dallo Stato. E comunque non si deve portare la banca in cattive acque al fallimento, ma utilizzare questa ipotesi per acquisirne il controllo sì; specialmente se alla base della cattiva situazione in cui versa ci sono operazioni finanziarie disinvolte, forse malversazioni. Così come tredici mesi fa non era necessario uscire dall’euro ma utilizzare questa ipotesi per negoziare una migliore permanenza, si.
Senza voler pensare che le decisioni diverse prese da Monti siano dovute alla sua predilezione per il rigore tedesco e per le banche, brillano però in questi due casi l’assenza di cinismo e di durezza anche eccessiva che invece sono stati dispiegati da Monti in altre situazioni.
Forse l’essere forti con i poteri forti richiede determinazione convinta e indipendenza di pensiero.

Lo “spread” della spesa pubblica di Comitato per la Salvaguardia dei Numeri Reali

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Uno studio realizzato dalla Ragioneria Generale dello Stato, dal titolo “La spesa dello Stato dall'Unità d'Italia”, [1] certifica la sostanziale linearità della spesa pubblica italiana rispetto alla media europea. In particolare, i dati ufficiali certificano che la spesa pubblica nei quattro maggiori paesi della zona euro
(Germania, Francia, Italia, Spagna) vede l’Italia inposizione intermedia tra Francia e Germania, mentre la Spagna, che pure viene chiamata la “grande malata d’Europa”, si caratterizza per un livello di spesa costantemente più basso. Il paese con la spesa pubblica più bassa è l’Irlanda, per anni indicata come l’esempio da seguire, sebbene sia stata la prima ad essere investita dalla crisi, con esiti la cui drammaticità è seconda solo al caso della Grecia.

Se si esclude dal calcolo la spesa per interessi, il dato italiano è particolarmente interessante. La nostra spesa per interessi (che per la sua entità ha avuto un pesante effetto redistributivo in favore della rendita) è esplosa a partire dal 1981, dopo il “Divorzio Tesoro-Banca d'Italia” (vedi il volantino strategico n°1 sul blog lasolitudinedeinumerireali.blogspot.com).
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Nel confronto sulla spesa al netto degli interessi (spesa primaria - grafico a sinistra), quella italiana risulta più bassa di quella tedesca e francese, e più alta di quella spagnola e irlandese. Perché proprio i paesi che hanno avuto meno spesa pubblica primaria sono in crisi? Perché hanno speso male? Perché sono corrotti, mentre i tedeschi sono virtuosi? Oppure, c’è dell’altro, che molti hanno interesse a nascondere con cura...?

Ricorda: la prima vittima della crisi è la verità

Monte dei Paschi. Il problema è proprio la banca di Claudio Conti, Contropiano.org

Colpa "della politica" o della normale attività bancaria? Il caso Mps usato da molti per gettare fumo negli occhi e nascondere i meccanismi di funzionamento "normale" delle grandi banche.

Nell'analizzare la tragicommedia di MontePaschi, intervistato da Fabio Fazio, il direttore del Sole24Ore, Roberto Napoletano, invitava tutti a “metter da parte la politica”. Ovvero a non concentrarsi troppo sul fatto che la banca aveva un rapporto speciale con il Pd e a badare piuttosto alle conseguenze sistemiche sul sistema bancario e l'economia nazionale.

L'invito, da parte di un giornalista, è sembrato quasi sorprendente (dove c'è scandalo ci sono copie da vendere). Evidenziando quindi la preoccupazione che domina all'interno di Confindustria e dell'Abi, che nella vicenda ha perso addirittura il presidente.

Ma è un invito che almeno in parte va raccolto, perché - dal nostro punto di vista – la questione più interessante è il modo di funzionamento di una grande banca, non le singole macchinazioni dei suoi “azionisti di riferimento”. Ma anche perché, avendo potuto ascoltare diverse fonti non sospette sulla vicenda, l'immagine di MontePaschi come “banca del Pd” è decisamente sovradimensionata. Il Pd vi gioca naturalmente un grande ruolo, ma nella storia recente e non di questo istituto hanno avuto udienza le necessità di finanziamento di soggetti decisamente diversi. Berlusconi stesso, di primo acchitto, ha confessato il suo “affetto” per la banca che gli aveva permesso di portare a termine le operazioni immobiliari “MilanoDue” e “MilanoTre”. Membri noti e importanti della P2 e della P4 – rivelava ieri Repubblica – si sono potuti sedere, illustrare i propri progetti e uscirne contenti. La massoneria, toscana e non, ha da sempre parecchi terminali in quella Rocca.

Il Pd, del resto, anche su questo fronte, non è più il Pci semi-monolitico di una volta. A far data dall'uscita di scena di Achille Occhetto (ultimo segretario di quel qualcosa chiamato Pci, non a caso), il segretario del partito non è stato più il “controllore” assoluto di quanto si muoveva anche a livello di cordate finanziarie.

Con l'avvento dei D'Alema & co. si passa infatti a un “sistema di cordate” che cercano un equilibrio anche all'interno del Pd, oltre che del mercato, e l'unica governance possibile è l'autonomizzazione delle varie “cordate” con modalità di rapporto reciproco non devastanti per la tenuta dell'insieme. Difficile, insomma, chieder conto a Bersani – referente certo delle cordate emiliane (da Unipol alle Coop, ecc) – di cosa accadeva in Mps, che ricadeva in pieno sotto il raggio di interesse dei “toscani”. Che infatti tacciono, a partire da Matteo Renzi, mentre Bersani minaccia di “sbranare” che cerca di tirarlo in mezzo.


Il problema vero è che una grande banca è quella roba lì. È una “camera caritatis” dove poteri di vario livello, territorializzati o meno, cercano le risorse per operazioni di dubbio valore come per progetti degni di nota. È una centrale idraulica in cui entra capitale reale e si crea capitale fittizio, in uno scambio che deve essere complicato fino al punto da rendere indistinguibili i flussi. E in cui il controllo complessivo è continuamente a rischio. Perché laddove il credito diventa "scommessa" può accadere di tutto, anche l'indesiderabile...

Mps si crea un problema patrimoniale irrisolvibile quando tenta di diventare una “grande banca”. Bisogna ricordare che la prima metà degli “anni zero” del nuovo millennio sono anni di veloci fusioni tra banche italiane; un processo messo in moto da un lato dalla privatizzazione dei cinque istituti di credito “di interesse nazionale”, dall'altro dalle normative europee “liberalizzatrici” che solo l'Italia si sbriga a mettere in pratica. Diventare "grandi", insomma, era anche un modo di non essere ingurgitati dalle banche straniere, come avvenne a Bnl.
Mps parte tardi in questa corsa che vede come principali protagoniste – ad un certo punto – Unicredit e IntesaSanPaolo. Le sue acquisizioni (Banca Toscana, l'Agricola Mantovana, Banca della Marsica, Banca del Salento, ecc) sono allo stesso tempo troppo costose e insufficienti a garantire la “massa critica”. Quando tracolla AntonVeneta, acquisita in un primo momento dagli spagnoli del Santander, a Rocca Salimbeni si accende la spia rossa: prendere quella banca è forse l'ultima occasione per diventare finalmente “grandi”.

Ma siamo già in piena crisi e il valore di borsa delle banche crolla più rapidamente degli indici azionari industriali. Mps, nel 2005, valeva in borsa quasi 12 miliardi; alla fine del 2011, nonostante il “gigantismo” finalmente raggiunto, soltanto 2,7.

Non volendo rinunciare a una fusione ritenuta “strategica” i vertici di Mps pagano un prezzo folle (10,3 miliardi, mentre Santander soltanto due mesi prima ne aveva spesi soltato 6,6), rinunciano persino alla normale “doppia due diligence” sui conti di AntonVeneta, ci aggiungono degli extracosti che ora i magistrati ritengono essere fondi neri per mazzette politiche e premi aggiuntivi per i dirigenti... e infine devono mettere in piedi alcune operazioni basate su “prodotti derivati” per coprire le immense perdite di questa acquisizione.

Qui entrano in gioco le grandi banche d'affari globali – JpMorgan, in primo luogo – che creano, manipolano, fanno circolare i “derivati”. Qui Mps perde definitivamente il controllo della situazione e inizia a mettere in atto le pratiche illegali che ora hanno portato alla contestazione di reati penali specifici: manipolazione del mercato, ostacolo alle funzioni della vigilanza da parte della Banca d'Italia, aggiottaggio e infine – sembra – truffa nei confronti degli azionisti.

Se questa ricostruzione è anche approssimativamente esatta, in effetti “la politica” conta abbastanza poco. Certo, i soldi per finanziare il Palio e altre iniziative sportive (Siena calcio e basket) venivano di lì; i fondi per imprese legate al Pd e dintorni, anche. Ma questi sono spiccioli, nel bilancio complessivo e disastroso di Mps.

La parte principale è la “normale attività” di una grande banca. È questo che anche molti compagni dovrebbero mettere al centro dell'attenzione, evitando di farsi come sempre deviare lo sguardo verso “il dito” (il Pd, in questo caso) perdendo di vista “la luna” della finanza nel suo perverso operare.

Confindustria alla ricerca del profitto perduto di Pasquale Cicalese, MarxXXI

Solita solfa, “flessibilità del lavoro”, come se questa ti risolvesse i problemi. Ne hanno fin troppa dall’epoca del Pacchetto Treu e la produttività del lavoro è crollata. Nel frattempo, questi signori hanno avuto 15 anni di boom di profitti, evaporati nelle bolle azionarie e nel mattone. Non ci pensavano mica ad investire nelle aziende, piuttosto le spolpavano per arricchire i patrimoni familiari, i quali sono stati bruciati nella grande crisi. Ora li devono ricostituire, ma è dura, alquanto dura. Pensavano di andare in Cina per il “basso costo” del lavoro, ma quella dirigenza gli ha combinato uno “stoppino” con la reflazione salariale. Gli rimane la Moldavia, il Nord Africa, il Bangladesh, ma con questi paesi non ci fai poi molto. Unica controtendenza alla caduta del saggio di profitto la vedono nella “svalutazione salariale interna”; che poi le dimensioni delle loro aziende siano ridicole, che nessuno si quoti in borsa o che da un trentennio non investono una lira nelle loro imprese a loro importa poco.
Semplicemente non ci arrivano. Eppure, nel documento di Confindustria c’è anche altro da sottolineare. Uno dei cardini è la riforma del Titolo V della Costituzione, che nel 2001, grazie ai “geniali” Bassanini e Amato, ha dato un potere enorme alle regioni, con l’esplosione della spesa corrente e il conseguente ingrassamento del capitale commerciale.
Questa massa di capitali, secondo Viale dell’Astronomia, deve ritornare nel circuito industriale, di modo che il peso del manifatturiero passi nel giro di un quinquennio dal 16,9 al 20,7% in rapporto al Pil, in un contesto di crescita “presunta” media annua del 2%. Fatti i conti ben 120 miliardi di euro devono ritornare agli industriali. A danno di chi? Fatevi un giro per le regioni e vi potrete rendere conto…Un’altra misura è la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi degli enti locali presso la Consip: associate questa misura ad una sola voce, la sanità, e vi potrete rendere conto di quanto potere toglierebbero ai cacicchi locali, di centrodestra e di centrosinistra. Con l’abbattimento dei costi conseguenti a queste misure fiscali, si otterrebbero azioni di “protezionismo fiscale”, in luogo di quello valutario non più possibile, dirompente. Queste le azioni di “protezionismo fiscale”: abbattimento Irap, diminuzione oneri sociali e previdenziali e del costo del lavoro conseguente, diminuzione delle aliquote Ires (la voce fiscale del profitto industriale) dal 27 al 23%, diminuzione degli oneri Inail e poi, ciliegina sulla torta, aumento aliquote rendite finanziarie al 23% e, soprattutto, “armonizzazione fiscale”. Cos’è questa misura? Per capirla occorre ritornare indietro: dagli anni settanta in poi, per motivi politici legati ad interessi sia della DC sia del PCI, i governi introdussero aliquote fiscali favorevoli per cooperative, artigiani e commercianti, una massa elettorale che si ingrossava sempre più a causa del tanto decantato “decentramento produttivo”. Nel 2013 questa massa informe di operatori economici è alla base del crollo della produttività totale dei fattori produttivi date le loro, spesso, dimensioni lillipuziane. E’ la massa dei sanfedisti, colpiti duramente dalla crisi e che trovano nel documento di Confidustria presentato lo scorso 23 gennaio la mazzata finale. Non servono più, ecco il messaggio, sono un peso enorme per il ritorno della profittabilità delle imprese. Ciò avrebbe un’altra indicazione: massacrando queste categorie si potrebbe, dopo più di 40 anni, ribaltare la filosofia economica del decentramento produttivo; questi lavoratori indipendenti, ingrossando le file dell’esercito industriale di riserva, sarebbero la base di una nuova forza lavoro, spesso qualificata, da impiegare nelle aziende che nel frattempo aumentano le dimensioni e, soprattutto, “reinternalizzano” fasi produttive. Nello specifico, l’entrata in fabbrica, perché di questo si tratta, di forza lavoro prima impiegata in cooperative e, soprattutto, facente parte precedentemente di una massa enorme di lavoratori indipendenti, che ad oggi costituiscono ben il 22% dell’intera forza lavoro italiana, unita ad un aumento delle dimensioni aziendali e ad incentivi pubblici che, secondo Confindustria, devono essere finalizzati unicamente a “Ricerca e Sviluppo”, permetterebbero un aumento significativo dei margini operativi lordi e da qui al profitto industriale anche perché, spesso, si tratta di forza lavoro qualificata che può essere inquadrata in una cornice di fortissima flessibilità. Il massacro sociale, invece, nei confronti del mondo dei commercianti non farebbe altro che far ritornare plusvalore estorto, che in questi decenni si è trasformato in capitale commerciale e in rendita, al profitto industriale. Insomma, è al contempo una “guerra di classe” e una “lotta tra fratelli-nemici”. Non basta. Una massa enorme di capitali pubblici deve, secondo Confindustria, passare dalle spese correnti alle spese in conto capitale con una centralizzazione e al contempo un potenziamento delle spese per infrastrutture, soprattutto per la logistica, che permetterebbero un aumento della produttività totale dei fattori produttivi. Ma quale sarebbe il conseguente “mercato di sbocco” di quest’aumentata produzione industriale? Qui Viale dell’Astronomia è chiarissima: la quota percentuale rispetto al pil del commercio estero deve passare dal 29,7 al 36,9%. Dunque, mercato mondiale. Come si otterrebbe? Raddoppio spese per l’Istituto del Commercio estero, fortissimo potenziamento della Legge Ossola finalizzata alla penetrazione commerciale estera e aumento considerevole delle risorse finanziarie per la Simest, la merchant bank pubblica dedicata all’internazionalizzazione delle imprese. Ciò innescherebbe una ripresa della domanda interna, ma gli economisti di Viale dell’Astronomia sono chiari: signori, trovate sbocchi all’estero altrimenti perirete… Chi morirebbe? Ovvio, le micro e piccole imprese, la massa enorme dei sanfedisti cullati in questi decenni prima dalla DC e poi dal centrodestra. Anche qui ci troviamo di fronte alla “lotta tra fratelli nemici”. La “morte” di “piccoli capitalisti” salvaguarderebbe la sopravvivenza dei medio grandi imprenditori, i quali, con le masse enormi di capitali pubblici e con il “protezionismo fiscale”, otterrebbero un aumento considerevole dei profitti industriali.

Ma la domanda è la solita: cosa ne farebbero di questi profitti industriali, visto che da decenni non investono? Misteri della fede dell’economia italiana…

Siamo sicuri che una volta sistemato l’assetto interno non vengano a loro volta massacrati nel mercato mondiale, data la concorrenza sfrenata? Questo il documento di Confindustria non lo dice, anche se parla di un aumento degli investimenti del 44% in un quinquennio. Ma per stare al passo con la concorrenza mondiale, e data la stagnazione trentennale degli investimenti delle aziende italiane, la percentuale dovrebbe essere notevolmente più alta. C’è da dire in ogni caso che Viale dell’Astronomia affida il ruolo di investitore al soggetto pubblico, specie quando afferma che la ricerca universitaria dovrà avere una ricaduta sul settore manifatturiero. Come a dire: siamo incapaci di fare ricerca, fatela voi e dateci i risultati.

Se cosi è, e visto che gli investimenti li dovrebbe fare lo Stato, è azzardato dire: vabbé, date le condizioni, ritorniamo al ruolo pubblico nell’economia?

Di questo, in ultima analisi, si tratta: a questo punto le forze antagoniste sono legittimate a rivendicare un ritorno dello Stato nell’economia. Sarebbe la naturale conseguenza di quanto afferma Confindustria. O no?

DOPPIO SCANDALO SOTTO IL MONTE di Andrea Baranes, Il Manifesto

Quello che sta emergendo dalla vicenda Monte dei Paschi è un intreccio di interessi tra finanza, politica e mondo degli affari, operazioni speculative sempre più azzardate e incomprensibili, bonifici miliardari, e altro ancora. Ma c'è di più, molto di più.
Solo poche settimane fa una delle più grandi banche del mondo ha patteggiato con la giustizia statunitense per uscire da un'accusa di riciclaggio del denaro dei narcos messicani. Una mezza dozzina di gruppi bancari è coinvolta nelle indagini per la manipolazione del Libor, un tasso di interesse su cui si basano migliaia di miliardi di euro di mutui e titoli finanziari. Le stesse tecniche e gli stessi strumenti utilizzati dal Monte Paschi per abbellire i bilanci e mascherare le perdite sono quelli che hanno portato alla condanna di quattro banche per la vendita di un derivato al comune di Milano. Sono decine, se non centinaia, gli enti locali che hanno sottoscritto derivati negli scorsi anni, con perdite che potrebbero ammontare a decine di miliardi di euro.
E questi sono alcuni casi tra gli innumerevoli emersi solo negli ultimi mesi. Viene da domandarsi quale settore merceologico è con tanta frequenza e regolarità al centro di scandali, truffe e crimini come quello bancario e finanziario.
In questa vicenda occorre tenere separati due piani. Da un lato il comportamento del Monte Paschi e dei suoi dirigenti, l'ingerenza della politica, il ruolo della fondazione. Situazioni di estrema gravità, sulle quali occorrerà fare piena chiarezza. Il problema è che, complice la campagna elettorale, il dibattito di questi giorni non va oltre. Ed è un peccato, perché poteva e doveva essere l'occasione per rilanciare la questione della necessità di regole e controlli per l'intero sistema bancario e finanziario.
Nella sua relazione di ieri in commissione parlamentare, il ministro dell'economia Grilli ha dichiarato che è «indispensabile non insinuare dubbi sulla solidità del sistema bancario italiano». Ha ribadito che i controlli ci sono e la vigilanza funziona. Saremmo lieti se fosse così, ma più di qualche dubbio rimane.
Recentemente le istituzioni europee hanno intrapreso una serie di stress test sugli istituti di maggiore dimensione, per verificarne la solidità e la capacità di superare eventuali nuove crisi. Su 91 banche sottoposte ai test, unicamente 8 non hanno superato la prova. Tutto bene, quindi. Effettivamente il sistema bancario europeo è solido. Peccato si tratti di apparenza, peccato che ai primi posti, tra le banche più solide d'Europa e sia risultata la Dexia, la stessa che, dopo l'esito degli stress test, è stata salvata tre volte e da due diversi governi, Francia e Belgio.
Qual è il problema, allora? Il problema è che le banche devono pubblicare un bilancio, ma se hanno delle perdite possono nasconderle sotto il tappeto grazie ai derivati, come nel caso Monte Paschi. Che nel bilancio devono riportare i loro attivi e limitare l'erogazione di crediti rischiosi in base alle regole internazionali dell'accordo di Basilea. Ma grazie alle cartolarizzazioni questi limiti possono essere elusi, e gli attivi portati fuori bilancio, spostandoli in un qualche paradiso fiscale. Viene da chiedersi a cosa serve pubblicare un bilancio, se tanto gli attivi quanto le perdite, solo per fare un paio di esempi macroscopici, possono essere "interpretati" per mostrare numeri scintillanti. Rimandando i problemi, spesso ingigantendoli con operazioni spregiudicate per salvare la faccia nel breve.
Occorre chiudere questo gigantesco casinò. Introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie che sia davvero efficace nel frenare la speculazione, chiudere i paradisi fiscali, limitare o bloccare i derivati più rischiosi e gli altri titoli tossici, separare le banche commerciali da quelle di investimento e via discorrendo. Sono in massima parte le proposte contenute nell'appello "Cambiamo la finanza per cambiare l'Italia" che Banca Etica ha lanciato nei giorni scorsi per chiedere al prossimo governo di riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell'economia e della società, non un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile. Per chiarire che c'è una parte del sistema bancario che lavora erogando credito all'economia reale, con la massima trasparenza, valutando le ricadute sociali e ambientali di ogni prestito effettuato. Per ricordare che tutti noi risparmiatori, quando depositiamo i nostri soldi in banca piuttosto che in un'altra, stiamo facendo una scelta. Dobbiamo scegliere se vogliamo una finanza che sia parte della soluzione o che continui ad essere uno, se non il principale, problema.

Caro Ingroia, non ti curar di loro, ma "guarda e passa". I veleni del Pd contro Rivoluzione civile

E' una vera campagna diffamatoria quella scatenata contro Ingroia e la lista Rivoluzione civile dai supporter, mediatici e non, del Partito democratico, con in pole position Repubblica e la terza rete della Rai tv.
Prima la vicenda della candidatura di Andolina, shakerata come un cocktail dalla televisione amica dei Democrat, per trasformare un caso di proporzioni e merito limitati nella dimostrazione incontrovertibile che tutti, nessuno escluso, hanno i propri scheletri nell'armadio. Ora l'invettiva di Ilda Bocassini, che si è inventata di sana pianta una surreale polemica contro l'ex pm di palermo colpevole, ohibò, di aver osato paragonarsi a Giovanni Falcone. E questo per aver egli detto di essere stato, come Falcone, "oggetto di critiche (eufemismo, ndr) dai colleghi magistrati" e di avere riconosciuto in Paolo Borsellino il proprio maestro.
Nelle parole di Ingroia, in realtà,  non è possibile rintracciare alcuna enfasi autocelebrativa, nè il tentativo di lucrare rendite politiche issandosi sulle spalle di Falcone e mettendosi - come chiosa velenosamente il foglio di Ezio Mauro - "sullo stesso solco di un martire".
Chi invece si ingaggia in una gratuita, sgradevolissima impresa di denigrazione (Ingroia?, "piccola figura di magistrato" (...) la cui distanza da Falcone è "misurabile in milioni di anni luce") è la Bocassini, che interpretando i "sentimenti" di una larga fetta della magistratura, si erige in realtà a censore morale della scelta di Ingroia di impegnarsi in politica. E, guarda caso, proprio nelle liste di Rivoluzione civile. Si guarda bene, l'Ilda nazionale, dal pestare i piedi a Pietro Grasso, ben più corazzato competitor, che dei meriti conseguiti in qualità di magistrato si è fatto più e più volte vanto. Ma, si sa, Grasso è candidato nelle liste del Pd...
A suffragare il carattere "politico" dell'attacco è poi sopraggiunta - in un battibaleno - la dichiarazione del Presidente di Corte d'appello di Roma, Giorgio Santacroce, che così ha tuonato: "Non mi piacciono i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo". A "redimere" il mondo - ammesso che il mondo debba essere redento e non, piuttosto, cambiato - devono infatti restare altri, i soliti noti, che non hanno dato proprio grande prova di sè.
Che il ferro va battuto finchè è caldo l'hanno capito bene i media amici di Bersani e soci, i più preoccupati per l'entrata in scena di Rivoluzione civile e impegnati come non mai a spacciare la merce avariata del "voto utile".
Repubblica, però, va oltre e ci fa capire molte cose, non soltanto offrendo alla polemica una spettacolre rilevanza, come si usa fare per le notizie davvero importanti. Repubblica (nell'edizione di oggi, per la penna di Piero Calaprico) mostra fino in fondo il nervo scoperto di amici e compari e affonda il colpo decisivo: "Mentre le inchieste su quello che combina Cosa nostra oggi a Palermo e in Italia sembrano languire - scrive Calaprico - l'ex procuratore aggiunto palermitano si è dedicato soprattutto a riesaminare il "passato": come la trattativa, circa vent'anni fa, tra Stato e mafia, che tante critiche ha suscitato per i titoli di reato ipotizzati, per le telefonate registrate tra il Quirinale e l'ex ministro Pietro Mancino, per l'utilizzo dei documenti falsificati da Ciancimino".
Capito dove batte la lingua?
Avanti, dunque, caro Ingroia, non ti curar di loro, "ma guarda e passa".
 
Dino Greco, Liberazione.it
 

La lista Ingroia dà fastidio. E si vede

di Franco Frediani, Liberazione.it
 
Un uomo che ha il coraggio, prima di presentare un’accurato dossier sul rapporto stato-mafia (che ha “incentivato” il suo allontanamento dalla Sicilia..) e poi di uscire dall’ambiente professionale in cui opera, per difendere la coerenza e la “bontà” del suo lavoro, non può mai essere apostrofato come “una piccola figura”. Ad usare questi termini è stato il procuratore aggiunto di Milano Ilda Bocassini. Lo ha fatto all’indirizzo di Antonio Ingroia, reo, a suo dire, di essersi paragonato a Giovanni Falcone. Non entriamo nel merito delle qualità morali e professionali della giudice milanese, nessuna voglia di metterla in discussione, ma vorremo capire meglio il senso di queste strane esternazioni. Anche un bambino capirebbe il significato delle parole pronunciate dal leader di Rivoluzione civile. Su Antonio Ingroia non si può pensar male né nutrire alcun dubbio. Si è battuto e si batte contro un mostro che ha dimostrato di avere mille tentacoli, ma soprattutto evidenziando collegamenti sui quali è d’obbligo fare chiarezza ed ai quali non si può dare alcuna giustificazione, neppure scomodando la lesa maestà! Ha conosciuto la trincea della Magistratura siciliana e si è addentrato in un lavoro che pochi avrebbero portato avanti con tanta determinazione. Chiamare le cose con il proprio nome, così come ha fatto il leader di Rivoluzione civile è sempre sinonimo di chiarezza e trasparenza. Le parole di Ingroia sono state immortalate in un video e non possono essere cambiate o male interpretate! Alle domande del cronista che gli chiedeva cosa pensava delle critiche ricevute da molti suoi colleghi della Magistratura, l’ex PM, che ha indagato sul rapporto “stato-mafia”, ha semplicemente risposto con una naturalezza disarmante: “Noto che altri colleghi altrettanto in vista, come Piero Grasso, non sono stati oggetto di critica pur svolgendo ruoli delicati a livello nazionale”. Non è forse vero? Cosa avrebbe dovuto dire la giudice Bocassini riguardo alle esternazioni fatte a suo tempo dallo stesso Grasso, allorché si spinse nel dichiarare che avrebbe dato un premio a Berlusconi riconoscendogli meriti per alcuni interventi legislativi fatti contro la mafia(?). Frasi che furono definite “sconcertanti” persino dal segretario generale di magistratura democratica, Piergiorgio Morosini. Le contraddizioni dell’ex procuratore nazionale si resero subito evidenti, visto che, lo stesso, ebbe modo di dire cose di ben altro tenore nel corso della trasmissione radiofonica “la Zanzara”, andata in onda su Radio 24 il 13 maggio del 2012: “Avevamo chiesto norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando”. Da notare che proprio Grasso è stato il primo ad attaccare Ingroia quando questi partecipò ad un congresso dei Comunisti Italiani. Oggi, come sappiamo, ha lasciato la Magistratura ed il giorno dopo si è felicemente accasato “in quel del PD”, con tanto di aspirazione ad ulteriori salti di qualità in caso di vittoria elettorale… Non si può dunque, che registrare sorpresa e incredulità nella stizzita reazione di Ilda Bocassini; una persona nota tra l’altro, per la parsimonia delle sue parole e delle valutazioni fatte fuori dal suo ruolo… Nell’intervista rilasciata al TG La7, Ingroia mette solo in evidenza la strana disparità di trattamento riservata a Grasso, e nella rimembranza delle critiche a suo tempo ricevute, ma anche dispensate da molti altri magistrati, cerca soltanto di offrire la sua “spiegazione”: “Io al contrario di altri ho detto sempre quello che pensavo ricevendo critiche… e anche criticando a mia volta la Magistratura e gli alti suoi vertici”. Ma sono proprio le frasi conclusive di questa intervista, quelle che hanno suscitato l’ira del procuratore aggiunto di Milano; laddove il candidato premier di Rivoluzione civile ricorda come in passato, “trattamenti analoghi”, erano stati riservati anche ad altri “piu’ importanti ed autorevoli Magistrati (piu’ importanti e autorevoli!) a cominciare dallo stesso Giovanni Falcone, al cui indirizzo, al momento in cui iniziò a collaborare con la politica, arrivarono le critiche più pesanti dalla stessa Magistratura”. Il dato accertato è che Antonio Ingroia rompe con una consuetudine fatta di reticenze e silenzi, di sospetti ai quali non hanno mai fatto seguito i fatti. Rivoluzione civile sta dando fastidio; insegue e propone un cambiamento e lo fa ad alta voce. I poteri forti non gradiscono, gli apparati dello stato, che finora si sono sempre chiusi a riccio, meno che mai.