venerdì 31 maggio 2013

Ciao Franca di Daniela Cortese, Contropiano.org

Oggi i funerali. "Vorrei donne, tante donne, tutte quelle che ho aiutato, che mi sono state vicino, amiche e anche nemiche…vestite di rosso che cantano Bella ciao”.

Per ricordare Franca Rame mi ritrovo a piangere e ridere insieme, non saprei chi riuscirebbe ad esprimersi solo in uno dei due modi, perché non puoi rimpiangerla senza pensare alle sue battute folgoranti che l’hanno resa unica in teatro, ma contemporaneamente non puoi ricacciare indietro le lacrime a pensarla come compagna, militante attiva e generosa, che ci mancherà irrimediabilmente!
Bella e bionda, brava e intelligente, attrice e autrice, moglie e madre, e soprattutto tutte queste cose insieme, come solo le donne sanno fare, e Franca le faceva bene tutte, incastrando e sovrapponendo questi ruoli, alternandoli dalla famiglia al teatro e viceversa.
Come tanti/e altri, poteva vivere di rendita, beatamente agiata al pari di tante stars di ns conoscenza, che poi mica che non ci sono attrici brave e non stupide, ma la passione politica ti prende allo stomaco e non te ne liberi più se ci credi veramente come ci credeva anche lei e tutto diventa diverso, vai per un’altra strada ma senti che è quella giusta. E per Franca la voglia di cambiare il mondo, di dare solidarietà a chi ne aveva bisogno, di praticarlo nella sua vita quotidiana era talmente importante che cambiò il suo modo di vivere il teatro, che conobbe e praticò da piccola essendo figlia di attori, infatti era solita ricordare “C’è un momento della mia infanzia che spesso mi ritorna in mente. Sento mio padre che parla con la mamma: E’ ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande. Avevo tre anni”.
Il suo teatro, anzi il suo e quello di Dario Fo, inscindibili sempre, divenne presto così un teatro militante, di strada, audace e colto, che improvvisava a tal punto che ogni sera non era uguale a quello della sera precedente; un teatro che mandava messaggi inequivocabili contro il potere, ma con uno sberleffo così irriverente ma così irriverente che se ne usciva appagati e, in qualche modo, risarciti. E che interagiva con il pubblico in modo sublime; ognuno di noi, di questa generazione preziosa e maledetta, ha avuto almeno una volta nella vita l’occasione di essere ricevuti, per quanto totali sconosciuti, da Franca e Dario nel loro camerino, perché c’era qualche compagno da difendere o qualche lotta da sostenere e ad entrambi bastava poco per convincersi e parlarne all’inizio o alla fine delle loro rappresentazioni. Addirittura una volta è successo anche a me!
Poi però c’è quel momento terribile e orribile, accade quella violenza sessuale che era una rappresaglia da parte dei fascisti in quel marzo 1973, per punirla delle sue denunce e della sua scelta di vita, che non dimenticheremo mai anche perché è diventata quel famoso pezzo di teatro intitolato proprio “Lo stupro”, che ogni volta fa vergognare anche gli uomini migliori solo per l’appartenenza al loro genere.
Meno di due mesi fa vedemmo nuovamente quel video nel corso di una affollata iniziativa in suo onore, che si svolse presso i locali del Consiglio Metropolitano di Roma; con la stessa indignazione sentimmo l’esigenza di parlarne ancora tra di noi, gli spettatori anche quella volta non riuscirono a restare muti, la violenza fascista contro le donne e contro Franca è insopportabile e lei lo recita con una dignità straziante! Penso con disprezzo a quella pseudo giornalista donna del TG2 che, nel ricordarla in un suo pessimo servizio poche ore dopo la sua morte, parla di quella violenza come di una conseguenza di chi “approfittava della propria bellezza fisica per imporre attenzione, finchè fu sequestrata e stuprata”. Giornalista vigliacca, serva dei servi!
Mi piace ricordare due episodi, dei tantissimi che la riguardano, particolarmente significativi per il suo coinvolgimento tra la vita artistica e quella politica, che parte da molto lontano e con una sensibilità che ancora oggi è assente in una classe politica emergente arraffona e opportunista: nella Canzonissima del 1962 vennero cacciati dalla RAI per avere parlato con uno sketch degli incidenti sul lavoro e nel 2007, da senatrice, scrisse una interrogazione (a cui non ricevette mai risposta) sui veleni dell’Ilva con i 1.200 decessi annui di Taranto per neoplasie e la diagnosi accertata che i bambini tarantini presentavano diffusamente la sindrome del “fumatore incallito”, per porre fine a questa tragedia.
In ultimo ricordiamola per avere sbattuto la porta al senato contro le spese militari, ma anche abile e indispensabile nel curare i copioni di Dario, che era sempre impaurito dal suo giudizio, ma era anche l’unico di cui si fidava; e poi diceva “Dario è un monumento ed io il suo basamento”, che impedirebbe a chiunque di relegarla in un ruolo minore subordinato perchè loro due camminavano affiancati.
Nella sua lettera d’amore a Dario, bellissima, del gennaio di quest’anno http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/30/lettera-damore-a-dario/483928/ tra le altre cose dice “
Penso anche al mio funerale e qui, sorrido. Donne, tante donne, tutte quelle che ho aiutato, che mi sono state vicino, amiche e anche nemiche…vestite di rosso che cantano Bella ciao”.
Io penso che abbia fatto bene a dare queste indicazioni perché noi donne, così superorganizzate da volerci immaginare anche i ns funerali, pensiamo chissà come ce li potrebbero organizzare altri di cui ci fidiamo meno che di noi stesse; e poi i funerali con i compagni che non ti lasciano sola e alzano i pugni al cielo, che belli che sono!
Sono sicura che oggi 31 maggio, al suo funerale che si svolgerà alle ore 11.00 presso il Teatro Strehler, con Dario e Jacopo, le sue nipoti e tutti/e quelli che la amano, le donne saranno senz’altro tante, unite idealmente a tutte quelle come me, che restando nella propria città non potranno essere fisicamente a Milano lì con lei.
Bella ciao, Franca.

Slots e gioco d'azzardo: tra legalità e mafia introiti milionari


di Armando Allegretti, Umbrialeft.it
PERUGIA - Sono oltre due milioni di persone ad essere affetti dalla cosiddetta ludopatia, quel desiderio irrefrenabile di giocare a slots, videopoker o ad altre macchinette mangia soldi. Spesso è difficile distinguere la ludopoatia dall’alcolismo o dalla tossicodipendenza, proprio perché si fatica a leggerne i sintomi in chi ne è affetto.
Il ludopatico, o giocatore patologico, da manuale è colui che “ha bisogno di giocare sempre più spesso e con una quantità sempre maggiore di denaro; cerca di smettere, ma non ci riesce, perché il gioco lo aiuta a sfuggire ai problemi”. E ancora, il ludopatico è quella persona che mente ai familiari, alle persone vicine, compromette il proprio lavoro, le relazioni sentimentali e infrange la legge per trovare denaro: ed ecco che si ruba in casa, ci si gioca gli affitti, interi stipendi e pensioni.
È una condizione estrema, quella del ludopatico, più diffusa di quanto si possa immaginare. Il dossier Azzardopoli 2.0, presentato da Libera, cita una ricerca del Centro Sociale Papa Giovanni XXIII, coordinata dal Conagga (Coordinamento nazionale gruppi per giocatori d’azzardo), che stima che i giocatori a rischio siano il 5,1% del totale e quelli compulsivi il 2,1%: nel nostro Paese si tratta di 1 milione e 720 mila adulti a rischio e 708 mila patologici. Senza contare i minorenni.
Ed ecco che in Italia si spendono circa 1450 euro pro capite per tentare la sorte, per cercare di aggiudicarsi l’ultimo jackpot che potrebbe cambiare la vita. Si stimano oltre 800mila persone dipendenti da gioco d’azzardo e quasi due milioni a rischio. Con un fatturato legale di 79.9 miliardi di euro nel 2011 al quale vanno aggiunti gli 11 miliardi di quello illegale. Un fatturato destinato inesorabilmente a salire, considerando l’incremento del 10% nel 2012, con 88 miliardi di fatturato legale e 15 miliardi illegali.
L’Italia occupa il primo posto in Europa e il terzo posto tra i paesi che giocano di più al mondo. Ma dalle proiezioni dei primi dieci mesi del 2012 l’Italia potrebbe andare in cima alle classifiche, con il contributo del comparto illegale. Un trend in constante crescita. Facciamo un esempio: nel mondo del “Gratta e vinci” un tagliando su cinque di quelli venduti al mondo è italiano. Ma non è tutto. Sono 400mila le slot machine presenti in Italia, una ogni 150 abitanti. Ovunque ti trovi basta guardare in alto verso un’insegna ed ecco comparire sale slots, e videopoker.
Rien va plus. Benvenuti in Azzardopoli, questa è l’Italia, il paese del gioco d’azzardo. Il paese dove il gioco non risente della crisi ed ha un bilancio sempre attivo. Il paese dove al tavolo verde si siedono anche le mafie. E fanno saltare il banco.
Dal Piemonte alla Lombardia, dalla via Emilia attraversando la Capitale fino alla Campania per arrivare in Calabria e Sicilia. Senza dimenticare la Puglia. I soliti noti: dai Casalesi di Bidognetti ai Mallardo, dai Santapaola ai Condello, dai Mancuso ai Cava, dai Lo Piccolo agli Schiavone. Così i clan fanno il loro gioco. Le loro puntate e vincono sempre. Sono 41 i clan che gestiscono il gioco d’azzardo.
Le informazioni, in un dossier presentato da Libera, non lasciano molto spazio all’immaginazione. Le irregolarità sono tante e il “nero” è in costante aumento. Nel 2010, ad esempio, in tutta Italia,  sono state 6.295 le violazioni riscontrate dalla Guardia di Finanza che ha denunciato oltre 8mila. E ancora, sono stati sequestrati 3.746 videogiochi irregolari, alla media di 312 al mese e 1.918 i punti di raccolta di scommesse non autorizzate o clandestine scoperti (più 165% rispetto al 2009).
Ma non solo gioco d’azzardo illegale. La situazione nelle regioni italiane, invece, per quanto riguarda la legalità è la seguente: il primato, per l’anno 2011, spetta alla Lombardia con 2miliardi e 586 mila di euro, seguita dalla Campania con un miliardo e 795 mila euro. All'ultimo gradino del podio il Lazio con un miliardo e 612 mila euro. Questi sono tutti soldi che si muovono grazie alle 400mila slots “piazzate” in tutto il paese. Per quanto riguarda invece le spese per il gioco d’azzardo si registra un aumento (nell’arco di 12 mesi), in regioni come il Molise e la Valle d’Aosta, rispettivamente con un incremento del 47,37% e del 48%. Solo quattro regioni hanno fatto registrare l’indice negativo. Il Trentino Alto Adige (-0,54), la Puglia (-2,95), la Sardegna (-20,04) e l’Umbria (-24,07).
L’Umbria non sembra essere in pericolo, non sembra essere toccata dall’illegalità e dalla compulsione al gioco. L’unico campanello d’allarme è dato dall’aumento dei “baby scommettitori”. Infatti dal rapporto presentato emerge che “la diffusione del gioco d’azzardo nei ragazzi è cresciuta al ritmo del 13% l’anno. Dal 2008 al 2009 la percentuale di studenti tra i 15 e i 19 anni che ha giocato in denaro almeno una volta in un anno è aumentata dal 40% al 47%. L’aumento maggiore è stato fra le ragazze, passate dal 29% al 36%, mentre i maschi sono saliti dal 53% al 57%. In testa alla classifica per regioni al primo posto c’è la Campania con il 57,8% di studenti “giocatori”, cui segue Basilicata (57,6%), Puglia (57%), e, a seguire, Sicilia, Lazio, Abruzzo, Molise, Sardegna, Calabria e Umbria, tutte oltre il 50%. Agli ultimi posti ci sono Trentino (35,8%), Friuli Venezia Giulia e Veneto (36,3%). I posti preferiti per giocare sono bar e tabaccherie (32%), case private (20%) e sale scommesse (12%)”.
Il quadro che emerge dal dossier presentato da Libera “sollecita una risposta adeguata da parte di tutti, a cominciare dalle istituzioni” – si legge in calce allo studio. E una risposta c’è stata. A partire dalla maggioranza, in Comune a Perugia, che mercoledì ha presentato un ordine del giorno dai toni forti ma chiaro per quello che riguarda gli obiettivi. Via le slots, da Perugia, subito.
“I maggiori consumatori delle varie forme di gioco d’azzardo di facile guadagno  - scrivono i capigruppo Emiliano Pampanelli (Prc), Francesco Mearini (Pd), Stelvio Zecca (Idv), Pier Luigi Neri (Comunisti italiani), Mario Catrana (Sinistra e Socialisti) e Filippo Cardone (Gruppo misto – Centro democratico) - appartengono quasi sempre alle classi più disagiate e sotto acculturate, che tentati dal vincere facile diventano vittime di una vera e propria patologia e quasi sempre, per dare una svolta alla propria situazione, non fanno altro che rovinare la propria famiglia arrivando al baratro”.
Quello che chiede la maggioranza è un’ordinanza sanitaria, a firma del primo cittadino di Perugia, che vieti l’istallazione delle slots su tutto il territorio comunale. Per combattere la patologia del gioco, la cosiddetta ludopatia che “spilla” migliaia di euro dalle tasche dei cittadini. “Ogni italiano spende in media oltre 1.000 euro l’anno per il gioco d’azzardo – si legge ancora nell’odg presentato - , un dato tra i più alti al mondo, arrivando in molti casi ad una dipendenza patologica che porta ad effetti drammatici sul piano economico, sociale e familiare”.
Ritornando all’Umbria, e concludendo l’analisi, secondo quanto appreso solo nella nostra regione sono istallate (legalmente) 5.220 macchine, queste producono giornalmente una cosa come 257 euro ognuna. Facendo due semplici conti e con prospetto alla mano dalle ultime rilevazioni in 6 mesi sono stati inseriti nelle slots 242.818.740 di euro in monete e banconote. Di questi 30.595.161 sono andati allo stato (nel caso di slots legali) e il 75% è stato “restituito” in modo del tutto casuale ai giocatori. Numeri che fanno riflettere.

Femminicidio: microfisica di un problema sistemico



Al delitto della giovane Fabiana di Corgliano Calabro è seguita la solita retorica del lutto inatteso e imprevedibile. Nulla di più sbagliato: quel delitto (insieme a tanti altri simili ad esso) è frutto di un clima culturale retrivo e opprimente, che costringe la donna a una sottomissione permanente alla famiglia, alle aspettative del collettivo, e infine al maschio.

di Barbara Befani e Fabio Sabatini, Micromega

È insopportabile la retorica che vuole “sotto shock” il villaggio, stavolta Corigliano Calabro, in cui si è consumato l’ennesimo femminicidio. È insopportabile la retorica che attribuisce un lutto inatteso e imprevedibile a una famiglia ignara e innocente.

È insopportabile perché ad essere responsabile di questo femminicidio, di tutti quelli avvenuti e di quelli che verranno, è la cultura medievale e sessista condivisa e coltivata nella famiglia, nel villaggio e nel resto del paese. È difficile credere che si senta davvero “sotto shock” un paese in cui tutti sapevano che l’assassino era un violento che girava con il coltello in tasca, che già era stato denunciato per aver spaccato il naso alla vittima, prendendola a pugni, per gelosia (denuncia subito ritirata). Una madre che, appena vede uscire l’assassino dall’ospedale, gli domanda soltanto, secondo il racconto di Niccolò Zancan su La Stampa: “Dove me l’hai buttata?”. Parole che, di per sé, fanno pensare alla vittima come a un oggetto di cui disfarsi o, nell’ipotesi migliore, a un oggetto da consegnare al primo uomo che se la fosse presa in carico. E un padre che si limita ad affermare la sua “mancanza di approvazione” per un uomo che spacca il naso di sua figlia, mostrando apertamente di volerla possedere come un oggetto.

Un villaggio, quello che si presume sotto shock, nel cui bar sport, severo e insindacabile tribunale degli eventi cittadini, circolano commenti dai toni assolutori, che ricordano i problemi che il carnefice, poverino, deve aver avuto per colpa della madre che metteva le corna al padre con un direttore del Comune. Insomma la colpa è sempre di un’altra donna.

Chissà quante volte la famiglia, quel paese, quella cultura, devono aver mandato a Fabiana certi messaggi che la spingevano a sopportare la situazione, a mettere il suo benessere e la sua felicità dopo quella dell’uomo. A farle confondere, prima di dire basta, “amore maschile” con “volontà di controllo” e “amore femminile” con “cedimento alla volontà di controllo”.

Messaggi che sono continuati a pervenire subito dopo il femminicidio, con l’arcivescovo (considerato la massima autorità locale, chiamata a consolare la famiglia della vittima e dare pubblicamente una ragione dell’accaduto al posto di una istituzione dello Stato), che dichiara: “Preghiamo per colui che ha commesso il terribile omicidio, perché prendendo consapevolezza della gravità di quanto ha compiuto non sia sopraffatto da irrimediabili sensi di colpa ma si incontri col Dio della verità e della misericordia, che a tutti offre una strada possibile di giustizia, perdono, conversione, cambiamento di vita”.

Quell’arcivescovo che si preoccupa solo di lui, il carnefice, affinché sia perdonato e non sia sopraffatto dai sensi di colpa. Direbbe mai un arcivescovo che una donna non deve essere sopraffatta dai sensi di colpa? Quell’Arcivescovo che per rimediare alla vicenda sottolinea il bisogno di “puntare su un umanesimo che vede l’uomo per quello che è, bisogna ripartire dall’uomo e metterlo al centro”. No, caro Arcivescovo, questa vicenda ci insegna che l’uomo è già al centro, semmai è la donna che dovrebbe essere messa al centro. Ma per l’Arcivescovo, così come per il resto dell’umanità che continua a usare la parola “uomo” per riferirsi alla generica umanità, le donne non sono persone.

Fabiana è morta come un cane. È stata bruciata viva a 15 anni perché non voleva appartenere a un uomo, a colui che si era messo in testa di esserne il proprietario, con la collaborazione delle famiglie, del paese, della società, del sistema.

Eppure, nelle dichiarazioni del vescovo e nei giornali, nessuna condanna di questo sistema, del clima culturale retrivo e opprimente che costringe la donna a una sottomissione permanente alla famiglia, alle aspettative del collettivo, e infine al maschio, descritto bene da Domenico Naso sul Fatto Quotidiano. “La trattava come un oggetto”, hanno riferito i compagni di scuola della vittima ai giornalisti. Ma nessuno ha sentito il bisogno di denunciare l’oggettificazione del corpo femminile che perpetua la pretesa, il diritto, da parte del maschio, di trattare la propria compagna come un oggetto di sua proprietà.

Ecco, un oggetto. Barbara Befani ha scritto su MicroMega, commentando la proposta di Laura Boldrini di limitare l’uso del corpo femminile nella pubblicità, “Il fatto che il prodotto venga sessualizzato con un corpo significa oggettificare il corpo, non valorizzare le caratteristiche del prodotto … Il femminicidio è innanzitutto un fatto culturale e va attaccato da tante direzioni, compreso quello dell’oggettificazione dei corpi nelle pubblicità: la nostra formazione ci insegna a vedere le donne come oggetti e gli uomini come persone. Storicamente le donne sono state oggetti con precise funzioni nei confronti degli uomini: cura personale, servizi domestici, servizi sessuali, concepimento e crescita dei figli. Il femminicidio, come dice la parola stessa, è innanzitutto un problema di genere. La donna viene ammazzata in quanto donna: perché l’uomo ha delle aspettative precise sul ruolo della donna che la donna disattende. L’uomo si sente autorizzato a perpetrare violenza perché pensa che la donna non stia rispettando una serie di doveri che lui si aspetta da lei.”

E la cultura dominante, almeno nel paese, tale percezione dell’uomo la incoraggia, fino al punto di “perdonare” il femminicidio già pochi istanti dopo che si è compiuto. Quanti assassinii feroci sono stati derubricati alla voce “delitto passionale”, che suggerisce il concorso di colpa della vittima stessa, che promuove la violenza più efferata a sintomo di “passione”, un corollario dell’amore in fondo?

Una cultura locale ben raccontata in una lettera inviata al Corriere della Sera da Francesca Chaouqui, trentenne nata in Calabria a poca distanza dal luogo dell’omicidio: “Dalle nostre parti si fa voto a San Francesco di Paola per avere un maschio … Il rapporto fra uomo e donna in Calabria si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai, molti crescono vedendo padri e nonni dare qualche sganassone alle compagne, vedono loro reagire senza reagire, accettare quei comportamenti come connaturati agli uomini per retaggio culturale e sovrastruttura sociale. Si incassa, si va avanti, ca non è c’ama fa ridi i genti, non dobbiamo far sogghignare la gente, un’espressione tipica per dire che i panni sporchi si lavano in famiglia. I ragazzi guardano, imparano che la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie, diventa spesso parte di loro”.

Rincara la dose Domenico Naso nell’articolo sopracitato, raccontando di aver visto “ragazzine costrette a ritirarsi da scuola nonostante voti ottimi e menti brillanti, semplicemente perché la “famiglia” aveva scelto per lei. C’era già un fidanzato pronto per lei. O, quando andava bene, semplicemente serviva una mano in più in casa, perché il papà e i fratelli che tornavano stanchi da lavoro volevano il piatto caldo o le camicie stirate”.

Un problema che – nonostante sia diffuso in Calabria – non riguarda però solo la Calabria, così come la mafia, diffusa in Sicilia, non è un problema solo siciliano. Il maschilismo è una bestia sistemica, multilivello, multidimensionale; viene interiorizzato, trasmesso e perpetrato anche dalle donne stesse e riguarda non solo l’Italia ma tutto il mondo, e ha radici storiche profondissime.

La differenza tra l’Italia e i paesi in cui questo problema è tenuto sotto controllo è che negli altri paesi è riconosciuto, se ne parla, viene chiamato col suo nome, viene denunciato. E le parole non vengono solo pronunciate, vengono anche scritte, e vengono anche scritte su documenti legali. Diventano leggi che diventano anni di prigione per chi si permette di comportarsi in un certo modo. E diventano consapevolezza, deterrenti, sanzioni, attenzione; e da parte delle donne orgoglio ed emancipazione. C’è ancora tanta strada da fare, a Corigliano e nel resto del mondo, e per questo bisogna lottare affinché il sistema si trasformi e faccia sì che di fronte a queste situazioni le donne si sentano presto in pericolo, che scappino finché sono in tempo, e che possano scegliere di rispettare se stesse come persone invece che come mezzi che la persona-uomo usa per potersi sviluppare come persona, comodamente e senza faticare troppo.

Lavorare meno, lavorare tutti di Tonino Perna, Il Manifesto




Con una riduzione dell’orario di 4 ore a settimana in Italia si potrebbero creare 1 milione di posti 
 
La disoccupazione giovanile che colpisce l’Italia e altri paesi europei in una forma estremamente acuta è vissuta come una calamità naturale, un’emergenza, come se si trattasse di un incidente di percorso, di un evento imprevedibile nella storia del capitalismo nei paesi industrializzati. Il fatto che la disoccupazione in generale, e quella giovanile in particolare, siano un dato strutturale nei paesi a capitalismo maturo non è nemmeno preso in considerazione nell’odierno dibattito politico.
Keynes pensava che, nel breve periodo, si potesse contrastare la disoccupazione con un incremento della spesa pubblica in deficit, ma nel lungo periodo dovevamo inevitabilmente fare i conti con la disoccupazione tecnologica (Prospettive economiche per i nostri nipoti,1930)
In sostanza, Keynes aveva molto chiaro il fatto che l’inarrestabile progresso tecnologico avrebbe comportato una disoccupazione crescente, all’interno delle società a capitalismo maturo, ed avrebbe richiesto provvedimenti strutturali per farvi fronte. L’unica terapia efficacia in grado di contrastare la crescente disoccupazione era , secondo il grande economista di Cambridge, la netta riduzione dell’orario di lavoro (ibidem).
Anche il movimento operaio europeo si è battuto in passato per la riduzione dell’orario di lavoro. Nel 1848 le Trade Unions ottennero in Inghilterra le «10 ore di lavoro» come tetto massimo, in un tempo in cui gli operai lavoravano anche 14-15 ore al giorno. Tra le due guerre mondiali, in quasi tutti i paesi europei il movimento dei lavoratori ottenne le famose «8 ore di lavoro» , come limite massimo della durata del lavoro giornaliero. Bisogna aspettare la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso perché la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro riprendesse quota. Con scarsi risultati. Solo in Francia, durante il governo Jospin nel 1998 fu varata una legge per la riduzione da 40 a 35 ore del lavoro settimanale. Suscitò grandi polemiche e una guerra mediatica della Confindustria francese, con il risultato di un rientro di fatto, o tramite gli straordinari, alle 40 ore settimanali. In Germania c’è stato un accordo per le 36 ore settimanali, o la «settimana breve», in qualche grande industria automobilistica, che è rimasto come un fatto separato dal resto dell’apparato produttivo. In breve, dopo quasi un secolo, l’orario di lavoro è rimasto pressoché invariato nei paesi industrializzati, malgrado gli enormi aumenti di produttività che, come aveva previsto Keynes, hanno ridotto drasticamente l’energia umana impiegata per unità di prodotto.
Gli straordinari aumenti di produttività per addetto sono andati in gran parte ai profitti ed alle rendite, dato che la quota dei salari sul Pil è scesa drasticamente in tutti i paesi occidentali negli ultimi venti anni. Per mantenere elevata la domanda, e quindi la crescita economica, si è ricorsi ad un iperbolico processo di indebitamento – di famiglie, imprese e Stati – che ci ha portato al collasso che stiamo vivendo dal 2008.
È ormai evidente che nessun paese possa, da solo, trovare una terapia efficace per contrastare la disoccupazione strutturale. Ma, nell’area della Unione Europea, se ci fosse la volontà politica, si potrebbe concertare una riduzione significativa dell’orario di lavoro, almeno nei settori meno esposti alla concorrenza internazionale (ad esempio, l’edilizia, il pubblico impiego,ecc.). Ma, si potrebbe anche pensare ad una defiscalizzazione proporzionale alla riduzione dell’orario di lavoro nelle imprese che decidessero di percorrere questa strada. Per esempio, con un diminuzione di quattro ore di lavoro settimanale, a parità di salario, si potrebbe creare solo in Italia oltre un milione di posti di lavoro, tra pubblico e privato. Ed invece, neanche se ne parla. Anzi, le imprese insistono per la defiscalizzazione degli straordinari, i precari ed i lavoratori sottopagati sono costretti a fare anche un secondo o terzo lavoro in nero, il governo Monti ha tentato di allungare le ore di lavoro nella scuola, l’età per andare in pensione è stata spinta verso l’alto, con la conseguenza di una disoccupazione che cresce a dismisura e di 2,2 milioni di giovani che non studiano né lavorano.
Gli economisti neokeynesiani – da Stiglitz a Krugman- insistono per una ripresa della spesa pubblica per contrastare la recessione e le politiche di austerity, ignorando il fatto che Keynes vedeva il deficit spending come una misura congiunturale, di breve periodo, per contrastare la disoccupazione e fare ripartire la domanda aggregata,in una fase storica in cui il debito pubblico era ancora una frazione del Pil.
La riduzione dell’orario di lavoro è non solo una necessità per contrastare la disoccupazione crescente, ma anche una scelta di civiltà: a che cosa è servito lo strepitoso progresso tecnologico, la telematica, la robotica, la meccanizzazione di tante operazioni una volta svolte dalla mente e dalle braccia degli esseri umani?
Che senso ha una società che dopo aver moltiplicato per cinque volte la sua ricchezza materiale, dopo la seconda guerra mondiale, non riesce a distribuire decentemente il lavoro e la ricchezza prodotta, costringendo alcuni a morire di lavoro ed altri a suicidarsi per la mancanza di lavoro?

L'Unione Europea verso la divisione?, Contropiano.org

Sempre più complicato tenere insieme interessi divergenti e reciprocamente dannosi, dentro la moneta unica. E la Germania lavora al "piano B", a spesa di tutti gli altri.

Non vorremmo apparire né sognatori, né catastrofisti. Ma è difficile, in una fase come questa.
Proponiamo qui sotto un articolo dal Sole 24 Ore di oggi che illumina i sottobanco delle relazioni continentali, mentre dai giornali del centrosinistra e dal governo arriva solo melassa indigeribile sul "destino europeo", l'integrazione, ecc.
In pratica, la Germania sta dimostrando con i fatti di comportarsi come una potenza a sé, a dispetto di qualsiasi "spirito unitario", e soprattutto a danno dei partner europei. Può farlo perché la sua potenza - industriale, tecnologica, di conoscenza - è stata incrementata dall'euro; mentre la stessa moneta, e gli obblighi derivanti da una costruzione istituzionale pensate per "i mercati" contro le popolazioni, impoveriva progressivamente quasi tutti gli altri (ad esclusione di Finlandia, Olanda e i contoterzisti pro-tedeschi dell'Est europeo).
A questo punto, tra difficoltà crescenti (lo scontro con la Francia sta crescendo di gradazione, man mano che Hollande si ritrova a fare i conti con la recessione), la Germania mette mano al "piano B". Sono solo indicative le fughe in avanti tipo Alternative fur Deutschland, nuovo partito che propone il ritorno al marco. Indicative di una via d'uscita per la Germania prima che la recessione indotta negli altri paesi ritorni come un boomerang su Berlino (è diretto nella Ue il 60% delle sue esportazioni; ma se i clienti vanno in crisi, e ci sono già andati, gli ordini inevitabilmente crollano). Una via come sempre molto "mercantilista", giocata sui differenziali di ricchezza oltre che di produttività e che permette di "fare shopping" di qualsiasi risorsa continentale a beneficio della Germania.
Il tema della rottura è dunque all'ordine del giorno. Riusciamo a farci i conti senza buttarla in ideologia?

Se la Germania fa shopping di Stati e cervelli

di Adriana Cerretelli
Un altro vertice franco-tedesco ieri a Parigi, un altro faccia a faccia Hollande-Merkel, l'ennesimo tentativo di salvare la faccia di un'intesa bilaterale dal passato glorioso ma oggi in fase di dissolvenza acuta.

Come se non fossero stati sufficienti i conclamati dilemmi ideologici tra stabilità e crescita, i diverbi sul "malo-rigore" che sforna, prove alla mano, recessione, disoccupati e più debiti invece di ridurli, i ripetuti scontri sull'unione bancaria europea che non decolla, alla vigilia dell'incontro con il cancelliere il presidente francese ha attaccato, forte e chiaro, il super-patto di stabilità in vigore da pochi mesi, il coordinamento delle politiche macroeconomiche.
«Bruxelles non può dirci che cosa dobbiamo fare se non sul riequilibrio dei conti pubblici. Sulle riforme strutturali, in particolare sulle pensioni, spetta solo a noi decidere» ha affermato François Hollande. Con un esplicito atto di insubordinazione di fronte a specifiche raccomandazioni Ue scaturite dalle nuove regole di governance dell'eurozona. Immediato l'allarme a Berlino: «È preoccupante che un grande Paese come la Francia sostenga di poter fare quel che vuole senza rispettare gli impegni presi». Di mezzo, ovviamente, la futura tenuta dell'euro, la diffidenza che sale. Non a caso ieri, fatto del tutto inusuale, la Merkel ha pubblicamente richiamato Hollande all'ordine delle riforme.

Nemmeno il cancelliere tedesco però brilla per spirito di famiglia. Non più tardi di domenica scorsa ha ritenuto normale, nell'incontro con il premier Li Kequiang, anteporre gli interessi tedeschi e cinesi a quelli del grosso dei partner europei, dicendo no a dazi Ue antidumping sui pannelli solari, uno dei 18 contenziosi commerciali aperti con Pechino, nonostante la proposta avanzata da Bruxelles.
Fossero solo normali scaramucce in un ménage affaticato, poco male. Dietro la pesante incomunicabilità e l'insofferenza diffusa verso regole e spirito Ue, c'è invece la crescente divaricazione di interessi non solo tra Parigi e Berlino ma anche tra Nord e Sud Europa. C'è, forse soprattutto, una Germania che è ormai l'unico Paese del club ad avere progetti chiari e una strategia compiuta per fare i conti con Europa e globalizzazione dello sviluppo.
Di fronte Berlino però trova interlocutori gracili di visione e di idee prima ancora che fragili in economia. Oggi un'alleanza tra Francia e Italia avrebbe una valenza forte solo se fosse davvero portatrice di convincenti modelli alternativi. Altrimenti esprimerebbe solo l'unione di due debolezza. Probabilmente senza la Spagna, il cui sogno segreto è diventare «la Germania del Mediterraneo», come confessa un suo diplomatico.

Forse anche per questo, in barba a logica e coesione del mercato unico e mentre taglia il bilancio Ue, la Germania si prepara a concedere a Madrid un prestito bilaterale da un miliardo di euro, da tradurre in crediti agevolati allo sviluppo delle piccole e medie imprese taglieggiate dagli alti tassi. Lo schema potrebbe ripetersi anche per Portogallo e Grecia.
Dietro lo "shopping" di Paesi Ue più funzionali agli interessi nazionali, ci sono una consapevolezza e un disegno precisi. C'è la convinzione, forte soprattutto nell'industria tedesca, che almeno per il prossimo quinquennio l'Europa, che assorbe tuttora il 60% del suo export, non crescerà abbastanza per poterlo sostenere. Per la riluttanza francese alle riforme e quindi a ritrovare buoni ritmi di sviluppo, per l'incertezza politica italiana e perché il Benelux è un mercato ricco ma ormai saturo.
Di qui una doppia scommessa: investire con una mano nelle economie Ue che offrono le migliori sinergie potenziali per farne anche delle piattaforme di ricerca e innovazione, da cui drenare cervelli e risorse umane qualificate. Puntare con l'altra alla massima diversificazione del commercio estero guardando al mondo intero. Come?
Scegliendo partner regionali in grado di fare da apripista nei diversi mercati regionali: la Cina per Sud Est asiatico e Africa (dove la Germania intende conquistare in 10 anni il 20% di un mercato da 600 miliardi di import annuo). La Russia per Caucaso e Asia centrale, la Turchia per Iraq, Iran, Pakistan, Afghanistan e parte del Medio Oriente. La Spagna per l'America Latina. L'Italia per l'Africa orientale. Creando in parallelo anche una forte base produttiva negli Stati Uniti come ponte verso altri mercati terzi. Il tutto in concorrenza serrata, se del caso, con Francia e Gran Bretagna.

Indiscussa superpotenza economica europea, la Germania insomma non solo progetta di mondializzare il suo sviluppo mettendosi al passo con i nuovi tempi ma di costruirsi un'alternativa forte all'Europa con la graduale delocalizzazione dei suoi interessi economico-strategici, qualora il declino del continente si rivelasse inarrestabile. Elabora dunque in sordina una politica industriale tedesca di larghissimo respiro, che inglobi anche quella commerciale, proprio mentre a Bruxelles si tenta di lanciarne una europea.
Tradimento? No, lungimiranza e Realpolitik globale alla ricerca della crescita economica dove c'è e promette bene, sapendo che è l'unico modo per salvaguardare la prosperità durevole dei propri cittadini. Il mondo è cambiato e cambierà ancora. La Germania è pronta a cavalcarlo. L'Europa non si decide: più aspetta e più rischia di essere lasciata indietro. Anche Francia e Italia sono avvertite.

da IlSole24Ore

Grillo nel vortice di Grillo da Controlacrisi.org

Doveva risuccedere ed è risuccesso. Del resto si era capito fin dall'inizio che a Beppe non reggeva la pompa, lo avevamo intuito fin da quando invece che portare mezza Italia sotto il parlamento durante l'elezione del Presidente della Repubblica decise insieme al resto della sua truppa di indirizzare l'indignazione crescente in una passeggiata civile verso il Colosseo. Dopo mesi di discussioni inutili su scontrini e regole interne, di polemiche durate il battito d'ali di una farfalla, siamo ancora al punto d'inizio. Polemiche e niente più. 
Grillo pensa che menando colpi a destra e manca a chiunque si permetta di criticarlo possa  uscire dalle difficoltà nelle quali è finito il suo movimento entrando in parlamento.  Penso però che si sbagli di grosso, più tempo passa e più l'energia cala, ed il paradosso è che la sua dimensione anti sistemica sta venendo riassorbita dallo stesso meccanismo che ha determinato la forza del 5 stelle. La polemica politica su questioni che non riguardano la vita di milioni di italiani infatti avvicina pochi ma allontana molti. Oggi il bersaglio delle invettive di Grillo è stato ad esempio Rodotà, mentre alcuni giorni fa la Gabanelli è stata duramente criticata dal movimento. Chiunque critica il movimento viene messo fuori dal pantheon grillino senza tante premure in nome della difesa ad oltranza dagli attacchi esterni. Sapere perchè Grillo faccia tutto questo non mi interessa molto,  mi interessa invece riflettere sul fatto che il m5s si sta dimostrando sempre di più incapace di organizzare la rottura che in qualche modo il popolo italiano gli aveva "delegato" a produrre. Ciò avviene perchè Grillo ed il suo movimento sono di fatto incapaci a produrre autonomamente iniziativa politica e conflitto sociale. La Casta è una vergogna, ma non basta più urlare questo slogan di fronte ad un processo così devastante come la crisi economica che stiamo attraversando. Grillo può aderire ad una manifestazione della Fiom, essere parte attiva e sostenere movimenti, ma non riesce a produrre in termini concreti la rottura sistemica necessaria, non lo fa nemmeno contro l'Europa Monetaria che è invece il vero grande avversario contro cui inveire. Invece che con Rodotà, Grillo dall'alto del suo Blog, doveva scagliarsi in questi giorni contro Letta e la Commissione Europea. Contro quell'Europa che  ha richiesto di non allentare la corda al nostro paese ed un Governo che accetta tutto con il capo chino. Evidentmente questi temi non aumentano i click, meglio la sana e vecchia polemica politica allora, con quella si va sul sicuro. Vediamo a chi tocca domani. 

Perché proprio con Rodotà

di , Il Fatto Quotidiano

Il fatto è che in questo momento Rodotà è il leader dell’opposizione. O del cambiamento, della rivoluzione, o come cavolo la volete chiamare: quella cosa insomma che sarebbe già in funzione da tre mesi se i capi del M5S e del Pd avessero fatto il governo che volevano i loro elettori. Rodotà, a differenza di Bersani, non ha una destra interna cui rendere conto. E, a differenza di Grillo, è un politico vecchio e con le idee chiare. Si muove con cautela e lentezza, senza chiasso; ma va avanti con metodo, e guadagna. Non ha ambizioni personali – è troppo orgoglioso per averne – ed è chiaramente un king maker, non un pretendente. Ha dei gruppi di base alle spalle (piccoli ma non solo virtuali, a differenza di Grillo) ed è al centro di una rete articolatissima di simpatie, di movimenti, di segnali che attraversano tutta la società progressista.
E’ – a differenza di Grillo – solidamente e ostentatamente di sinistra. Questo gli nega exploit improvvisi, da puro malcontento indistinto, ma gli garantisce un radicamento e una durata che il suo rivale non ha.
Il tempo gioca per lui: l’assetto del Pd è fragilissimo e obbliga a un continuo doppio binario gli attuali dirigenti di quel partito, sia i “vecchi” alla Epifani (al Psi non portò fortuna chiamare a segretario un ex sindacalista socialista) che i “giovani” alla Renzi. E’ un governo balneare, che non sopravviverà all’autunno. E cadrà da sinistra, in un’occasione qualunque.
Rodotà, che ne ha viste tante, capisce che non serve a niente un ennesimo nuovo partito. Lui scava più in profondo: ha memoria abbastanza per sapere che nei momenti di svolta non è un partito che serve ma un larghissimo – e militante – movimento di liberazione. Questo si sta formando senza accorgersene, un giorno dopo l’altro, lentamente. L’ultima volta che s’è intravisto è stato al referendum per l’acqua pubblica di due anni fa (Rodotà, non a caso, ne era il maggior esponente), ma la prossima volta emergerà – autunno – su temi più drammaticamente sociali.
Grillo sa tutto questo, penso, ma non ha la cultura politica per venirgli a patti. Una visione piccoloborghese del mondo – noi che traffichiamo, voi che campate di pensioni e stipendi – e anche umanamente rudimentale, divisa fra vecchi e giovani, fra italiani e stranieri, fra noi furbi e voi che non capite un cazzo. Alla Brunetta, alla Renzi, alla professor Miglio.
In tutto questo, rischia di disperdersi quello che è stato il contributo storico del movimento di Grillo a questo sfortunato paese. Non il programma (simpatico) non la buffa campagna contro i “costi della politica” (avete idea di quanto ha portato all’estero la sola famiglia Agnelli?), ma il grido di dolore di tutta una generazione di giovani, lasciati nella precarietà e nell’ignoranza, che ha massicciamente votato Cinque Stelle perché non le restava altro da fare.
Ora non grida più, non vota più. E’ buffo il cantar vittoria della nomenklatura Pd, se nella capitale d’Italia oltre metà del popolo non ha voluto votare. E’ amara la risposta di Grillo: pensionati di merda, non mi capite. Amaro, buffo, e tragico, perché può significare la fine del Paese.
Gli storici, fra qualche anno, attribuiranno facilmente le responsabilità più immediate di questo distacco fra popolo e democrazia. Ne daranno una piccola parte alle urla di Grillo, una parte maggiore al tradimento dei centouno boiardi che hanno preferito Berlusconi al governo progressista, e una ancora più grande al massimo garante della Repubblica che invece di preservare i valori comuni ha fatto i “governi tecnici”, ossia indipendenti da ciò che, bene o male, il popolo nella sua ignoranza aveva avuto la scortesia di suggerire.
Adesso, è una gara contro il tempo. Qualcuno – ad esempio Rodotà – riuscirà a rimettere insieme, senza presunzioni ducesche e con infinita pazienza, l’elettorato democratico, maggioritario ma disperso, oppure fra dieci anni l’Italia non esisterà più, marcita nella rassegnazione.

giovedì 30 maggio 2013

Incostituzionale in Germania barriera al 5% di Giulietto Chiesa, Globalist.it


corte-tedesca 650x447Per la corte costituzionale tedesca è incostituzionale lo sbarramento del 5% per il Parlamento Europeo. Possibili effetti clamorosi

La Corte Federale Costituzionale tedesca (nel suo Secondo Senato), ha dichiarato incostituzionale la legge tedesca che impone una barriera del 5% per l'entrata di un partito nel Parlamento Europeo.

Si tratta di una sentenza clamorosa destinata forse a produrre ondate di cambiamenti anche nelle legislazioni nazionali di altri paesi dell'Europa attuale a 27 stati membri. Sicuramente questa sentenza costringerà il Parlamento tedesco a modificare la legge elettorale per le europee del 2014. Penso che sarebbe il caso di sollevare una questione di costituzionalità analoga per quanto concerne l'Italia.


Secondo i calcoli dei giudici costituzionali tedeschi, se non ci fosse stata quella barriera, altri sette partiti tedeschi sarebbero stati rappresentati a Bruxelles in base alle elezioni del 2009. In Italia la barriera attuale, fissata dalla legge, è del 4%. Secondo gli stessi calcoli, togliendola, potrebbero entrare nel Parlamento Europeo del 2014 una decina di nuovi partiti italiani, di destra e di sinistra.Ovvio che i partiti maggiori faranno fuoco e fiamme per impedire che questa barriera venga tolta, adducendo l'unico argomento che è stato fino ad ora usato, per sbarrare il passo a una rappresentazione comunque più democratica della volontà popolare: cioè che troppi partiti produrrebbero frammentazione politica e impedirebbero la possibilità di prendere decisioni.I giudici tedeschi affermano, al contrario, che questo rischio proprio non esiste. Lo dice l'esperienza concreta. I partiti europei esistenti hanno fino ad ora saputo "assorbire" molto facilmente la frammentazione. I partiti nazionali presenti attualmente a livello europeo sono infatti ben 162. Ma, una volta giunti a quel livello - anche in virtù del sistema di lavoro di quella camera, che assegna ai gruppi parlamentari una grande quantità di funzioni - i partiti nazionali minori finiscono per accorparsi in più vaste formazioni, dove sperano di contare di più che restando isolati e fuori dal mainstream legislativo. I gruppi parlamentari del Parlamento Europeo sono infatti soltanto sette, mentre i deputati europei che sono rimasti all'esterno di tutti i gruppi e agiscono "in solitudine" sono soltanto 30.Dunque non esiste, in Europa, il problema della cosiddetta "ingovernabilità". In realtà, come sappiamo, si è visto che, anche in Italia, l'introduzione di barriere all'ingresso, il passaggio al maggioritario, in primo luogo (che produce altre barriere), e l'introduzione di regole astruse e complicate, anch'esse congiunte con barriere di ogni tipo, non ha affatto garantito una migliore "governabilità" del paese. Tutto si è rivelato per quello che era: un trucco per espropriare il cittadino del suo diritto di concorrere, con il suo voto, alla definizione della politica del paese, come detta con grande chiarezza la Costituzione italiana (art. 49).Ed è qui che la Corte federale Costituzionale tedesca, nella sua motivazione, infligge un severissimo giudizio contro i legislatori di Berlino (e contro i nostri). Dicono i giudici tedeschi, e con piena ragione "liberale", che "ogni cittadino deve avere la stessa influenza sulla composizione del corpo legislativo da eleggere". In altri termini il voto di ogni cittadino dev'essere uguale, identico a quello di tutti gli altri. Non possono esserci voti che "valgono di più". Orbene, la clausola della barriera del 5% (caso tedesco) produce un peso diverso dei voti dei cittadini. Infatti l'elettore che vota per un partito che rimane al di sotto della barriera vede il suo voto annullato, pur essendo pienamente valido. Le persone e il partito che egli o ella avrebbe voluto eleggere vengono esclusi dalla ripartizione dei seggi.Di converso gli altri partiti (cioè i voti di quegli elettori ) ricevono una maggiore influenza e peso, poiché la ripartizione di tutti i seggi disponibili viene fatta tra un numero di aspiranti minore di quello reale.Stessa, identica considerazione va fatta per i partiti esclusi, i quali, in quanto "minori" (ma chi decide, in base a quali criteri e parametri questa minoria viene definita?) vengono privati delle "eguali opportunità" di cui, in principio, dovrebbero godere.Tiriamo ora le somme anche per quanto concerne le leggi elettorali italiane che si sono succedute in questi decenni in cui l'inciucio tra i partiti ha assunto funzioni di legge. I vari maggioritari, mattarellum, porcellum, non solo non hanno garantito una maggiore governabilità al paese, ma hanno permesso alla casta di escludere tutti i "disturbatori", di eliminare la concorrenza, di uniformare le diversità, di impedire i controlli. Qualche volta queste manovre di espropriazione del voto dei cittadini hanno consentito di aumentare la durata di questo o quel governo, ma abbiamo sperimentato che si è trattato di aumentare la durata del malgoverno e della corruzione. Infatti le performances dello Stato italiano sono andate irrevocabilmente peggiorando, di anno in anno, dimostrando il contrario di ciò che il Palazzo (esattamente come la Trilaterale di Kissinger e di Enrico Letta) ha sempre asserito, e cioè che "troppa democrazia" equivale a "grande inefficienza".Falsa, questa affermazione, come fu falsa la tesi che bisognasse privatizzare tutta l'attività economica, per sottrarla al "pubblico", descritto come "inefficiente" per definizione. Come si vede il pensiero unico ha colpito in tutte le direzioni: la democrazia è inefficiente, lo Stato è inefficiente (salvo poi fare ricorso a ciò che ne resta per salvarsi quando si va in bancarotta). Abbiamo privatizzato tutte le banche e portato a zero ogni possibilità di decisioni democratiche pubbliche. E adesso scopriamo che tutte le banche private sono in fallimento tecnico (anche se nessuno lo dice) e se sopravvivono è perché sono i denari pubblici che le salvano. E' un unico discorso quello che oggi s'impone: un ritorno alla democrazia e al controllo pubblico della ricchezza nazionale. I giudici costituzionali tedeschi ci hanno ricordato che anche noi abbiamo una Costituzione da far rispettare. E, già che ci siamo, potremmo copiare anche noi quella parte della loro Costituzione che afferma il diritto del cittadino di opporsi, anzi di "resistere" con ogni mezzo, contro i poteri che violano i loro diritti fondamentali.

Nazionalizzare l’ILVA di Augusto Rocchi


Nazionalizzare l’ILVA


Siamo ormai ad un punto cruciale per il futuro dello stabilimento siderurgico di Taranto, così come per gli altri stabilimenti del gruppo e senza enfasi per la siderurgia italiana. Sono di fronte a tutti le palesi inandempienze del gruppo Riva nell’applicare quei provvedimenti indispensabili a rendere compatibile la presenza industriale con la vivibilità dei cittadini.
La proprietà dopo aver incamerato utili consistenti in questi anni , spesso a danno delle condizioni di lavoro sia in termini di carichi di lavoro che delle condizioni di sicurezza (una delle più alte percentuali di infortuni, anche mortali e non spiegabili con la pericolosità delle lavorazioni) ed alla salute dei cittadini con tassi di inquinamento insopportabili, invece di ottemperare alle ordinanze della magistratura prosegue nel ricatto della chiusura dello stabilimento, magari per ottenere che lo Stato si accolli costi ed impegni per le bonifiche e gli interventi strutturali necessari.
Uno stabilimento siderurgico, per le caratteristiche del ciclo produttivo oltre che per i costi, non può restare fermo per lungo tempo.  Di fronte alle disposizioni della magistratura di sequestro giudiziario verso Riva Fire di 8 miliardi ,peraltro non trovati (chissa in quale società o conto off shore all’estero i Riva li avranno dirottati) si minaccia  di nuovo il blocco dell’attività produttiva e la chiusura dello stabilimento. A front di questa situazione ormai intollerabile il Governo deve intervenire in modo netto: riappropriarsi del gruppo industriale, recuperare gli 8 miliardi ed attuare il piano di risanamento previsto garantendo il futuro produttivo ed occupazionale degli stabilimenti. Si fa un gran parlare della necessità ,nella crisi economica che il Paese sta vivendo , del rilancio della crescita economica e dell’occupazione :tutte chiacchere se poi si permette la chiusura di una grande realtà industriale strategica, che ha mercato e che produce utili ed occupazione. Questa vicenda industriale è quindi strategica non solo per Taranto e per la siderurgia italiana ma per l’intero Paese. Si può coniugare questa produzione industriale con una nuova qualità ambientale, come le esperienze in varie parti del mondo dimostrano.  Lo si può fare se lo Stato si riapproria del suo ruolo di programmazione ed indirizzo economico attraverso il suo intervento diretto nella realizzazione di un nuovo sviluppo industriale.
Augusto Rocchi Resp.Naz. Dip. Economico del PRC
Gli operai della Cellula di Rifondazione Comunista dell’ILVA di Taranto, con la federazione tarantina di Rifondazione Comunista, lanciano una raccolta di firme che chiede la nazionalizzazione dell’azienda, il risanamento dello stabilimento di Taranto, la difesa dei livelli occupazionali, il controllo da parte dei lavoratori e della società civile sul processo di riqualificazione degli impianti e di bonifica del territorio e il potenziamento dei presidi sanitari locali. Il PRC ritiene che finalmente debbano essere le persone che giorno per giorno vivono un’insostenibile condizione di incertezza in merito al loro futuro ad esprimere un’opinione su quello che accadrà al più grande sito produttivo del paese. A questo scopo da domani inizierà una raccolta firme dentro il siderurgico jonico. L’obbiettivo è porre il governo di fronte alle sue responsabilità, sollecitandone l’intervento nell’unica direzione che porterebbe alla soluzione definitiva del “caso ILVA”, nonché la sola in grado di superare l’artificioso dilemma Ambiente/Lavoro.”

IL TESTO DELLA PETIZIONE:
Noi sottoscritti lavoratrici e lavoratori, chiediamo al governo di provvedere rapidamente alla nazionalizzazione dell’ILVA, al fine di realizzare senza ulteriori indugi i seguenti obiettivi prioritari:
- Garantire e gestire la complessa opera di bonifica e la riconversione ambientale delle produzioni, mantenendo la produzione di acciaio in Italia e nei siti produttivi esistenti.

- Utilizzare per queste opere gli enormi profitti realizzati dalla famiglia Riva, sottratti negli anni agli investimenti per abbattere l’impatto ambientale.

- Garantire l’occupazione e il salario di tutti gli addetti – diretti ed indiretti –che oggi lavorano negli stabilimenti ILVA, senza che i lavori di bonifica e riconversione produttiva pesino sulle lavoratrici e i lavoratori.

- Sottoporre la gestione pubblica delle bonifiche, delle riconversioni e della produzione al controllo delle lavoratrici e dei lavoratori, dei Comitati e delle associazioni ambientaliste, per garantire la massima trasparenza della gestione pubblica e il pieno coinvolgimento di tutti i soggetti interessati.

- Istituire all'interno dello stabilimento siderurgico un presidio sanitario gestito da Asl e Arpa, che faccia controlli più approfonditi ai lavoratori, che funzioni da vero cardine per la prevenzione e tutela della salute.

Pazza Idea- Nascono le officine del lavoro comune

Nascono le Officine Zero (OZ)!
1 e 2 giugno due giorni di dibattiti, eventi culturali, laboratori, per presentare un progetto di resistenza alla crisi, per inventare il presente oltre le sciagure del presente.

Dopo un anno e mezzo di occupazione, le Officine ex-RSI (ex Wagon Lits – via Umberto Partini, Casal Bertone) riaprono con un progetto nuovo e ambizioso. Di fronte al fallimento dell’azienda, un'ampia coalizione sociale di operai, studenti, lavoratori precari e autonomi riapre i cancelli della fabbrica per rigenerarla. Una vita nuova, dove i padroni hanno fallito, sfruttato e speculato.
In contemporanea con le mobilitazioni di protesta contro le politiche di austerity che si svolgeranno in tutta Europa (da Francoforte a Madrid, da Lisbona a Londra), a Roma, l'1 e 2 giugno, ri-occupiamo per ri-occuparci.
Prendono vita le Officine Zero (OZ). Zero padroni, Zero sfruttamento, Zero inquinamento.
Inizia un progetto che ha come obiettivi principali:
- il futuro lavorativo dei 33 operai (all’ultimo anno di Cassa Integrazione)
- la salvaguardia produttiva dell’area delle Officine di via Umberto Partini
- la riconversione e rigenerazione delle Officine
- l'organizzazione e lo sviluppo di uno spazio di co-working, mutualismo e autotutela dei lavoratori precari e autonomi.
Le Officine ex-RSI (manutenzione dei Treni notte, ex Wagon Lits) sono state occupate il 20 febbraio 2012 dagli operai in Cassa Integrazione con la collaborazione attiva del centro sociale Strike e della rete sociale di Casalbertone. Fin dall’inizio, c’è stato un ampio sostegno di molte realtà sociali e di movimento di Roma.
A due passi dalla Stazione Tiburtina, nuovo snodo centrale dell’alta velocità e faraonica opera pubblica che sta sconvolgendo l’assetto urbanistico e sociale dell’intera zona, le Officine ex-RSI diventano rapidamente un simbolo dei paradossi della crisi. Acquisite nel 2008 dalla Barletta Srl, non per rilanciare il settore della manutenzione dei Treni, ma per dismettere l’attività produttiva e realizzare una speculazione immobiliare. Rendita immobiliare che sostituisce la produzione. 33 famiglie e una vita di competenze e saperi al macero.
Ma oltre ad essere simbolo di un capitalismo parassitario, le Officine diventano simbolo della resistenza alla crisi. Tra mille difficoltà e paure, gli operai, grazie a un sostegno sociale assai ampio, occupano una fabbrica al centro di Roma, che diventa occasione di incontro tra vecchie e nuove forme del lavoro.
Dopo un anno e mezzo di occupazione, tra fasi alterne di grande partecipazione e di grande sfiducia, per l’assenza di risposte da parte delle istituzioni, la lotta è arrivata a un punto di svolta. Già nel settembre del 2012, infatti, prende vita il “laboratorio sulla riconversione”, grazie al contributo di architetti, economisti, esperti del settore e attivisti. Per mesi si discute e progetta un’alternativa concreta alla speculazione, per rilanciare e rigenerare la produzione e mettere a frutto i saperi e le competenze degli operai.
Quando il 3 Maggio la Magistratura decreta il fallimento dell’azienda CSF (ex-RSI), il progetto assume un’inattesa accelerazione e viene presentato alla città. Assemblee pubbliche partecipate da centinaia di persone rafforzano e arricchiscono il “laboratorio della riconversione” e nasce la “Pazza idea” delle Officine Zero. Un progetto che prende vita nelle Officine ex-RSI, come parte di un processo di lotta e sostegno alla vertenza operaia. Un progetto alternativo alla speculazione, ma integrativo della manutenzione ferroviaria. Un progetto dove si intrecciano formazione e produzione, autotutela, mutualismo e cooperazione tra lavoratori.
Al “laboratorio della riconversione”, infatti, si affianca un percorso di auto-organizzazione animato, già da diversi mesi, da studenti, lavoratori precari e autonomi (partite Iva, collaboratori, consulenti). L'idea è quella di dare vita ad uno spazio che sia, nello stesso tempo, di co-working e camera del lavoro e del welfare. Un luogo dove produrre comunemente, connettendo saperi e competenze, un dispositivo di servizio e di assistenza che sia stimolo e sostegno per vertenze contro la precarietà, per un welfare universale (reddito di base, formazione, sanità, previdenza), contro la disoccupazione.
Tra il “laboratorio della riconversione” e la ricerca pratica di nuovi strumenti capaci di difendere e organizzare l'inorganizzabile, il lavoro autonomo e precario, nasce un rapporto virtuoso; figure produttive diverse si combinano per resistere alla crisi, per inventare alternative alla catastrofe che ci tocca in sorte.
Al centro del progetto c’è l’idea che le competenze di manutentori dei treni possano essere parzialmente (e magari temporaneamente) re-impiegate in un servizio di pubblica utilità: la formazione di personale che operi nel mondo del riciclo e del riuso, delle energie rinnovabili, dell’artigianato vecchio e nuovo. Per costruire materialmente un utilizzo alternativo dei rifiuti e degli oggetti di consumo sempre più rapido e scellerato. In tutta Europa il riuso e le nuove forme di artigianato producono nuove forme di economia, dove compatibilità sociale e ambientale viaggiano insieme. Le Officine Zero vogliono ripartire dalle origini del movimento operaio, unendo ciò che i padroni vogliono dividere: conflitto, mutualismo e produzione autonoma.
1) Le Officine Zero sono Officine del lavoro comune, dove il prodotto principale è l’unione, dove non ci sono padroni o capi reparto, dove si progetta e decide in comune. Uno spazio dove convivano forme di Co-working e di autogestione, di lavoro artigiano e di autoformazione.
2) Le Officine Zero sono Camera del lavoro autonomo e precario, dove precari, lavoratori autonomi, disoccupati possano trovare servizi e spazio per organizzarsi, per unirsi, per fare del mutualismo il collante davanti alla frammentazione e alla solitudine.
3) Le Officine Zero sono Studentato autogestito, in una città in cui i servizi per gli universitari sono ridotti sotto la soglia minima, in cui è diventato impossibile costruire percorsi di autonomia dalla propria famiglia. A fronte di un welfare studentesco inesistente e di un’università pubblica dissanguata dalla crisi, lo studentato autogestito Mushrooms è riappropriazione della possibilità di vivere una vita degna.
4) Le Officine Zero sono Riconversione economica, sociale e ambientale che accoglie la progettualità elaborata e scritta dalla comunità locale e che vuole tenere insieme dignità del lavoro ed equilibrio ambientale. Per restituire alla comunità locale ricchezza sociale e solidarietà.
Le Officine Zero sono un laboratorio dove creare nuove forme di mutualismo e cooperazione tra quei soggetti che maggiormente subiscono i ricatti dell’austerity. L’alternativa che proponiamo per rompere la solitudine in cui ci vorrebbero relegare, all’interno del quale studenti, precari e lavoratori non (più) garantiti si possano confrontare per costruire un luogo da abitare e non solo da attraversare, uno spazio di dignità, di umanità e di autonomia.
Le Officine Zero ricominciano e non da zero!

Programma
Sabato 1 giugno
ore 12 – assemblea pubblica e conferenza stampa di presentazione del progetto. A seguire “visita guidata” delle Officine e dei reparti
ore 13 – pranzo a cura di StraKitchen
ore 14:30 – prima tavola rotonda: “Ammortizzatori sociali e reddito di base: quali diritti contro la crisi?”
“Visita guidata” delle Officine e dei reparti
ore 17:30 – seconda tavola rotonda:
“Conflitti precari e nuove forme di organizzazione sindacale”
Sono invitati a partecipare e intervenire: Coordinamento lavoratori autoconvocati, Cassaintegrati Irisbus (Avellino), Gianni Boetto (ADLCobas, Padova), Precari La7, Precari AlmaViva, Lavoratori Cinecittà Studios, Francesca Re David e Roberta Turi (FIOM), Guido Lutrario (USB), Roberto D'Andrea (NIdiL), punti San Precario (Milano), Elena Doria (Strade), Manila Ricci (Laboratorio Paz – Rimini), Communia, Piattaforma per il Reddito di base e i diritti
ore 19:30 – diretta streaming da Blockupy (Francoforte), dalla Polonia, da Londra
ore 20 – cena a cura di StraKitchen
ore 21:30 – Video-presentazione di Officine Zero; a seguire concerto hip hop con Kento e Amir

Domenica 2 giugno
a partire dalle 10 – laboratori artigiani + spazio bimbi
ore 13 – pranzo a cura della StraKitchen
ore 14:30 – prima tavola rotonda: “Riconversione economica: produzione e sostenibilità ambientale e sociale. Si può fare!” “Visita guidata” delle Officine e dei reparti
ore 17:30 – seconda tavola rotonda: “Lavorare senza padrone: co-working e fabbriche autogestite”
Sono invitati a partecipare e intervenire: Re Federico (co-working di Palermo), SPQWoRk (co-working Roma), Archificio (co-working Roma), Work[in]Co (co-working Roma), Officine Libetta (co-working Roma), Millepiani (co-working Roma), Teatro Valle Occupato, Nuovo Cinema Palazzo, FabLab, Guido Viale (Economista), Ri-Maflow (Milano), RSU AlmaViva, Gianfranco Bongiovanni (Occhio del Riciclone), Alberto Zoratti (ExColorificio di Pisa/Fair Watch), Bartolo Mancuso (SCUP – Roma), Angelo Mastandrea (il Manifesto), Laura Greco (A Sud), Lab. Urb. RESET, Antonio Conti (Rete ONU – Operatori Nazionali dell'Usato), Piergiorgio Oliveti (presidente Città Slow International)
ore 20 – Ivano De Matteo e Valerio Mastandrea presentano
“Gli equilibristi” (2012. Un film di Ivano De Matteo con Valerio Mastandrea, Barbora Bobulova, Grazia Schiavo, Antonio Gerardi) a seguire proiezione del film