giovedì 31 ottobre 2013

Dimissioni Cancelllieri. Subito di Maso Notarianni, Micromega

”Resta alta la tensione nelle carceri italiane.
Nel 2012 ben 1.300 detenuti hanno tentato il suicidio, 7.317 gli atti di autolesionismo e 4.651 le colluttazioni. 56 i suicidi e 97 le morti per cause naturali. Oltre 1.500 le manifestazioni su sovraffollamento e condizioni di vita intramurarie”. Lo dice un comunicato del sindacato di polizia penitenziaria.
Tra i 2002 e il 2012 le statistiche dicono che il suicidio è la prima causa di morte (518, 56%); seguono la malattia (183, 20%) e una categoria ‘da accertare’, che raccoglie i casi per cui è in corso un’indagine giudiziaria (177, 19%). A questi si aggiungono 26 casi di overdose e 11 omicidi. In totale 915. Le cifre riportate escludono casi di morte in questura, Cie e arresti domiciliari.
Eppure, la Costituzione italiana recita, all’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Che fa la ministra Cancellieri? Telefona. Per sollecitare un intervento umanitario verso i detenuti che insieme agli agenti di Polizia Penitenziaria e a molti direttori di carcere stanno facendo lo sciopero della fame? Per rivedere le leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi che sono la causa del criminale stato di sovraffollamento delle carceri italiane?
No. Telefona per sensibilizzare i due vice capi dell’amministrazione penitenziaria perché facciano quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute di Giulia Maria Ligresti, che pochi giorni dopo è andata agli arresti domiciliari. “Si è trattato di un intervento umanitario assolutamente doveroso in considerazione del rischio connesso con la detenzione”, dice la ministra.
Giulia Maria Ligresti, figlia di Salvatore Ligresti, evidentemente ancora potente tra i potenti, è in carcere. Sicuramente non ci sta bene. Certamente soffre la sua condizione di reclusa. Esattamente come gli altri quasi 28 mila in attesa di giudizio. Come quel detenuto di 82 anni malato di tumore alla prostata alla gola e alla vescica rinchiuso, insieme a altre 15 persone, in una sala da ping pong trasformata in cella a causa del sovraffollamento di Rebibbia.
Per lui, come per migliaia di altri detenuti in condizioni disumane, il telefono della ministra è rimasto muto.
Per questo crediamo che la ministra Cancellieri si debba dimettere. Subito.
Qui si può firmare per chiedere le dimissioni del Ministro.

Il colpo di Stato di banche e governi di Luciano Gallino, Micromega


I governi europei hanno risposto alla crisi in due modi: camuffandone le cause (attribuite all'eccessivo debito degli Stati anziché ad un sistema bancario fuori controllo) e imboccando la strada dell’autoritarismo emergenziale. Ma qual era il loro obiettivo? Lo spiega l'ultimo libro di Luciano Gallino “Il colpo di stato di banche e governi” (Einaudi), un appassionano grido d'allarme contro l'"attacco alla democrazia" in corso in Europa. Per gentile concessione dell'editore ne anticipiamo un estratto
 
Dal 2010 in poi, e intervenuto nei Paesi dell’Unione europea un paradosso: i milioni di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è una catena che comprende diversi anelli. (...)
Se ci si chiede come una simile paradossale concatenazione di decisioni e di eventi sia stata possibile, vien fatto di pensare sulle prime a una colossale serie di errori commessa dai governi Ue. In effetti bisogna essere piuttosto ottusi in tema di politiche economiche per credere di poter rimediare alla crisi ponendo in essere, nel pieno corso di questa, robusti interventi dagli effetti recessivi affatto certi. Ciò nonostante, sebbene l’ottusità economica di parecchi governanti Ue sia fuor di dubbio, sarebbe far torto ai loro stuoli di consiglieri e funzionari supporre che non siano riusciti a far comprendere a ministri e presidenti del Consiglio e capi di Stato che l’austerità, nella situazione data, era una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico.

In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che e stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non e certo quello di risanare l’economia. E piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto in corso da oltre trent’anni. Essa e stata messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull’espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2007.

I cittadini della Ue, al pari di quelli Usa, hanno già sopportato pesanti oneri prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti, in seguito per le conseguenze dirette della crisi. I loro governi debbono aver pensato che difficilmente avrebbero sopportato senza opposizione alcuna altri costi sociali e personali, sotto forma di smantellamento dei sistemi di protezione sociale e di peggioramento delle condizioni di lavoro di cui hanno goduto per almeno due generazioni. Però questo è l’ultimo territorio da conquistare per poter proseguire nel drenaggio delle risorse dal basso in alto. Esso è formato dalle migliaia di miliardi spesi ogni anno per i suddetti sistemi – gran parte dei quali, a cominciare dalle pensioni, rappresenta salario differito, non elargizioni da parte dello Stato.

I governi Ue hanno quindi posto in opera, al fine di ottenere che la classe da essi rappresentata possa proseguire senza troppi ostacoli la distribuzione dal basso in alto, due strategie che si sono rivelate negli anni post-2010 assai efficaci.
La prima è consistita, come ricordato sopra, nel camuffare la crisi come se questa volta non avesse origini nel sistema bancario, bensì fosse dovuta al debito eccessivo degli Stati, provocato a loro dire dall’eccessiva spesa sociale.
In secondo luogo, nella previsione che tale schema interpretativo non fosse sufficiente per tenere mogi i cittadini, hanno imboccato la strada dell’autoritarismo emergenziale. Cosi come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all’emergenza denominata "debito eccessivo dei bilanci pubblici" le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri. Ai suoi lavori collaborano la Commissione europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e la Bce. Inoltre godono dell’apporto esterno del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le misure da prendere sono poi messe a punto dalla Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi e inviate ai rispettivi Parlamenti per l’approvazione.

Cosi è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia; il pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato sociale – chiamato Euro Plus; il cosiddetto "patto fiscale" ovvero Trattato sulla stabilita ecc.; la creazione del Meccanismo europeo di stabilità. Essendo l’approvazione "chiesta dall’Europa", i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza. Sono i governi a comandare.

Mediante codesto processo che è guidato a livello Ue da poche dozzine di persone, la democrazia nell’Unione appare in corso di rapido svuotamento. Persino il Trattato della Ue, nel quale il concreto esercizio della democrazia riceve assai meno attenzione del libero mercato e della concorrenza, appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika.
Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide e presentato come alternativlos, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell’euro, dei bilanci sovrani, dell’intera economia europea. Posti dinanzi a simili minacce, che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente, i cittadini degli Stati cardine della Ue hanno finora subito si può dire a capo chino gli interventi dell’autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles, sebbene esso stia assumendo sempre più il profilo di un colpo di Stato a rate

Pensioni, la rivolta delle partite Iva di Roberto Ciccarelli, Micromega


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Lavoratori autonomi e sindacati impegnati in una vertenza comune contro la riforma Fornero: un nefasto provvedimento che è riuscito nel miracolo di far unire nella lotta le differenti tipologie e figure lavorative. Un fronte comune che forse sarà possibile replicare sulla legge di stabilitàIl mondo del lavoro indipendente si mobilita contro una delle peggiori norme contenute nella riforma Fornero delle pensioni: l'aumento di un punto dell'aliquota previdenziale per le partite Iva iscritte alla gestione separata dell'Inps a partire dal 1 gennaio e di cinque punti entro il 2018, dall'attuale 27,72% al 33%. Per la prima volta nella storia repubblicana, oltre trecento associazioni e gruppi organizzati del lavoro autonomo e professionale diventano protagoniste di un'azione politica congiunta e vengono supportate, elemento ulteriore di novità, dalla Cgil e dalla Uil.

Mai fino ad oggi si era visto uno schieramento così vasto sottoscrivere
un appello al governo Letta e chiedere di bloccare un aumento che danneggia almeno 200 mila persone e comprometterà la tenuta del sistema previdenziale. Queste persone sono professionisti che lavorano solo con la partita iva e guadagnano in media 18.836 mila euro lordi, 9.041 mila netti all'anno, pari a 753,44 al mese.

Un lavoratore con partita Iva che guadagna 1.000 euro lordi al mese oggi ha un reddito netto disponibile di 545 euro. Se fosse confermato l'aumento delle aliquote Inps decise dai precedenti governi, il reddito si ridurrebbe a 485 euro mensili, con una perdita di quasi 300 euro. Chi realizza un reddito di 2.000 euro lordi al mese se ne ritrova in tasca 960 che diventeranno 840 euro quando l'aumento dei contributi sarà a regime.

Secondo i calcoli della Cgil, la cifra da stanziare nella legge di stabilità per bloccare una «misura iniqua» è di 26 milioni di euro.
«Un gesto importante di giustizia sociale e di attenzione verso lavoratori che contribuiscono all'equilibrio del sistema Inps con oltre un miliardo di euro di contributi versati ogni anno» si legge nell'appello sottoscritto dal Coordinamento delle Libere Associazioni Professionali (Colap), della Confassociazioni, della consulta professionale della Cgil, insieme a Agenquadri all'Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (Acta) e all'associazione «Alta partecipazione».

Lavoro autonomo di seconda generazione

Queste associazioni hanno attratto centinaia di realtà del lavoro autonomo non ordinistico, che non rispondono cioè ad un ordine professionale, ma che stanno sul mercato, lavorano con la pubblica amministrazione, gestiscono contatti e competenze ma non assomigliano in nulla ad un'impresa. Coprono praticamente tutto lo scibile del lavoro indipendente che si occupa delle relazioni e della cura delle persone, di ricerca o consulenze, elabora linguaggi e produce cultura, crea servizi, beni e prodotti immateriali. Sergio Bologna lo ha definito «lavoro autonomo di seconda generazione».

Questo segmento importante del lavoro indipendente è stato sempre trattato come un bancomat da tutti i governi. A partire dai contributi per la pensione, che con ogni probabilità non riceveranno mai, per non parlare delle tasse. Tutte sulle loro spalle perché, a differenza del lavoro dipendente, in Italia gli autonomi devono autofinanziarsi tutto, dalla malattia alla pensione, e anche la formazione. Per loro non è prevista la cassa integrazione in caso di disoccupazione, un salario o un reddito minimo.
Quando si parla di riduzione del cuneo fiscale del costo del lavoro, non si parla mai di loro. Sono come gli apolidi. Respirano, lavorano, hanno figli, ma non hanno ancora una cittadinanza. «Abbiamo superato tutti i confini per farte un'azione comune - conferma Anna Soru, presidente di Acta che ha anche lanciato la petizione «DicaNo33» e ha raccolto in rete 12 mila adesioni - Speriamo che sia la prima di una lunga serie. Siamo d'accordo sul blocco dell'aumento contributivo insostenibile e antistorico perchè va a colpire il lavoro più nuovo, che sta crescendo, ma che non viene tutelato».

La beffa della gestione separata

Gli effetti dei primi cinque anni di crisi si stanno facendo sentire. Tra il 2011 e il 2012 i contribuenti alla gestione separata Inps sono diminuiti di 63 mila (21 mila partite Iva e 42 mila parasubordinati). Questa «fuga» ha abbattuto di 1 miliardo e 248 milioni di euro il gettito che è passato da 8 miliardi a 7 miliardi solo tra il 2010 e il 2011. L'adesione alla gestione separata costa cara (In dieci anni il prelievo contributivo per le partite iva è passato dal 10% all’attuale 27%) e non garantisce una pensione in futuro e tanto meno tutele nel presente. In queste condizioni critiche la riforma Fornero ha imposto un aumento dell'aliquota per pagare l'assicurazione per l'impiego (Aspi) da cui tuttavia questi lavoratori sono esclusi. Senza contare che i loro contributi coprono i passivi della gestione dei commercianti, degli artigiani o dei. dirigenti. Gli autonomi pagano il cuneo fiscale più alto di tutti. Una beffa.

Una prima azione comune

«Con i sindacati è la prima volta che facciamo una battaglia politica dalla stessa parte - afferma Emiliana Alessandrucci, direttrice del Colap - Ci siamo ritrovati sull'idea che il parasubordinato è giusto che costi come un dipendente, ma la partita Iva no. Così ci siamo accordati sul blocco dell'aliquota che danneggia la nostra competitività rispetto a chi è iscritto ad un ordine professionale. Ad esempio, un architetto paga solo il 14% di contributi mentre un progettista di interni arriverà a pagare 19% in più nel 2018. Questo significa che farà la fame o smetterà di lavorare».
Davide Imola. responsabile professioni Cgil, sottolinea la novità storica di questa coalizione. Per il sindacato di Corso Italia è un passo verso la «contrattazione inclusiva», fondata sul riconoscimento dei diritti della persona, prima ancora della tipologia del suo contratto. Per la Cgil l'obiettivo è estendere la contrattazione, istituire i compensi minimi e così finanziare le tutele sociali. Su questo punto, c'è un intenso dibattito con le associazioni degli autonomi.

Non tutti, infatti, sono convinti che il compenso minimo sia la soluzione per le partite Iva, anche se è efficace per i parasubordinati. In ogni caso, la battaglia contro la riforma Fornero potrebbe essere un primo passo per parlare di tutele sociali per tutto il lavoro indipendente.

Quanti sono i lavoratori autonomi

In un'analisi recente della Cgil i lavoratori che svolgono attività autonome senza dipendenti, esclusi i parasubordinati e le imprese, risultano essere 3.369.000. A queste partite Iva individuali vanno aggiunti 962.428 parasubordinati esclusivi (coloro che non hanno altre attività e non sono in pensione) e 21.101 lavoratori con redditi esclusivi da cessione di diritti d'autore. Per un totale di 4.352.529.

A sinistra per anni si è creduto che gli autonomi fossero tutti evasori fiscali. A destra,invece, che fossero tutti potenziali "imprese individuali". In questa incertezza sull'identità, che però corrisponde all'esercizio di una professione ben chiara, anche per questo è stato deciso di aumentargli la contribuzione, senza tuttavia garantire le tutele universali riservate ai contribuenti dello Stato.

Chi lavora con la partita Iva per aziende, come per la pubblica amministrazione, condivide con i lavoratori dipendenti l’impossibilità di evadere perché viene pagato solo a fronte di una fattura. Ma, diversamente dai dipendenti, versa nelle casse dell’Inps contributi superiori (il 27%, appunto, contro il 14% o il 21%). E questo vale in particolare per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996 (l’anno in cui entrò in vigore la riforma Dini e nacque la gestione separata). Pochi di loro hanno la speranza di percepire una pensione a fine carriera, sebbene versino regolarmente il dovuto.
"La riforma Dini - continua Anna Soru - è stata fatta per permettere la sostenibilità del sistema pensionistico ma non quella delle singole pensioni. L’onere viene ripartito in maniera proprozionale fino ai 90 mila euro ma poi non più, ed è inaccettabile perché diventa regressiva perché non paga chi guadagna 200, 300 mila euro. Serve a sostenere l’inps e quelli che hanno una pensione alta. Il costo dovrebbe essere invece sostenuto da tutti e pagato in maniera progressiva".
Altri falsi miti sulle partite Iva

La confusione tra partite iva "pure" e falsi dipendenti, e la convinzione che in realtà gli autonomi siano lavoratori parasubordinati o precari "mascherati" si è diffusa negli ultimi anni di crisi, a partire dalla riforma Fornero sulle pensioni.

C'è una base di realtà in questa convinzione come dimostra
la ricerca Isfol «Lavoratori autonomi: identità e percorsi formativi». Tra il 2007 e il 2012, 330 mila autonomi hanno perso il lavoro. I più colpiti sono stati gli imprenditori: l’87,4% dichiara che il mercato è peggiorato negli ultimi tre anni di crisi. Un dato che contrasta, ma solo apparentemente, con l’esplosione delle partite Iva. Per la Cgia di Mestre nel 2012 ne sono state aperte 549 mila, il 38,5% sono intestate agli under 35. La crescita è avvenuta a Sud, nel commercio, nelle professioni e nelle costruzioni.

Per la maggioranza sono partite Iva monocommittenti, cioè svolgono un lavoro dipendente mascherato. Il monitoraggio su questo fenomeno partirà solo nel 2014, come si legge nella
circolare Inail del 20 marzo 2013 vanificando l’impatto della riforma. E' ormai convinzione diffusa che la monocommittenza non sia il criterio che distingue una «finta» partita Iva da una «vera».

Il criterio utile per distinguere situazioni diversa resta quello del lavoro che viene pagato sulla prestazione, non sul tempo dell'impiego o di un contratto. Anche la riforma Fornero non concede ai singoli l'autonomia nel decidere se, come e quando lavorare, obbligandoli ad aderire ad un'identità predeterminata, standard o tipica, mentre il lavoro indipendente rifiuta questo criterio.

Possibilità delle coalizioni


Questa prima coalizione tra lavoro autonomo e sindacati - pur nella diversità delle rispettive posizioni, talvolta anche ampia - potrebbe diventare l'occasione per affrontare il problema delle tutele sociali (reddito, assicurazione, prevenzione ad esempio) per tutto il lavoro indipendente in Italia, composto da tutti coloro che non svolgono un'attività di impresa e non sono dipendenti





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Omo de panza ne abbiamo abbastanza Di ilsimplicissimus


grillo_ottocentesco-650x879Da  trent’anni il Paese è governato dalla pancia: grandi indigestioni di Italia da bere come aperitivo e poi le penne al sugo di un milione di posti di lavoro con spolverata di contratto con gli italiani, risotto alla D’Alema con formaggio di fossa, filet mignon in panna acida, sformato Alitalia con Ilva di stagione, fritto misto di licenziamenti, lingua di vacca provenzale con insalatina berlinese e infine il dessert della casta. Il tutto magnificato da telecamerieri con la giaccia inamidata e accompagnato da tavernello d’annata. Il risultato è l’avvelenamento dovuto alla scarsa qualità degli ingredienti e l’incapacità degli chef che provoca insopportabili bruciori di stomaco. Però i commensali hanno sopportato stoicamente, incapaci di staccarsi dalla fascinazione del menù e di alzarsi dal tavolo.
Dopo questa scorpacciata ci si aspettava finalmente di farla finita con le ricette da quattro soldi, di uscire dall’atmosfera viziata di questa cambusa di nequizie, di fare due passi per schiarirsi il cervello e invece da una parte arriva l’ animatore Renzi con la sua fintissima simpatia e la totale assenza di contenuti, dall’altra viene Grillo a dirci che è ancora tempo di dar retta alla pancia, di fare del facile populismo e di mettere insieme “finzioni politiche” come quella dell’impeachment di Napolitano. L’uomo si propone sempre di più non come alternativa di un sistema al tramonto, ma come una pastiglia di maalox che serve solo ad alleviare il malessere. Non sarebbe ora di finirla?
Ho sempre avvertito il baratro che c’è tra Grillo – Casaleggio e il M5S che non è più un’accolita marginale di fans del “conformismo contro”, ma rappresenta una vasta ribellione alla deriva oligarchica presa dal sistema politico e dalla sua incapacità di rappresentanza. Per paradosso proprio questo movimento di opinione si è trovato all’interno di un nuovo “sistema monarchico” dove la magica rete è diventata un feticcio grazie al quale è possibile comandare a bacchetta isolando ogni dissenso. Il tutto condito da vaniloqui su sistemi operativi e applicazioni per la partecipazione diretta, ( che peraltro, proprio volendo, esistono da un decennio, un secolo sull’orologio informatico), ma solo di chi vuole è scelto dal padrone e senza controlli esterni. Ribellarsi veramente ai falsi ribelli comincia ad essere un dovere.
Non è un  caso che tutto questo, unito al ponzio pilatismo di ambigua origine visto che alla fine congela milioni di voti e “oggettivamente”, come si diceva un tempo, favorisce la persistenza del sistema politico e dei suoi grandi committenti finanziari, provoca un distacco dell’elettorato che si sente trascinato dentro una marginalità fattuale spaventosa. Certo l’ultima batosta in Trentino  non può essere presa come riferimento assoluto  trattandosi di una realtà molto particolare, ma nemmeno si può dire che sia normale perdere i tre quarti dei voti rispetto alle politiche, tanto più in un movimento formatosi non solo attorno a Grillo, ma anche alle realtà locali: una simile dicotomia è del tutto estranea alle dinamiche elettorali italiane.
Forse sarà anche retorico dire basta alla pancia per ascoltare cuore e cervello. Ma ormai anche queste formule un po’enfatiche sono dense di significato a confronto del nientismo attuale. E del resto a forza di ingerire schifezze dovremmo essere in grado di avvertire il sapore della trippa anche quando il cuoco ci dice che è fagiano.

Karl Marx e il suo deficit originario* Roberto Finelli


Il deficit originario di Karl Marx
1.   Ciò che di Marx oggi non è più possibile accettare non è certamente la critica dell’economia – che invece trova sempre più conferme – quanto l’antropologia e la filosofia della storia che ne consegue. In buona parte dell’opera di Marx c’è infatti un deficit profondissimo di analisi e comprensione della soggettività, che ha avuto conseguenze assai negative nelle storie dei movimenti operai e delle emancipazioni sociali che si sono richiamate al marxismo.
Un deficit, la cui presenza è sempre stata espressa, e insieme dissimulata, proprio dal suo opposto, qual è la teoria dell’onnipotenza del soggetto che Marx ha posto a base della sua filosofia della storia e della rivoluzione.
La tesi fondamentale del materialismo storico è, com’è noto, quella della contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali di produzione. La storia, secondo questa prospettiva, passa da una formazione economico-sociale all’altra ogni qual volta lo sviluppo delle capacità costruttive dell’homo faber (la cui accumulazione costituisce il filo rosso e il polo positivo di continuità tra le varie epoche) trova impedimenti non ulteriormente compatibili con la sua crescita.
Lo sviluppo delle forze produttive, della tecnologia, della scienza, ciò che in una pagina dei Grundrisse Marx definisce il general intellect, costituisce il fondo permanente di valore, la sostanza e il soggetto della storia, il fattore d’integrazione che più propriamente unifica e universalizza il genere umano. Mentre, di tale progresso ed evoluzione storica, le varie forme e istituzioni politiche, le varie forme di proprietà e di relazioni tra classi, costituiscono solo il lato, certamente ineliminabile, ma variabile e transeunte, pronto ad entrare appunto in una contraddizione anacronistica con lo sviluppo della vera soggettività.
In tale sorta di gigantismo prometeico e di mito positivistico, ante litteram, del progresso, il soggetto della storia è dunque essenzialmente il lavoro, visto da un lato come capacità di confronto e di affermazione inesauribile del genere umano e della sua superiorità sul mondo naturale e dall’altro come fattore intrinseco di socializzazione e di universalizzazione degli essere umani. Non c’è bisogno perciò di una teoria della rivoluzione, e di tutti i problemi che essa comporta ed apre sul fronte della costruzione di una soggettività politica, dato che una soggettività collettiva e comunitaria, senza i vizi dell’egoismo  e dell’individualismo, è posta e prodotta nell’atto stesso del lavorare e del produrre e pronta di lì a riappropiarsi di tutte le espropriazioni, fino a quello sviluppo incontenibile delle forze produttive messo in atto dalla modernità che non può non evolvere e concludersi nel comunismo.
Da tale messa in valore dell’homo faber, dell’uomo della prassi, nasce lo schematismo riduzionistico del materialismo storico (con la semplicistica articolazione di struttura e sovrastruttura), e, in pari tempo, un’antropologia fabbrile fusionale e gruppale, in cui non v’è spazio alcuno per l’individuo e le sue differenze rispetto alla superiorità e all’organicità del collettivo.

2.   Ora, il paradosso di fondo dell’opera di Marx è che la medesima disposizione teorica antindividualistica, quando si trasferisce da una filosofia della storia predestinata a uno sbocco palingenetico ad uno studio, invece, approfondito e sistematico della modernità attraverso la maturità della critica dell’economia politica, produca, non più metafisica antropocentrica e produttivistica, ossia ideologia, bensì conoscenza e, più propriamente, scienza. E tutto ciò essenzialmente perché con il Capitale Marx scopre che al fondo della società moderna si colloca l’agire di un soggetto non antropomorfo, qual è quello di una ricchezza astratta, di natura solo quantitativa, il cui fine unico ed assoluto è quello di accumulare la propria quantità, asservendo a tale scopo l’intero mondo dell’esistenza concreta e qualitativa. Ha scoperto cioè, proprio a muovere dalla matrice antindividualistica del suo pensare, che l’essenza del capitale consiste in una connessione obbligata di passaggi e funzioni, di protocolli di comportamento, la cui intima necessità non dipende dalla scelta e dalla volontà degli esseri umani (quale che sia l’ambito produttivo e merceologico in cui il singolo capitalista sceglie di operare), ma appunto dal carattere astratto e impersonale della ricchezza in questione, la cui natura solo quantitativa non può che imporre all’intero processo, perché abbia un senso, l’obbligo della propria crescita: con l’assimilazione di tutto ciò che in tale processo entra a far parte ad una logica appunto che è, in pari tempo, di accumulazione quantitativa e di estenuazione qualitativa.
In tal senso non è un caso che nel Capitale i soggetti umani compaiano come privi di ogni rilievo e autonomia personale, ossia non come soggetti dotati di libera volontà e capaci con la loro iniziativa di modificare il corso delle cose, bensì solo come Charaktermasken, cioè maschere teatrali, che rappresentano solo personificazioni di ruoli e funzioni economiche. E appunto su tale unificarsi dell’intero universo socio-economico sul paradosso di una quantità in processo, di una quantità nel suo processo incontenibile e sempre più ampio di valorizzazione, si fonda l’oggettività e l’obbligo di quella logica scientifica che è peculiare del Marx dei Grundrisse e del Capitale. Logica che è dunque logica di un soggetto peculiarissimo, che, per la sua natura impersonale, agisce quasi come un soggetto inconscio (ma del tutto diverso dall’inconscio di Freud e della psicoanalisi), che obbliga e curva, nel suo agire, contenuti, forme e stili di vita dei singoli individui.
Tale logica, modificando profondamente l’ottica precedente di Marx , non mette più a tema il lavoro nel senso dell’espressione delle virtù nobili e creatrici dell’essere umano e del “genere” di cui è membro: bensì intende ora, con una modificazione categoriale fondamentale, per lavoro l’uso della forza-lavoro. Aprendo così quel dualismo, nel mondo moderno, tra sfera dell’essenza e sfera dell’apparenza, che, disconosciuto o rifiutato da tutta la scienza economica, neoclassica, neoricardiana, keynesiana che sia, costituisce invece la rivendicazione di verità caratteristica e propria del solo marxismo.
Infatti che il lavoro sia interpretabile solo come sinonimo di uso della forza-lavoro apre una differenza ontologica tra i due ambiti fondamentali in cui si articola la sfera dell’economia: ossia tra la sfera del mercato, o sfera della circolazione, e la sfera della produzione. Mentre la prima per Marx ha come principio costituzionale quell’ dell’equivalenza, e dunque quello dello scambio tra liberi ed eguali, la seconda ha come principio costituzionale quello del comando e del dominio, ossia il principio della diseguaglianza e dell’oppressione. Mentre l’acquisto e la vendita di forza-lavoro sono compiuti e scanditi secondo libertà ed eguaglianza (ed infatti è mediato dal denaro), l’uso capitalistico della forza-lavoro, cioè l’organizzazione del processo di lavoro, è usufruito in modo privato e personale dai rappresentanti del capitale (e infatti non è mediato da denaro).
Così da tale compresenza di piani di realtà retti da princìpi costituzionali profondamente diversi, anzi opposti, Marx può dedurne una natura intrinsecamente dialettica della società contemporanea, basata, a mio avviso, non sulla contraddizione, ma sulla dissimulazione che intercorre tra essenza ed apparenza: nel senso che l’essenza della società moderna, che trova il suo principio nell’essere costituita da un rapporto di classe tra diseguali, appare alla superficie della medesima società, e dunque al senso comune generalizzato, secondo l’apparenza di un rapporto sociale tra eguali.

3.   Questo passaggio dal marxismo della contraddizione al marxismo della dissimulazione e dell’astrazione, ovviamente, non è stato mai teorizzato in modo esplicito e consapevole, dallo stesso Marx. E’ un mio modo di estrarlo dall’opera e dai testi di Marx, mettendo Marx contro Marx e ponendo a principio della storia, complessa e travagliatissima, dei marxismi, l’autofraintendimento scientifico del padre fondatore.
I grandi pensatori, che scoprono territori nuovi, hanno spesso, come si sa,  una coscienza contraddittoria della loro originalità e si trovano a spiegare il nuovo secondo un linguaggio ancora inadeguato, che appartiene all’antico. Il caso più celebre è probabilmente quello di Freud che ha sempre voluto ricondurre e legittimare la sua scoperta dell’inconscio con i parametri della scienza classica, deterministica e quantitativa, della natura, mentre la sua opera teorica e clinica apriva un’ambito dell’esperienza umana, per la natura intrinsecamente dualistica ed ambivalente del movimento pulsionale, per nulla riducibile a canoni quantitativo-deterministici[1].
La stessa cosa, a mio avviso, è accaduta con Marx. Questi con il Capitale ha scoperto l’operare, per la prima volta nella storia dell’umanità, di un soggetto sociale non antropomorfo costituito da una ricchezza astratta, di natura solo quantitativa, non può che imporre all’intero processo di riproduzione della vita, individuale e collettiva, perché abbia un senso, l’obbligo della propria crescita; con  l’assimilazione di tutto ciò che di tale processo entra a far parte della sua logica di crescita della quantità e di estenuazione della qualità.
Solo che il Marx della maturità ha sempre frainteso e occultato, in primo luogo a se stesso, la scoperta di questa paradossale astrazione reale attraverso il linguaggio umanistico e antropologico della sua opera giovanile. Si può dire infatti – ma senza cadere nella rigidità di rotture epistemologiche troppo pesantemente strutturalistiche e logicistiche alla L. Althusser -, che vi siano essenzialmente due Marx: il Marx dell’alienazione e della contraddizione e il Marx dell’astrazione reale.
Il primo parte da quella che oggi si chiamerebbe una metafisica del soggetto, cioè dalla centralità di senso attribuita nell’ambito della natura  e della storia all’uomo produttore, che con la sua prassi (lavoro) sarebbe potenziale e incondizionato dominatore della natura e della storia e che invece per divisioni intestine al genere umano (divisione in classi) aliena la sua produttività in relazioni sociali che lo espropriano e lo limitano. E’ il Marx cioè che muove dalla bontà dell’homo faber, presupposto come soggetto così incondizionatamente ricco e pieno di valore che il suo svuotamento e la sua repressione (alienazione) non potranno che essere temporanei, non essendo né tollerabile né concepibile una mortificazione permanente di un principio così fondamentale di generazione e di produzione di vita. E da questo Marx è derivato il marxismo che, rinunciando a un’analisi realmente critica della tecnologia e dei processi di lavoro, ha sempre valorizzato la dimensione operosa e prometeica del lavoratore: il marxismo della sostanziale accettazione del modello di produzione e consumo imposto dallo sviluppo capitalistico, così come della fede negli automatismi della storia e nel necessario risolversi in positivo, a partire dalla potenza di quel soggetto presupposto, dei conflitti e delle contraddizioni.
L’altro Marx è quello delle opere della maturità, il quale, attraverso il Capitale, rende principio e oggetto del suo indagare, non un soggetto umanistico e la sua vicenda di alienazione-riappropriazione, ma il costruirsi a totalità sociale di una ricchezza astratta come quella del capitale e della sua inesauribile accumulazione: Il Marx cioè che rende tema prioritario del suo discorso il modo in cui nel tempo moderno una ricchezza astratta diventa il soggetto della riproduzione sociale complessiva, subordinando alla  logica quantitativa e impersonale della sua crescita l’intero mondo dei valori d’uso e delle concrete soggettività umane.
E’ il Marx che, come si è detto, fa categoria centrale della sua analisi non il lavoro ma l’uso della forza-lavoro e si trova, attraverso il concetto di sussunzione reale e lo studio delle trasformazioni tecnologiche legate al concetto di plusvalore relativo, a porre le basi per una teoria della macchina, non come cosa (di cui basterebbe cambiare l’uso per trovarsi in una nuova forma di società), bensì quale  sistema  macchina–forza-lavoro che vede sempre indissolubilmente connesse tipologia dell’automatismo meccanico e tipologia dell’erogazione di lavoro vivo. Da questo Marx è derivato il marxismo che, rinunciando a una visione positivistica e neutrale delle forze produttive, ha visto la produzione capitalistica svolgersi, durante le varie tappe della sua storia, secondo la varietà dei sistemi uomo-macchina e in cui ciò che è in gioco è sempre l’erogazione di lavoro astratto, cioè di lavoro ad alto grado di regolarità e di codificazione e come tale sostanza adeguata della ricchezza astratta del capitale. E’ il  marxismo appunto di una sociologia critica che indaga i sistemi macchine-forza-lavoro non secondo la categoria antropomorfa di divisione del lavoro – cui molto indulge lo stesso Marx e che torna a proporre una concezione della tecnologia come progressivo svuotamento e appropriazione da parte delle macchine di capacità e funzioni del soggetto umano[2] – bensì secondo i vari salti nell’organizzazione del processo di lavoro cui il capitale è costretto, oltre che dalla concorrenza esterna con gli altri capitali, da quella concorrenza decisiva interna che è il confronto con la forza-lavoro, al fine di ottenere erogazione di lavoro vivo a bassissima individuazione soggettivo-concreta e a forte normatività astratta.
Ma quest’ultimo Marx, come si diceva, va estrapolato e sottratto dalla curvatura umanistica del primo. Soprattutto va esplicitato e dedotto facendo forza dalla logica oggettiva del suo discorso messo in campo nei Grundrisse e nel Capitale e non, come si diceva, dalla consapevolezza soggettiva  e riflessa che lo stesso Marx della maturità mostra di continuare possederne, secondo modalità assai prossime e contigue alle tesi del suo umanesimo giovanile.

4.  Fine della grande fabbrica fordista e della produzione rigida mediante catena di montaggio, disseminazione sul territorio e autonomia flessibile dei diversi segmenti produttivi e soprattutto diffusione delle macchine informatiche con la messa in campo di un nuovo tipo di lavoro, da alcuni definito cognitivo, hanno diffuso tra molti da vari anni l’idea della possibile introduzione di elementi liberatori nel mondo della produzione capitalistica. La tecnologia informatica, si è detto, estingue tendenzialmente il lavoro manuale, con la sua rigida codificazione e ripetitività, e implica, per la natura dei suoi linguaggi e il suo modo di accumulare ed elaborare informazioni, un lavoro fondato sulla possibilità combinatoria della mente anziché sui movimenti del corpo e la loro continuità standardizzata. Con questo trascorrere nei processi di lavoro dal corpo alla mente giungerebbe a conclusione il moderno e avrebbe avuto inizio il postmoderno. Si sarebbe conclusa un’antropologia della dipendenza, connotata dalla fatica e dal confronto con il mondo materiale, per inaugurare un’antropologia creativa basata sull’uso dell’intelligenza e della conoscenza e sul confronto con un mondo di dati virtuali.
Ma chi indulge a questi teoremi sul carattere personalizzante e individualizzante del nuovo lavoro, sulla ripresa d’importanza del lavoro concreto e della capacità d’operare scelte sulle connessioni e le interdipendenze di segmenti, di unità produttive e di variazioni merceologiche che i nuovi sistemi produttivi del just in time mettono in campo – chi giunge a dire che la produzione è ormai sinonimo di comunicazione –  torna a rimuovere, a mio avviso, una teoria delle macchine quale “sistema macchine-forza-lavoro” e a cadere nel potente effetto feticistico che la macchina dell’informazione trascina con sé.
L’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente organizzato non è mai solo descrittiva ma è sempre anche prescrittiva; implica cioè un codice di senso predeterminato che obbliga la forza-lavoro in questione a muoversi secondo un contesto di possibilità già definite e strutturate. La caratteristica fondamentale delle nuove tecnologie è quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano. Questa mente artificiale vale come ampliamento di memoria, a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo, solo nel caso di attività private e ad alto contenuto di professionalità. Nel caso di processi lavorativi finalizzati alla produzione-circolazione di merci e di servizi di servizi funziona come mente esterna che sistema e accumula le informazioni secondo un codice che implica contemporaneamente schede o disposizioni predeterminate di lavoro, ossia modalità flessibili ma predeterminate d’intervento e di risposta da parte della mente del lavoratore non manuale. Certo non è più il corpo e la segmentazione tayloristica dei suoi movimenti ad essere in questione ma l’anima, la capacità di scelta, la coscienza del nuovo lavoratore mentale, la sua intelligenza sia come comprensione globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva. Ma proprio tutto ciò che finora veniva definito come la caratteristica più personale e non omologabile del soggetto umano entra ora in un campo di fungibilità interagente ma subalterna con la macchina dell’informazione. La quale per suo verso, accumulando quantità d’informazioni alfa-numeriche sulla base del linguaggio binario, riproduce il mondo reale secondo la riduzione e la semplificazione di una Gestalt, di una forma che è prevalentemente alfa-numerica: e che dunque pretende la cooperazione di una soggettività istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.
In questa prospettiva l’economia dell’informazione non va dunque letta secondo la classica dottrina marxiana del lavoro alienato, quale progressiva separazione di esecuzione e ideazione e quale dequalificazione di un lavoro perciò sempre più ridotto ad esecuzione di un progetto e di un comando altrui. La valorizzazione dei nuovi macchinari informatici richiede la valorizzazione proprio dell’opposto: della soggettività, della sua autonomia, di una sua maggiore qualificazione e ricchezza di conoscenze. Richiede quella flessibilità e mobilità del lavoratore, quella ricomposizione delle mansioni che nell’automatismo ininterrotto della fabbrica fordista e nel disciplinamento oggettivo della forza-lavoro che ne conseguiva era proprio il nemico costantemente da battere e da escludere. Valorizzazione della soggettività che peraltro ha potuto prendere anche la strada del toyotismo e della qualità totale, del lavoro cioè che giunge a prendere come oggetto se stesso, i suoi metodi, la sua organizzazione le sue insufficienze, per sortire da questa coscienza di sé e costante autoriflessività una maggiore intensità della propria prestazione. Ma dove appunto ciò che viene messo in gioco è un soggetto solo apparentemente autonomo e concreto, volontario e creativo, perché la sua pretesa individualità è invece l’esito di un processo di omologazione a competenze e forme del sapere  già fortemente astratte e codificate o di innovazione-riflessione creativa su un ambito di lavoro già fortemente stereotipato.
L’effetto feticistico di fondo della nuova organizzazione capitalistica del lavoro è dunque che un lavoro essenzialmente astratto assume le parvenze di un lavoro individualizzato e concreto, che la natura sostanzialmente autoritaria e determinata del processo di lavoro prenda la forma di un’autorganizzazione, presuntivamente ricca di variazioni e sperimentabilità.

5.    In una condizione non patologica e scissa dell’essere umano – qual’è certo non quella vissuta dalla forza-lavoro messa in opera dal capitale – il senso del vivere e dell’agire è dato fondamentalmente da una relazione, in cui il corporeo-emozionale, compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la fonte mai esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente: in una costituzione verticale del senso che s’integra con quella orizzontale derivante dal nesso del medesimo individuo con le altre soggettività[3]. Nel nuovo tipo di lavoro invece il sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una separazione radicale, opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della mente dal corpo: separazione che consegna la mente umana a una semantica decorporeizzata e anaffettiva. Del resto la sintassi del linguaggio informatico, costruita sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no, riproduce ed elabora il mondo della vita secondo una forma astratta, perché priva di contrasti e contraddizioni. L’esclusione cioè del sì dal no, che sta a basi della sintassi informatica, impedisce d’esprimere l’ambivalenza che strutturalmente connota l’esperienza emotiva e proprio per questo può essere principio di un mondo informatizzato il cui orizzonte è quello della certezza analitica, anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta. L’astrazione del nuovo lavoro mentale è perciò quella di una mente la cui attenzione e cura, astratta dal senso e dal fondamento della corporeità, è tutta assorbita da un universo di immagini e simboli alfa-numerici, attraverso la cui apparente neutralità ed oggettività si dispone il senso e il comando di un’organizzazione del processo produttivo volto, come sempre, alla valorizzazione.
L’astrazione reale del capitale svuota perciò di senso concreto la soggettività nel momento stesso che ne fa supposto principio di senso: e dunque lo svuotamento è, proprio nel suo stesso modo di realizzarsi, occultamento e dissimulazione di sé. Sulla scena rimangono così solo due attori: un nuovo lavoratore, la cui mente è predisposta a interiorizzare il comando eliminando ogni traccia esterna di costrizione, e una nuova macchina la cui natura linguistica ne farebbe per definizione un’alterità dialogica e collaborativa.
Del resto, nella più recente storia d’italia,  per creare le condizioni trascendentali di possibilità di tale scenografia non s’è esitato, prima con la collaborazione poi con la presa in carico diretta da parte della “sinistra” storica e istituzionale, di procedere all’opera di una progressiva e sistematica distruzione della scuola pubblica e di ogni orizzonte storicistico-umanistico della sua attività formativa. La nuova forza-lavoro mentale ha bisogno infatti di una formazione culturale di basso livello culturale storico-letterario-filosofico e di una maggiore esposizione pragmatico-linguistico-calcolante, come appunto vuole il modello educativo d’ispirazione anglo-americana.

6.  Questo numero di «Consecutio temporum» è dedicato in buona parte al ripensamento di temi marxiani. La scelta che ha compiuto la redazione è stata quella di mettere a confronto il paradigma dell’astrazione reale, che anima la nostra rivista fin dal suo primo numero, con altri paradigmi interpretativi dell’opera di Marx, che valessero ad esprimere, ancora una volta, la complessa sedimentazione e ricchezza di motivi dell’opera marxiana.
Nella sezione «Marxiana» pubblichiamo dei saggi di  E. Balibar, L. Basso, P. Macherey dedicati, rispettivamente, a testi dei «Deutsch-französische Jahrbücher» e all’antropologia socio-politica di Marx; mentre al Marx dei Grundrisse e del Capitale sono dedicati i saggi di R. Bellofiore, G. Sgro’, Z. Rodrigues Viera. All’althusserismo e all’itinerario di J. Rancière è rivolto il saggio di G. Campailla. Mentre J. Bidet ragiona sul capitalismo contemporaneo attraverso una discussione con G. Duménil.
Nella sezione «Storia delle idee», oltre a un saggio di S. Bracaletti che ha per oggetto il marxismo analitico, pubblichiamo dei saggi di F. Frosini, V. Morfino, T. Redolfi Riva sul marxismo di Gramsci, su Marx lettore di Spinoza e sulla connessione Adorno-Backhaus. Completano la sezione i due saggi di R. Evangelista e di G. Grassadonio rispettivamente su De Martino e L. Goldmann.
Al di là del riferimento più complessivo all’opera di Marx, il numero 5 di Consecutio temporum, annovera nella sezione «Freudiana» un saggio di M. Failla sul «Mosè» di Freud, nella sezione «L’anima e le forme» componimenti poetici di P. Pennesi, nella sezione Storia delle idee un saggio “teologico” di Cristoph Tuercke.
*Editoriale del n. 5 di Consecutio Temporum
[1] Sul tema dell’autofraintendimento di Freud cfr. J.Habermas, Conoscenza e interesse, tr.it. di G.E.Rusconi, Laterza, Bari 1970 [1968], II ed., ivi, Roma-Bari 1983.
[2] Cfr. su ciò G. Frison, Babbage e gli inganni del paradigma della divisione del lavoro, in «Quaderni di storia dell’economia politica», III, 1985, n.2, pp.49-79 e dello stesso autore Smith, Marx and Bechmann: division of labour, Technology and Innovation, in H-P. Müller – U.Troitzsch, Technologie zwischen Fortschritt und Tradition, Peter Lang, Frankfurt a.M.- New York 1992, pp.17-40.
[3] Su questo tema si cfr. A.B.Ferrari, L’eclissi del corpo. Un’ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1991.
 

Crisi, Saccomanni-Otelma pontifica sulla ripresa e si prende le pernacchie di consumatori e sindacati



"Le previsioni di Saccomanni sono analoghe a quelle del mago Otelma”. E’ particolarmente corrosiva la reazione di Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. I due presidenti di Adusbef e Federconsumatori contestano le valutazioni sulla prospettiva dello spread, che secondo il ministro dell’Economia dovrebbe attestarsi a 100 punti nel 2017. Come dargli torto?

Mentono sapendo di mentire
E’ da un po’ che Saccomanni si esercita nell’arte divinatoria. E prima di lui nell’ordine Draghi e Monti, che parlarono di una ripresa tra il 2012 e il 2013. E ora il Governo ci viene a raccontare che “quasi quasi” ce la facciamo, mancando di aggiungere, però, che serve ancora austerity e, soprattutto riforme. Peccato che l’austerity è, a questo punto, inversamente proporzionale alla ripresa economica. Questo dicono i numeri quando mettono in evidenza il ruolo determinante che potrebbe avere la ripresa dei consumi per l'aumento del Pil. Il quadro è complesso. E dentro c’è anche il ruolo della Germania e il contesto europeo. Ma i “professori” si guardano bene dal sondare questi fattori in tutti i suoi aspetti. E così si torna a battere il tasto di una inversione di tendenza del pil, che dal meno 1,8% a chiusura del 2013, dovrebbe crescere dell’1%. Insufficiente per tutto, quindi, per l’occupazione, per i redditi e per la riapertura dei rubinetti del credito.

Il vero obiettivo del Governo? Il costo del lavoro
Perché Saccomanni si mette sotto i piedi quel minimo di credibilità vestendo i panni del mago Otelma? Semplice, perché deve creare il “clima giusto” per andare avanti su riforme e austerity. Il vero obiettivo è il costo del lavoro che deve scendere di una misura tra il 20 e il 30% rispetto all’inizio della crisi. Fino ad ora il “lavoro sporco” è stato fatto a metà. E allora bisogna usare i soliti “totem” per spingere gli italiani alla mattanza. E uno di questi è sicuramente lo spread. "Se il ministro dell'Economia e' sicuro di una riduzione cosi' importante dello spread per la tenuta dei conti pubblici, perche' non le ha inserite nel Def", si domandano Lannutti e Trefiletti. "Siamo addolorati, ed anche un po' stufi - aggiungono - di non poter condividere l'ottimismo profuso a piene mani dal ministro dell'Economia, sia sulla ripresa economica e l'uscita dal tunnel della crisi, con i poveri raddoppiati a quasi cinque milioni, che su una legge di stabilita' che stabilizza gli esclusivi interessi delle banche senza tagliare la pressione fiscale, le cui annesse tabelle indicano 7,2 miliardi di nuove impostee solo 4,2 miliardi di minori spese, quindi 3 miliardi di tasse in piu'". "Adusbef e Federconsumatori - concludono - che non vedono alcuna uscita dell'Italia dal tunnel della crisi, nonostante si tenda a propinare ottimismo con la celebrazione odierna della 'giornata del risparmio' che non c'e' piu', erosa da tasse, aumenti e balzelli, pronte a rivedere le proprie posizioni quando si invertira' il trend negativo dei disoccupati, con i drammatici dati del 40% dei giovani che non trovano lavoro costretti ad emigrare in terre lontane, come i loro bisnonni".
Arriva la ripresa!
Industria ai minimi di redditività
Del resto, l'industria italiana si trova ai minimi storici per redditivita': il margine operativo lordo (Mol) quest'anno sara' mediamente del 6,7%, la redditivita' della gestione caratteristica (Roi) e' al 3,3%, la redditivita' del capitale proprio (Roe) si trova all'1,3% medio. Questo dicono i dati del rapporto sui settori industriali di Prometeia e Intesa Sanpaolo, basato su un campione di imprese manifatturiere. Ma non è finita qui perché nel quadro europeo, come racconta il Wsj, c’è una situazione per cui l’alto grado di sviluppo della Germania, basato quasi interamente sulle esportazioni, sta compromettendo fortemente le performance economiche degli altri paesi. Come se non bastasse, l’euro forte sul dollaro praticamente non fa altro che bruciare tutti i piccoli vantaggi conquistati sull’arretramento dello spread. Questo bisognerebbe rispondere ad Otelma-Saccomanni. E bisognerebbe anche ricordargli che il nodo del credito potrebbe anche aggravarsi con l’entrata in vigore della supervisione della Banca centrale europea che intende introdurre parametri uguali, se non più stringenti, a quelli di Ginevra 3.
Sindacati scettici
Ergo, tutti gli incrementi di produttività, e quindi di ricchezza, ammesso che si riescano a concretizzare, verranno impiegati per ridurre i debiti e non per mettersi nel solco della ripresa. "Non ci si puo' che augurare che ci sia la ripresa nel 2014, ma mi pare difficile dire che sia gia' in corso nel 2013", basta guardare "ai dati sulla disoccupazione e sulla cig che continuano ad aumentare e agli indicatori del reddito che continuano a scendere", dice il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, commentando anche lei le affermazioni del ministro dell'Economia. "La ripresa - sottolinea – si chiama lavoro e aumento dell'attivita' produttiva".
Secondo il leader della Uil Angeletti, anche ammesso che l'economia italiana si avvii verso la ripresa, il ministro dell'Economia "ha deciso che saltiamo una generazione e mezza prima di avere una ripresa dei posti di lavoro”. "Dal punto di vista sociale ne riparliamo tra cinque-sei anni".

Matteo Renzi, novello campione di populismo italico, tra Berlusconi e Catalano di Luigi Pandolfi, huffingtonpost.it

Il termine populismo può indicare tante cose e non sempre, nel linguaggio della politica, se ne fa un uso corretto. Ma in questa sede, per ovvie ragioni, non possiamo permetterci digressioni sul suo significato storico-politologico. Dobbiamo parlare di Matteo Renzi, mica dei massimi sistemi.
Non c'è dubbio che c'è una versione semantica della parola populismo che si addice molto al profilo del sindaco di Firenze, ed è quella della vulgata: populista è colui che dice ciò che il popolo vuole sentirsi dire.
Grande maestro di questa scuola politica è stato negli ultimi vent'anni Silvio Berlusconi, il cui successo, per niente offuscato dalle vicissitudini giudiziarie, non è misurabile con i risultati (pari a zero) della sua azione di governo, ma col numero di discepoli che ha messo al mondo. Una pletora, ormai, di leader e leaderini, che hanno dimostrato una destrezza invidiabile nel metabolizzarne la lezione.
Facciamo qualche esempio per capirci. C'è qualcosa che accomuna l'allegoria berlusconiana del "teatrino della politica" e la "rottamazione" di Renzi? E queste due figure retoriche hanno qualcosa in comune con il "tutti a casa" di Beppe Grillo? Si, evidentemente. Tutte e tre le espressioni rimandano ad un unico concetto: c'è la casta e c'è il popolo, da un lato il privilegio, l'inconcludenza e il carrierismo, dall'altro il duro lavoro, il fare, spesso la precarietà, la sofferenza, la normalità. Che poi, nel caso di Renzi, stiamo parlando di un "ragazzo" di 38 anni che nelle istituzioni c'è da quando ne aveva 28, poco importa. E poco importa che da sindaco di una grande città dedichi gran parte del suo tempo alla "politica" invece che ai problemi dei suoi concittadini (Una volta eletto segretario si dimetterà da sindaco di Firenze?). D'altronde la casta per antonomasia sta a Roma. Lo diceva anche Bossi, che in quanto a vena populista era un campione pure lui.
E così, se Berlusconi vent'anni fa esordiva con il memorabile "per un nuovo miracolo italiano", Renzi oggi rilancia con la "rivoluzione della semplicità". Ieri il "non metteremo le mani nelle tasche dei cittadini", oggi il "non si metta mano ai soldi delle vecchiette". Ecco, il cittadino e la vecchietta da un lato, lo Stato predatore dall'altro. Una dicotomia collaudata, almeno dai tempi del Pasquino. O forse da molto più tempo ancora, se pensiamo solamente alla genialità di un Aristofane.
I populisti sovente cambiano idea. Devono cambiare idea, sovente. Per stare al passo coi pensieri del popolo, spesso per esigenze tattiche ovvero per necessità di ricollocazione. Berlusconi è stato un campione in tale arte. Renzi non è da meno. Prendiamo proprio il suo cavallo di battaglia, la "rottamazione". Pensavamo tutti di averne inteso il significato. Peraltro lui era stato molto chiaro: rottamazione significava mandare in pensione tutta la nomenclatura del partito che "stava lì da 20-30 anni". Oggi che tanti dei rottamandi sono saliti sul suo carro, dalle periferie fino a Roma, il sindaco ci ha tenuto a precisare: "Ho un unico rammarico: non aver spiegato a sufficienza che la rottamazione non è solo il sacrosanto ricambio generazionale. Quello di cui l'Italia ha bisogno non è cambiare tutto ma cambiare tutti". Capito? La rottamazione non è quella di prima, o quello che si era capito prima, ma "cambiare" tutti dentro, intimamente. Dalla ramazza alla catarsi dell'anima, insomma.
In compenso il Renzi nazionale ha tirato fuori un'altra metafora che ben sostituisce quella della rottamazione: quella del caterpillar. Il caterpillar evoca la forza, il coraggio, il fare tabula rasa di ingiustizie e cose che non vanno. È una macchina "rivoluzionaria" , mica un arnese "riformista" o "moderato", butta giù tutto, senza mediazioni di sorta. Perché l'Italia "ha bisogno di una rivoluzione", di cambiamenti epocali, non di mezze misure.
Le cose si complicano però quando dalla metafora si passa alla realtà. In cosa consisterebbe questa rivoluzione? Quali i suoi punti cardine? A sentirlo parlare, ma soprattutto leggendo il suo programma, più che idee incendiarie si raccolgono solo banalità e concetti già sfruttati da altri in questi anni, a cominciare proprio da Berlusconi. Meno tasse (La riduzione del cuneo fiscale di Letta vale 5 miliardi? Facciamo 20, abbondiamo!), meno stato, più lavoro per i giovani, contratti più flessibili, qualche contributo di solidarietà da parte di chi è più fortunato, ecc. ecc. In tutto il documento congressuale, poi, non è mai citata la parola "precarietà", men che meno si parla di discriminazioni su base sessuale e di genere, del dramma dei migranti, della povertà dilagante.
La chicca più forte, dentro questo documento, è data invece dal modo in cui viene affrontato il tema dell'Europa e dell'austerità. Prima si usano parole dure contro il rigore, contro il "ce lo chiede l'Europa", poi si dice che l'Italia ha il dovere di rimettere a posto i conti ("Non perché ce lo chiede l'Europa, ma per i nostri figli"), indicando in ciò una priorità. E così, da un lato si afferma che "i conti non sono un fine in sé", dall'altro che il risanamento è un priorità "sacrosanta"; che il rigore serve, ma servono anche gli investimenti per la crescita. Un colpo al cerchio ed uno alla botte, insomma. Come quando, ad esempio, si parla del ruolo del sindacato: "La funzione insostituibile del sindacato va difesa dagli eccessi". Grandioso, un capolavoro di cerchiobottismo!
E il partito? Come lo vuole il partito Renzi? "Il Pd deve essere un luogo bello per la formazione politica", c'è scritto nel documento. Si avete letto bene: "un luogo bello". Dopo il partito di massa novecentesco e quello di plastica di questi anni arriverà finalmente il momento del "partito-luogo bello". Cos'è? Un partito "che ti dà del tu". Non ci crederete, ma anche questo c'è scritto. E non è finita. Il partito che sogna Renzi è per il bipolarismo, quello "gentile" però, ci tiene a precisarlo. E per la legge elettorale dice di preferirne una che "faccia sapere subito chi ha vinto e chi ha perso" anziché una che non garantisce risultati elettorali chiari. Ricordate il mitico Massimo Catalano? Uguale: "È molto meglio essere giovani, belli, ricchi e in buona salute, piuttosto che essere vecchi, brutti, poveri e malati".
Ci sarebbe da ridere, insomma. Ma la questione è seria per due motivi: perché dal berlusconismo si rischia di uscire (sic!) per il tramite di una nuova scorciatoia populista; perché battendo la strada della banalità, del cosiddetto buon senso, soprattutto per quanto riguarda i temi sociali, si finisce sempre per sbucare a destra. È storia, c'è poco da fare. Renzi, peraltro, ne è così consapevole da averlo perfino rivendicato, con tanto di sottigliezza retorica: "La sinistra che non cambia è di destra". Domanda: e quella che cambia per acchiappare i voti della destra, secondo lo schema che lui ha in testa, cosa diventa?
Mala tempora currunt...

mercoledì 30 ottobre 2013

Grillo, confessione agli eletti 5 Stelle "Impeachment Napolitano? Finzione"

"Siamo populisti, non dobbiamo vergognarci. Se andiamo verso una deriva a sinistra siamo rovinati"

Il Fatto pubblica in esclusiva la conversazione tra il leader del Movimento 5 Stelle e i 'suoi' deputati, avvenuta martedì. Per lui, l'emendamento del senatore Buccarella contro il reato di clandestinità ha fatto "perdere voti a iosa. Sul blog abbiamo raddrizzato la situazione, se andiamo a sinistra siamo rovinati". E sul Capo dello Stato dice: "Non possiamo dire ha tradito la Costituzione. Però diamo una direttiva precisa contro chi non rappresenta più tutti gli italiani"  di Martina Castigliani, Il Fatto Quotidiano


“Non dobbiamo vergognarci di essere populisti. L’impeachment ad esempio, è una finzione politica per far capire da che parte stiamo”. Beppe Grillo parla ai suoi in un’aula della Camera. È una conversazione che nessuno conosce, quella che il Fatto ha in esclusiva, tra il leader e i deputati. Lui, il grande capo, in piedi, spalle al muro, la voce pacata e i toni concilianti. Gesticola, ride poco e dà pacche sulle spalle. E parla. “Sono qui per sostenervi”. Non alza mai la voce. Il Grillo a porte chiuse non è nemmeno parente del comico sul palco, quello che urla e lancia parole come spade. C’è da spiegare la scomunica ai senatori Cioffi e Buccarella, colpevoli di aver presentato un emendamento per abolire il reato di immigrazione clandestina. C’è da spiegare chi comanda. Che non è lui, ma il Movimento. Perché forse gli eletti se lo sono dimenticati, ma i voti vengono dal basso e seguono le emozioni: “Con la presentazione dell’emendamento per abolire il reato di immigrazione clandestina, abbiamo perso voti a iosa. Il post del blog, forse un po’ duro, siamo stati costretti a farlo”.
Una decisione obbligata per evitare di perdere troppi voti: “Noi parliamo alla pancia della gente. Siamo populisti veri. Non dobbiamo mica vergognarci. Quelli che ci giudicano hanno bisogno di situazioni chiare. Ad esempio prendete l’impeachment di Napolitano. Molti di voi forse non sono d’accordo, lo capisco. Ma è una finzione politica. E basta. Non possiamo dire che ha tradito la Costituzione. Però diamo una direttiva precisa contro una persona che non rappresenta più la totalità degli italiani. Noi siamo la pancia della gente”. Perché il rischio era molto grosso: “Abbiamo raddrizzato la situazione, siamo stati violenti per far capire alla gente. Se andiamo verso una deriva a sinistra siamo rovinati”.
Gli errori, “l’andazzo” e i sondaggi mai visti - Lo ascoltano, affollati come sotto il palco, ma questa volta Grillo parla a volto scoperto e dice di capire. “Questa cosa non deve più accadere. C’è stato un errore di comunicazione. È brutto. Perché l’emendamento è stato un mese lì e non ne sapevamo nulla. Io posso darvi un parere, ma non devo decidere io. Però avreste dovuto avvisare”. Qualcuno risponde: “Dobbiamo prendere decisioni in poco tempo, a volte è difficile”. Ma Grillo dice di sapere già tutto: “Per questo abbiamo presentato l’applicazione per la partecipazione diretta. Così quando c’è qualche proposta che non avevamo nel programma, la mettiamo online e vediamo l’andazzo”. Ai suoi Grillo dice di aver fatto un sondaggio online: il 75% ha votato per mantenere il reato di immigrazione clandestina. Qualcuno scuote la testa: “Non l’abbiamo mai visto”. Ma oltre le giustificazioni il leader ripete come un ritornello che il potere resta alla maggioranza: se il Movimento vuole riformare la Bossi-Fini si voterà su quello. E così sullo ius soli: “Vorrei che fossimo uniti. Stanno sfruttando il tema per fini elettorali. Siamo tutti convinti che lo ius soli vada bene, ma con certi paletti”.
I deputati sono spiazzati. Lo guardano in piedi con le mani sudate per cercare di dire ad alta voce i malumori covati per giorni. Ma Grillo è comprensivo e i dissidenti non osano parlare. Qualcuno trova il coraggio di chiedere più chiarimenti. Giulia Sarti, subito fermata da Roberto Fico e Carla Ruocco. Poi Silvia Chimienti: “A me questa cosa dei voti lascia perplessa. Bastava spiegare alle persone che era una cosa di buon senso”. Qualcuno azzarda: “Non è che per non finire nell’ala di sinistra scivoliamo a destra? Restiamo oggettivi. Alza la mano Stefano Vignaroli: “Prima non era così. Andavamo sul palco e ci dicevi di parlare delle cose che ci appassionano”. Grillo risponde a tutto: “Io lo so cosa vi ha dato fastidio, la frasetta dell’articolo dove si diceva che con posizioni come quella sull’immigrazione avremmo preso risultati da prefisso telefonico. Lo so, ma dovete capire che il Movimento sono 9 milioni di persone che ci hanno votato”. I brusii crescono quando si passa alle questioni pratiche. Se per ogni difficoltà bisogna chiedere l’autorizzazione e il parere dall’alto, si perde troppo tempo. “Tanto vale allora astenersi su tutto”, dice Luigi Gallo. Così Girolamo Pisano: “Io chiedo, vale più un ragionamento fatto da 100 persone su base di dati tecnici. O un’opinione di Grillo e Casaleggio?”. E su questo il leader sbotta.
Parlano da oltre un’ora e il punto è sempre quello: “L’opinione è del Movimento. Abbiamo 9 milioni di persone che ci hanno dato il voto su un programma. Noi siamo le punte delle persone. Io sono per il dialogo sempre. Non datemi dei super poteri. Non ne ho. Io mi sento in imbarazzo. Ne sapete molto più di me. La prossima settimana viene qui Casaleggio e parlerete con lui. Verrà un giorno o due alla settimana. Si alternerà con me”.
I post, il residence e la penale anti-traditori - Grillo la pazienza la perde sul finale. Gli chiedono di avvisare prima di scrivere un post sul blog contro una persona. Chiedono di ricevere un avviso. “Ma così si crea un canale preferenziale con ognuno. Poi io non vivo più. Ad esempio la settimana scorsa ho chiesto, ci incontriamo in un residence per parlare? Voi l’avete messa ai voti. Così abbiamo fatto una figura di merda. La notizia l’avete creata voi. Bastava non fare nulla. Chi voleva venire veniva”. Si rabbuia un attimo, ma subito torna a incoraggiarli. “Avete fatto un miracolo. Pensate al futuro adesso. È nostro. Questi politici sono finiti. State facendo grandi cose. Adesso io e Casaleggio scenderemo più spesso, perché bisogna alzare delle barriere di protezione. Tutti cercano di salire sul nostro carro. Non possiamo permettere di farci corrodere il lavoro. Per le elezioni locali, faremo firmare una cosa che se cambi il partito paghi una penale”. Ci sono le regionali in Basilicata e le europee nel programma del leader. Nessun accenno al voto anticipato. A porte chiuse la campagna elettorale può aspettare.