venerdì 29 novembre 2013

Come nacque la Berlusconomics di Tonino Perna, Il Manifesto




Alla fine degli anni '70 del secolo scorso arrivò al potere negli Usa un modesto attore di film western che divenne lo strumento con cui la grande finanza e le imprese multinazionali riuscirono in pochi anni a creare un altro modello economico: la Reaganomics. Non era un modello originale, ma l'estremizzazione di categorie rimaste confinate nel dibattito accademico. Negli anni '70, infatti, scricchiolava e perdeva prestigio l'economia neokeynesiana per gli effetti della stagflazione, una crescita significativa dell'inflazione accompagnata a bassa crescita o stagnazione, unitamente ad un alto livello di disoccupazione.

Questo fenomeno metteva in difficoltà gli economisti: un tasso sostenuto di inflazione si era storicamente accompagnato alla crescita economica (eccetto i casi di iperinflazione) , allo stesso modo in cui la stagnazione economica era storicamente correlata ad una caduta dei prezzi. In sostanza, il mercato capitalistico non rispondeva più alle leggi della domanda e dell'offerta, per cui in presenza di un alto tasso di disoccupazione e crescita zero si doveva assistere ad un abbassamento del livello salariale, tale da permettere al sistema economico di riprendersi e riassorbire, nel medio-lungo periodo, una parte rilevante dei disoccupati.

Keynes negli anni '30 aveva spiegato bene che i salari hanno una rigidità verso il basso dovuto a quella che lui definiva "l'illusione monetaria", determinata per altro dalla presenza di forti organizzazioni sindacali. E proprio queste negli anni '70 avevano determinato in tutto l'Occidente ondate di lotte sociali, dentro e fuori le fabbriche, che avevano portato a netti miglioramenti nel tenore di vita dei lavoratori.

Il sistema aveva retto finché non si era arrivati ad un alto livello di sovrapproduzione alla fine degli anni '70. Ed è questo il momento in cui entra in scena Ronald Reagan che sposa la politica economica della scuola di Chicago di Milton Friedman, che individuava nell'eccesso di spesa sociale, di fisco punitivo per i redditi alti, di mercato del lavoro "rigido", le cause della crisi. La terapia, pertanto, consisteva nel ridurre drasticamente le aliquote per i profitti ed i redditi alti, liberalizzare i movimenti di capitali, in un quadro di decentramento produttivo che portò in un decennio ad uno spostamento dell'industria manifatturiera statunitense fuori dal paese, indebolendo il momento sindacale ed il potere contrattuale dei lavoratori.

Se osserviamo la distribuzione del reddito negli Usa nel periodo 1950/1978 , divisa per quintili, vediamo che il quinto più povero della popolazione aveva aumentato il reddito reale del 140%, il quinto più ricco del 99%. Di contro nel periodo 1978-1993, con l'avvento della Reaganomics, il quinto più povero perde il 19% mentre il quinto più ricco guadagna il 18% in termini reali. Il cambiamento di rotta era stato netto. Per l'Italia questa inversione di tendenza arriva all'inizio degli anni '90, con la crisi del '92, la svalutazione del 30% della lira e l'indebolimento del movimento dei lavoratori.

E' in questo contesto che bisogna inquadrare l'arrivo di Berlusconi al potere. Lui era un parvenu, che aveva fatto una grande fortuna in pochi anni grazie ai legami con il potere politico (Craxi) e le negoziazioni con le organizzazioni criminali (mafia siciliana). Era un nuovo tipo di borghese, che assomigliava tanto a quella "classe agiata" analizzata da Veblen, ignorante ed ingorda, ambiziosa e arrivista senza scrupoli morali, degli States alla fine del XIX secolo. Ed anche un nuovo tipo di imprenditore che aveva fatto la sua fortuna, non nella tradizionale industria manifatturiera, ma con i nuovi mezzi di comunicazione (la tv privata) dove economia, spettacolo ed ideologia, si intrecciano. La vecchia borghesia italiana, le grandi famiglie degli Agnelli, Pirelli, Costa, ecc., il salotto "buono" di Cuccia, all'inizio lo sottovalutarono o lo snobbarono, ma in pochi anni dovettero venire a patti con il nuovo padrone.

Berlusconi portava avanti con la sua forza comunicativa e con i potenti mezzi di cui disponeva un nuovo credo: il denaro crea l'onore e la stima sociale, indipendentemente da come si è arrivati a possederlo. Non bisogna più vergognarsi di essere ricchi, anzi bisogna sfoggiare la ricchezza, e la ricchezza individuale è alla portata di tutti quelli che sono capaci "i vincenti", e fa bene a tutto il paese perché genera nuovi consumi e posti di lavoro. In questa visione della realtà sociale, lo Stato diventa un parassita che va drasticamente ridotto, ma allo stesso tempo è la fonte di extraprofitti, che solo la mano pubblica può offrire. Questa nuova ideologia offriva una legittimazione politica a quel sentimento antistatale così diffuso nel nostro paese, unitamente al bisogno di trovare quel salvatore della patria, l'uomo della Provvidenza, che gli italiani continuano a sognare ciclicamente. Da qui la corsa verso un aumento del debito pubblico, unico strumento che permetteva contemporaneamente una grande evasione dei ceti medio-alti e un po' di assistenza per mantenere il consenso, nonché il finanziamento delle Grandi Opere per garantire il cerchio magico dei Grandi Affari.

Il Cavaliere non ha abbassato le imposte, come aveva fatto Reagan per il ceto medio-alto, non ha smantellato bruscamente lo Sato sociale, come avevano fatto la coppia Tacher-Reagan, ma è riuscito a ridurre progressivamente lo Stato sociale ed i diritti, all'interno di un quadro di illegalità diffusa e capillare. Qui sta la profonda differenza con la Reaganomics, la versione berlusconiana del neoliberismo che si sposa con la via criminale al capitalismo. Negli States e nell'Inghilterra, l'ideologia neoliberista è passata attraverso le leggi e l'imposizione/repressione di uno Stato forte, la via italiana al neoliberismo è transitata dolcemente attraverso regole non scritte, uno smantellamento progressivo dello Stato di diritto, un'autostrada che è stata offerta alla borghesia criminale emergente.

La Berlusconomics è così diventata un modello sociale in cui il denaro si legittima da sé, la corruzione è la norma per fare affari, l'evasione fiscale un dovere per sottrarsi al furto di risorse da parte di uno Stato rapinatore e sciupone. E se dopo vent'anni, decine di scandali e frodi i sondaggi lo danno ancora come uno dei leader più forti è perché una parte degli italiani, che oserei stimare in oltre un terzo, condivide, pratica ed ha interiorizzato quel modello. Chi conosce dal di dentro il mondo delle imprese sa che sono rarissime le gare d'appalto che si vincono per meriti, senza pagare una "tangente" o aver negoziato uno scambio di favori. Chi conosce il mondo della piccola impresa sa quanto è diffuso il lavoro nero perché in questo paese la gran parte degli ispettori del lavoro sono corrotti o indulgenti. Chi conosce il mondo dei professionisti- avvocati, commercialisti, consulenti finanziari- sa come il loro reddito dipende in buona parte dalla capacità di aggirare le norme, di evadere le tasse, esportare i capitali nei paradisi fiscali.

C'è anche un rovescio della medaglia. Per chi vuole vivere nella legalità, il carico fiscale, soprattutto sulla piccola e media impresa, è diventato insopportabile. Nelle microimprese, artigianali o commerciali, se si rispettassero tutte le norme la gran parte potrebbe chiudere i battenti. Per chi subisce un torto e spera nella giustizia civile rischia di fallire prima che si concluda un processo. Per chi commette un reato penale, se non è amico della Cancellieri, rischia di restare in attesa di giudizio per anni.
Questo sfascio istituzionalizzato non ha fatto altro che far crescere la massa di coloro che si sono identificati, per rabbia o per necessità, nella Berlusconomics. Il sistema si è autoalimentato finché non è scoppiata la crisi finanziaria che si è riverberata sull'economia reale, ed il modello è andato in tilt. Ma, la Berlusconomics ha messo ormai radici profonde nel nostro paese e sarà difficile sradicarle nel medio periodo.

Il rischio è che chi verrà dopo di lui, faccia quello che hanno fatto Clinton o Blair: mantenere sostanzialmente il modello, spuntando solo le parti più indigeste. Il nostro Clinton è giovane e belloccio come Bill quando arrivò al potere, e come lui un buon comunicatore a trecentosessanta gradi, per piacere a tutti. Clinton non è riuscito a fare la riforma sanitaria e un fisco progressivo- come aveva promesso in campagna elettorale- ma ci ha regalato nel 1994 la liberazione della finanza, abrogando i vincoli creati da Roosevelt per impedire che si ripetesse il crac del '29. Da meno di 100 miliardi di derivati finanziari del 1994 si è passati ai 600.000 miliardi di dollari del 2007, ed ai 650mila di oggi. Vediamo cosa sarà capace di fare il nostro Fonzie e gli amici finanzieri che lo sostengono.

giovedì 28 novembre 2013

Papa Francesco dacce er via… di Fabio Marcelli, Il Fatto Quotidiano

“D’Onofrio dacce er via”, gridavano gli operai e i popolani romani il 14 luglio del 1948, dopo l’attentato a Togliatti, quando una marea umana di lavoratori invase le piazze centrali di Roma. Alla rabbia contro il tentativo di uccidere il leader riconosciuto del popolo italiano si univano una forte coscienza di classe e il desiderio di una società nuova, senza discriminazioni e basata su di un’effettiva giustizia sociale e partecipazione democratica. Ne era scaturita, sei mesi prima, la Costituzione repubblicana che oggi, a sessantacinque anni di distanza, dobbiamo continuare a difendere contro il potere finanziario multinazionale e i suoi esecutori, come il tristo Letta e la sua banda bipartisan.
D’Onofrio era uno dei tanti, all’epoca, dirigenti popolari, comunisti, socialisti o di altra estrazione, che le masse amavano e riconoscevano come propri leader naturali. Gente come Sandro Pertini, Enrico Berlinguer e Giancarlo Pajetta. Oggi ci mancano fortemente. Il loro posto pare occupato da mediocri personaggi come, bene che vada, Massimo D’Alema o Gianni Cuperlo o Vendola che si prostra di fronte al faccendiere e corruttore Archinà. Mentre il presunto vincente Renzi pare destinato a suscitare, tutt’al più, l’entusiasmo di qualche finanziere neanche di prima scelta. O tempora o mores!
Ma nel vuoto pneumatico di quella che fu la sinistra più forte dell’Occidente resta forte il desiderio di un’alternativa. E appare consolante la dottrina espressa da un uomo di Chiesa, la cui storia e i cui presupposti ideologici non sono per nulla di sinistra. Ma la cui profonda e indiscutibile onestà intellettuale si somma a una ricerca di verità e di giustizia che si spinge ad attingere alimento alle basi stesse del discorso cristiano. 
Papa Francesco non le manda a dire. Nella sua recente enciclica “Evangelii Gaudium” possiamo leggere affermazioni come quelle che seguono: “Così come il comandamento ‘non uccidere’ pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire ‘no a un’economia dell’esclusione e della inequità’. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’”. 
Un quadro indiscutibilmente esatto di quello che è diventato la nostra società. In Italia come in altri Paesi. Francesco svolge una critica puntuale e approfondita dello stato di cose esistente. Non si può certo pretendere che dia anche i mezzi per la soluzione dei problemi, anche se la Chiesa è molte volte in prima fila nell’erogazione dei servizi e nell’approntamento di risposte concrete all’emarginazione sociale. La soluzione sta in mano a ciascuno di noi.
La sinistra che dobbiamo ricostruire non può peraltro certo prescindere dai contenuti di questo messaggio. Cristiano si proclamava anche il grande comandante Chavez, che fra i suoi numerosi meriti ha avuto quello di riaprire, a meno di dieci anni dal crollo del muro di Berlino, fenomeno in buona misura inevitabile, il discorso dell’alternativa e del socialismo.
Sarà ineluttabile l’avanzamento, sui rottami dell’attuale sistema economico, politico e sociale, di un discorso di questo tipo. Che parte dalla necessità di riaffermare valori, diritti e bisogni degli esseri umani contro la disumana ideologia della finanza e del mercato. L’unico antidoto possibile ai populismi di destra, dal tentativo di Berlusconi di riciclarsi come antisistema, a fascisti, nazisti, razzisti, leghisti e altra monnezza, a discorsi ambigui come a volte quelli di Grillo. Per costruire un’alternativa che sia reale e non solo fumo negli occhi nei fessi una larga convergenza con il discorso abbozzato nell’Enciclica diventa naturale. Grazie, Papa Francesco, per questa boccata di aria pura. Faremo tesoro del tuo insegnamento noi tutti che non ci rassegniamo alla disumanizzazione implicita nel sistema dominante. E non siamo certo pochi, anzi siamo la grande maggioranza.

La priorità dell'ambiente di Simone Cumbo, Umbrialeft.it

  La corsa alla segretaria del PD vede, da parte di tutti i tre contendenti, un attenzione molto forte verso le tematiche ambientali e verso la tutela del territorio. Come successe a margine dell'incidente di Fukushima in Giappone, davanti a catastrofi ambientali, la politica riscopre l'ambiente decantando le virtù della protezione del paesaggio, dello stop al consumo del suolo e della prevenzione ambientale...
Passi per Civati, che non è sostenuto dall'apparato diessino, ma Renzi e Cuperlo conoscono le Regioni dal PD amministrate?
In Liguria, governata dal centrosinistra ed a cui capo c'è il diessino renziano Claudio Burlando, il  cemento e le politiche del mattone, hanno invaso tutta la regione costruendo attracchi turistici in ogni insenatura!
Ma anche in Umbria non mancano le criticità.  L'autostrada Orte-Mestre sostenuta con forza da Pd e Pdl, porterà colate di cemento inutile e dannoso, con un esborso di denaro pubblico  di 10 miliardi di euro favorendo il deprecabile business delle concessioni autostradali e le cricche di appaltopoli: la cordata guidata dalla GEFIP Holding dell’europarlamentare PdL Vito Bonsignore  che punta, con questa operazione, a diventare il terzo polo autostradale d’Italia!
Ed anche nelle città la situazione non è certo migliore.  Perugia con la cementificazione di campi sportivi, Foligno con le torri «americane», Città di Castello con continue varianti al PRG che promuovono zone agricole in edificabili...la politica del mattone non sembra sia messa in discussione. Salvo poi, in prossimità di alluvioni e/o disastri ambientali, gridare alla tutela de territorio...
Ed invece c'è bisogno di un piano vero ed efficace di riconversione ecologica...che stanzi miliardi, non per inutili opere, ma per dare lavoro risistemando le città. Mettendole in sicurezza, rendendole energeticamente efficienti.  Valorizzando i centri storici, renderli vivi e vitali, studiare Piani Regolatori a misura di bambini dove la mobilità sia sostenibile...
E su questo, anche su questo, che una moderna Sinistra deve trovare «linfa» e la propria ragione d' essere.
“La vita urbana è la forma centrale dell'attivismo politico ed è la portatrice di una potenziale rivoluzione”, ha scritto il geografo David Harvey, tra i più ascoltati intellettuali marxisti nel mondo. 
E non si può che essere d'accordo...

Bisce e demagogia di Alberto Burgio, Il Manifesto



La stroncatura è sacrosanta. «Sgangherata» l’ancora per poco segretario del Pd ha definito l’ultima esternazione di Berlusconi e in specie la sparata più fragorosa, quella stravagante denuncia del colpo di Stato che i senatori avrebbero (hanno) posto in atto decretando la sua decadenza da parlamentare. La reazione è irreprensibile. Oggi il preteso colpo di Stato, ieri i suoi potenti rampolli paragonati agli ebrei perseguitati nella Germania di Hitler, l’altroieri gli elogi a Mussolini, tiranno benevolo e impotente, e le invettive contro il kapò di Strasburgo. Ci mancherebbe che non si rispedisse al mittente ogni porcheria in forma di parole.
Il nostro povero paese deve averne di colpe per meritarsi la maledizione di dover fare i conti pressoché ogni giorno da vent’anni col padrone della destra e la sua sterminata corte di lacchè.
Detto questo, possiamo con ciò dirci soddisfatti e archiviare senz’altro l’ultima boutade in attesa della prossima? Fare sempre di nuovo punto e a capo, come se la questione fosse il grado di correttezza istituzionale o di razionalità delle corbellerie berlusconiane? Il problema è un altro. Riguarda un corollario implicito in questo inarrestabile flusso di aggressioni verbali alla verità e al buon senso. Un corollario che concerne le parole della politica, l’uso del linguaggio e l’intossicazione delle menti che, passo dopo passo, viene contaminando la società, inquinando il discorso pubblico, corrompendo il sentimento civile, soffocando sul nascere la capacità di discernere e indignarsi.
Berlusconi, come ognun sa, non è né stupido né pazzo, per quanto la vertiginosa caduta possa offuscargli la mente. Grande comunicatore, esperto demagogo, è consapevole che tra ragione e comunicazione politica non corre spesso buon sangue. Sa, istintivamente, che il linguaggio in politica serve soprattutto a ottenere consenso. E che per questo non è necessario informare, spiegare, istruire. Occorre piuttosto creare una realtà funzionale al potere. Suscitare emozioni, agitare passioni, radicare convinzioni preconcette e indiscusse. Questo Berlusconi fa da vent’anni con naturale sapienza. E nel farlo si colloca, senza saperlo, in una lunga tradizione.
Da tempo immemore l’esercizio del potere s’intreccia alla produzione di codici linguistici. Il sovrano, ammoniva Hobbes, è in primo luogo il signore del linguaggio, e di ciò il Novecento dei «totalitarismi» ha offerto prove evidenti e consistenti. Mentre trucidava e mandava al gas milioni di persone il Terzo Reich provvedeva a coniare una neolingua che ebbe non poca influenza nel generalizzare la corruzione morale dei tedeschi. Coraggio, fedeltà, onore, idealismo. Con questi nomi si ribattezzavano l’assassinio e la brutalità, l’indifferenza disumana e la più aberrante violenza. E non è che un codice resta inerte, racchiuso nelle pagine di un vocabolario. Vive nella mente delle persone, connota il rapporto con le cose e le azioni, ridefinisce significati e valori. Man mano che, avendo acconsentito al nuovo potere, i tedeschi si ritrovavano invischiati in una palude di falsità e menzogna, la loro capacità di discernere ne risultava compromessa.
La coscienza di queste connessioni motiva l’ossessione di Gramsci per quella che nei “Quaderni” chiama «struttura materiale dell’ideologia», alludendo a «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente». Il problema, a suo giudizio, è che per effetto di questa influenza ciascuno di noi si ritrova una «coscienza teorica» di cui spesso non è consapevole e che quindi non controlla. Una coscienza «superficialmente esplicita o verbale» che ha «accolto senza critica» e che confligge con le sue azioni e con le sue intenzioni. La qual cosa non è senza conseguenze, poiché (sempre Gramsci) «la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica».
Siamo così al cuore del discorso, che non deve sembrare sproporzionato rispetto alle sordide sortite di Berlusconi sulla persecuzione propria e dei suoi figli. Quanto meno è democratico, tanto più il potere funziona come una fabbrica del falso. E viceversa. Quando si riflette sull’Italia a cavallo tra XX e XXI secolo e sul suo declino, non si considera questo versante del problema. Non avvedendosi che trascurare la questione del linguaggio è un errore fatale, perché dalla pulizia delle parole discende quella delle idee, quindi la capacità di giudicare e agire conseguentemente. Se nella comunicazione pubblica non c’è verità, se il discorso pubblico serve soltanto a mascherare e a deformare, il disorientamento collettivo è inevitabile, e con esso la morte della democrazia.
Forse si dirà: così si drammatizza una faccenda tutto sommato semplice e innocua, visto che alle parole del vecchio non crede più nessuno. Invece la situazione è seria e non è affatto casuale che non ci se ne avveda o che si faccia di tutto per nasconderlo. Berlusconi non è il solo a mentire e a usare la comunicazione per intossicare la ragione pubblica. Se le sue sparate sono (per noi) scopertamente insulse, dovremmo chiederci una buona volta come funziona la lingua che noi stessi usiamo e che disciplina funzioni e relazioni nella sfera pubblica.
Quanta verità trasmettono le parole che strutturano il discorso politico? In che misura si è consapevoli della loro funzione ideologica, del ruolo che esse svolgono nella creazione di una realtà fittizia e al tempo stesso concretissima, in forza della quale viene esercitato ogni giorno un potere distruttivo di quanto ancora resta di un’autentica dimensione collettiva? Certo, non si tratta di parole «sgangherate». Anzi, se ne sorveglia accuratamente la correttezza formale. Ma non per questo le tossine che esse liberano nel corpo della società sono meno letali.
Vogliamo fare solo un piccolo esempio? Che cos’è il celeberrimo «debito pubblico», nel nome del quale tutti i nostri governanti (tutti, a cominciare dall’onnipresente capo dello Stato) si stracciano le vesti, ripetono la litania della mancanza di risorse e propagandano l’inevitabilità dei sacrifici, cioè dei tagli alla spesa, della cancellazione dei diritti sociali (sanità e pensioni), della distruzione di milioni di posti di lavoro, della devastazione del territorio e della scuola pubblica, dell’ennesima svendita del patrimonio collettivo?
Nessuno ricorda mai che quell’enorme debito si è costituito perché, a partire dai primi anni Ottanta, invece di far pagare le tasse a chi di dovere si è preferito finanziare la spesa vendendo titoli di Stato proprio a chi veniva graziosamente esentato dal prelievo fiscale e trasformato così, con un colpo di bacchetta magica, in creditore, da debitore che era. Nessuno mette in comunicazione quel debito con l’enorme evasione fiscale, che ancora oggi viene amorevolmente tutelata. Nessuno dice che quel cosiddetto debito pubblico è in realtà un debito privato, privatissimo. E nessuno, a maggior ragione, osa sostenere che quindi a doverlo pagare sono i grandi patrimoni privati, banche e proprietari di imprese, che i soldi ce li hanno eccome, tant’è che possono permettersi lo shopping del patrimonio pubblico a prezzi di saldo.
È solo un esempio tra i tanti della grande affabulazione che giorno dopo giorno genera la «coscienza teorica» della stragrande maggioranza degli italiani, legittimando la più grande redistribuzione inegualitaria di ricchezza sociale dai tempi della Grande depressione. Dopodiché si capisce bene la ratio della cosa. Manipolare la mente dei sudditi, privatizzare la sfera pubblica, ridurre l’opinione pubblica a un simulacro, serve a governare senza troppi fastidi. Soprattutto se lo si fa senza evidenti sgrammaticature, a differenza di quanto sovente accade ai vecchi demagoghi. Ma si può davvero star sicuri che alla fine si intascheranno i dividendi dell’operazione? Escludere che, azzerata la capacità critica dei più, la cittadinanza preferisca poi affidarsi a qualche Salvatore, più disinvolto e forse più efficace nell’arte del mentire?
Come ammoniva il già citato Gramsci, capita ai ciarlatani di essere morsi dalla biscia usata per i loro raggiri, e ai demagoghi di essere le prime vittime della propria demagogia.

“Controfinanziaria” di Sbilanciamoci!, un’altra Europa è possibile


“Controfinanziaria” di Sbilanciamoci!, un’altra Europa è possibile


Oggi, giovedi 28 settembre «Sbilanciamoci!» presenta a Roma (ore 10,30 presso Fandango Incontri, via dei Prefetti 22) la sua quindicesima «controfinanziaria», «Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente». Anticipiamo una parte del testo, dedicata alle politiche europee. Il testo completo è scaricabile da www.sbilanciamoci.org 
Le politiche di austerità nate con l’ossessione per l’insolvenza sul debito pubblico, stanno portando l’Europa verso la dissolvenza: un’immagine sempre più sfocata e scomposta, col rischio di una dissoluzione del progetto europeo che non ha più il consenso dei cittadini.
Nell’ultimo anno il dibattito politico ed elettorale nei paesi europei ha ovunque preso la strada di caratterizzazioni fortemente nazionali, dimenticando la direzione che deve prendere l’insieme dell’Europa. In tutti i paesi – Italia compresa – le elezioni tenute nell’ultimo anno hanno portato a governi di grande coalizione. In Germania resta al potere Angela Merkel in coalizione con i socialdemocratici, con una politica di austerità per l’Europa che non è destinata a cambiare. In Olanda c’è ora un governo di coalizione tra liberali e socialdemocratici con la conferma del precedente primo ministro liberale. In Austria si è confermata la grande coalizione. La passata vittoria di François Hollande in Francia non ha mutato in modo significativo gli equilibri in Europa, la sua promessa di insistere sulla crescita anziché sull’austerità è stata dimenticata, e il governo registra una grave perdita di popolarità sul piano interno.
Allo stesso tempo si rafforzano in tutti i paesi le spinte populiste, anti-europee, di estrema destra, con prospettive di successo per forze come l’Ukip inglese, il Front National francese, il partito di destra tedesco anti-euro Alternativa per la Germania, l’estrema destra di Austria, Olanda e altri paesi. Si tratta di una deriva pericolosa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo della primavera 2014. Nei prossimi mesi il rischio è che il dibattito contrapponga da un lato l’Europa dell’austerità – gestita quasi ovunque da governi di grande coalizione – e dall’altro il rifiuto dell’Europa in nome di populismi e nazionalismi.
Questa, tuttavia, non è una scelta obbligata. Esiste un’altra Europa possibile, fondata non sul mercato e la finanza, ma sul lavoro, sui diritti, sull’uguaglianza, sulla sostenibilità, sulla democrazia.
È dall’inizio delle controfinanziarie, nel 1999, che Sbilanciamoci! critica il modello di integrazione europea fondato sui parametri di Maastricht, denuncia i limiti dell’Unione monetaria, gli effetti negativi per i paesi come l’Italia, chiede di limitare il potere della finanza. Da quando è scoppiata la crisi del 2008, queste critiche e le proposte di cambiamento sono state al centro di decine di rapporti, libri, e-book, contro-Cernobbio e iniziative politiche di Sbilanciamoci!, oltre al dibattito quotidiano sul sito www.sbilanciamoci.info, dove sull’Europa sono stati pubblicati centinaia di articoli.
Nella critica dell’Europa della finanza e dell’austerità si tratta di fare i conti con due questioni. La prima riguarda l’evoluzione della politica. L’ipotesi che ci fosse uno spazio per politiche dei governi nazionali e per una strategia dell’Europa capaci di introdurre una discontinuità col neoliberismo e di rovesciare le politiche di austerità non ha trovato conferme. L’esperienza deludente del governo socialista di François Hollande, la continuità con le politiche passate dei governi di grande coalizione in Italia come in Germania e l’insistenza di Bruxelles e Francoforte sulle politiche del passato mostrano l’immobilità della politica e delle élite europee e nazionali. Né le proteste sociali e sindacali, né l’opposizione politica, né qualche successo elettorale delle forze di centro-sinistra sono stati sufficienti a portare a un cambio di rotta, a livello nazionale come in Europa. Il risultato di questo perseverare in politiche sbagliate è l’aggravarsi della crisi, sei anni di depressione in Italia, la frattura crescente tra centro e periferia dell’Europa.
La prospettiva di una politica di cambiamento, legata al progetto di Europa post-liberista, appare bloccata dall’immobilità dei governi e delle istituzioni da un lato, e dall’altra dall’esiguità del consenso che nelle recenti elezioni hanno ottenuto le forze di opposizione – da sinistra – ai governi di larghe intese in Europa. Sul terreno della politica elettorale a pagare non è la richiesta di un’altra Europa, ma l’anti-Europa. Il consenso elettorale, anche nei gruppi sociali più colpiti dalla crisi, va sempre più a forze populiste – in Italia il Movimento Cinque Stelle, ma anche forze del centrodestra. Questo riflette l’insoddisfazione per l’inadeguatezza della politica europea, ma anche la ricerca di risposte semplici a problemi complessi.
Le proposte che ne risultano tendono a essere semplicistiche e illusorie. L’esempio più ovvio è buona parte del dibattito sull’uscita dall’euro e sul ritorno a monete nazionali come una soluzione automatica alla crisi. Si pensa a un ritorno a un passato immaginario dove i paesi hanno solide basi produttive, in cui la competitività può essere sostenuta attraverso la svalutazione della moneta, in cui i capitali restano comunque all’interno del paese, in cui non c’è rischio di attacchi speculativi, in cui tutto questo aumenta i gradi di libertà per le politiche economiche nazionali. Si trascura quanto sarebbe complicato il ritorno alle monete nazionali e quanta cooperazione europea sarebbe richiesta per realizzarlo.
La realtà, oggi, è che i capitali sono pienamente liberi di muoversi – ci sono 150 miliardi di euro di capitali italiani in Svizzera. La reintroduzione di monete nazionali offrirebbe una nuova facile preda alla speculazione, con il rischio di crisi valutarie che potrebbero avere effetti peggiori dell’attuale pressione sul debito, come ha mostrato la crisi asiatica del 1997-98. Con un quarto della capacità produttiva industriale perduta, l’Italia difficilmente potrebbe tradurre la svalutazione in forte crescita dell’export, mentre la dipendenza dall’estero non solo per le materie prime, ma anche per tutti i prodotti ad alta tecnologia significa che la svalutazione della moneta si tradurrebbe in un aumento dei prezzi che ridurrebbe ulteriormente i salari reali. Il rischio di una spirale fatta di svalutazione, inflazione, fuga di capitali, deficit estero e caduta della produzione potrebbe lasciare il paese in condizioni peggiori di quelle attuali. Anziché aumentare i gradi di libertà delle politiche, c’è il rischio che il ritorno a monete nazionali spinga la politica economica dei paesi in crisi a mettere al primo posto la stabilizzazione del cambio – com’è avvenuto con la crisi della lira nel 1992 – sacrificando ogni altro obiettivo.
Un obiettivo prioritario è quindi quello di “legare le mani” alla finanza e porre limiti alla mobilità dei capitali. Misure di questo tipo sono state introdotte dalla stessa Europa a Cipro dopo la crisi finanziaria del paese: il paese è rimasto nell’area euro, continua a usare la moneta comune, ma i capitali non possono uscire dal paese e servono a rifinanziare le banche e l’economia. Per contrastare la finanza, le proposte sono ben note: una tassa sulle transazioni finanziarie ben più dura di quella introdotta finora che ridimensioni il settore, divieto delle attività finanziarie più rischiose e dannose per l’economia reale, limiti alle vendite allo scoperto, divisione tra banche commerciali e banche d’affari, vincoli più efficaci sull’operato delle banche, una ristrutturazione del settore bancario con un ruolo chiave di una banca d’investimento pubblica che indirizzi le operazioni verso l’economia reale anziché verso la finanza, la tassazione dei patrimoni finanziari e aliquote più alte per la tassazione delle rendite finanziarie.
Concentrare su questo obiettivo le richieste di cambiamento offrirebbe forse migliori spazi per una politica diversa. E la costruzione di ampie alleanze sociali e politiche per realizzare alcune di queste misure potrebbe essere più realizzabile. Con una finanza ridimensionata diventerebbe più agevole una riforma radicale dell’Unione monetaria e della Banca centrale europea e una rottura con le politiche di austerità, che sono gli altri due obiettivi fondamentali per realizzare un cambio di rotta.
Ma di fronte alla crisi europea, in effetti, il nodo irrisolto resta quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e le manifestazioni non funzionano, come si può costringere il potere economico e politico a cambiare strada per uscire dalla crisi?
La minaccia di uscita dall’euro ha qui l’immagine di un’arma assoluta capace di far saltare il sistema che ci ha portato alla depressione. Ma chi dovrebbe impugnarla? Gli attuali governi di larghe intese? Uno schieramento populista capace di vincere le elezioni? Gli stessi poteri forti dell’Europa che si liberebbero così dei disastrati paesi della periferia? Sono scenari che appaiono illusori quanto gli effetti risolutivi che a tale mossa vengono attribuiti.
Certo, se la crisi si aggravasse ulteriormente, potrebbero diventare inevitabili anche misure estreme, come l’uscita dall’euro e l’insolvenza sul debito pubblico. Ma il costo economico e sociale di misure di questo tipo in condizioni di emergenza sarebbe pesantissimo, innanzi tutto per le classi popolari. Per realizzare un cambiamento di rotta, più concreta sembra la strada di costruire – senza scorciatoie – un’alleanza tra la vittime della crisi. Sul piano sociale, tra lavoratori di tutti i tipi – dipendenti e autonomi, precari e stabili, nativi e immigrati, giovani e vecchi, ricostruendo identità collettive e solidarietà sociali a scala europea. Sul piano economico, tra il lavoro e le imprese, contro il potere della finanza. Sul piano nazionale, tra i paesi della periferia messi ai margini dell’Europa. Un “vertice della periferia” in cui si incontrino movimenti sociali, associazioni, sindacati, forze politiche e, perché no, governi di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo sarebbe un passo importante per dare visibilità e voce all’altra Europa che vogliamo, quella che può fermare l’Europa della finanza e dell’austerità, ma anche le pulsioni verso un ritorno di nazionalismi.

Italia Nostra Perugia: L'imbroglio dell'Autostrada

"Ora possiamo dirlo: la trasformazione della E-45 in autostrada è un imbroglio a danno degli umbri. Infatti - si legge in una nota di Italia Nostra di Perugia, a firma del presidente Urbano Barelli - se qualcuno avesse proposto di sostituire una normale E 45 gratuita con un’autostrada a pagamento, l’Umbria, pur affetta da sindrome da isolamento e orfana dell’autostrada del Sole, avrebbe detto di no. Per convincere gli umbri si è quindi cominciato con il ridurre la manutenzione sulla E 45 e renderla quasi impraticabile, operazione che è pienamente riuscita anche perché la E 45, completata solo nel 1997, ha manifestato sin dall’inizio evidenti difetti di costruzione (sconosciuti solo alla Corte dei Conti e alla magistratura penale, salvo, quest’ultima, accorgersi a disastro avvento che la diga di Montedoglio è stata costruita, nello stesso periodo della E 45, con cemento difettoso). Mandare in malora la E 45 è stato solo il primo passo. Il secondo è stato l’aggancio del Nodo di Perugia al progetto di autostrada. In una città malata di traffico e di inquinamento dell’aria e con un tasso di motorizzazione tra i più alti d’Italia (che, a sua volta, ha il record europeo), sarebbe stato più saggio affrontare il problema del traffico con la dissuasione dall’uso del mezzo privato in favore di quello pubblico."
"In ogni caso - continua la nota di Barelli - volendo a tutti i costi costruire una nuova superstrada, la soluzione più logica per il traffico di Perugia sarebbe stata quella della Gronda Nord per arrivare fino all’ospedale Silvestrini, non certo quella del raddoppio della superstrada a sud della città. Però la soluzione a nord non consentiva di agganciare l’autostrada alla nuova superstrada e di legarle ad un comune destino che vede il Nodo di Perugia composto per un terzo di autostrada (da Collestrada a Madonna del Piano) e due terzi di superstrada (da Madonna del Piano a Corciano). Terzo passo per far digerire agli umbri la trasformazione della E 45 gratuita in un’autostrada a pagamento è stata la promessa che l’autostrada sarebbe stata gratuita per gli umbri. Che fosse una bufala lo sospettavano in molti, alcuni lo hanno detto e scritto. Oggi dopo che il CIPE ha approvato il progetto preliminare di project financing privato, irrobustito con agevolazioni fiscali, è evidente che l’interesse del privato sarà quello di massimizzare il profitto senza sconti per nessuno, nemmeno per gli ingenui umbri."
"E che nessuno sconto verrà fatto agli umbri e tutti dovremo pagare il pedaggio sulla nuova autostrada - sottolinea Barelli - è l’Unione europea ad imporlo (come Italia Nostra scrive da tempo). Uno dei principi fondamentali dell’Unione europea è, infatti, quello della libera circolazione delle persone e della non discriminazione rispetto al paese di provenienza (art.12 Trattato CE). Ne sa qualcosa la Germania che proprio in questi giorni sta pensando di far pagare il pedaggio delle sue autostrade gratuite agli stranieri e, per evitare di incorrere in una violazione del diritto europeo, lo farà pagare anche ai tedeschi caricandolo sul bollo auto."
"L’imbroglio è quindi evidente - conclude la nota del presidente di Italia Nostra di Perugia - decenni di E 45 volutamente lasciata in abbandono, il Nodo di Perugia proposto come la soluzione di tutti i mali del traffico del capoluogo, la favola dell’esenzione dal pedaggio. Il consenso degli umbri (o meglio delle amministrazioni umbre, che, fino a prova contraria, si deve ritenere che abbiano deciso in buona fede) è stato quindi estorto con artifici e raggiri a beneficio della società che costruirà l’autostrada. In condizioni normali qualsiasi persona e amministrazione pubblica di buon senso avrebbe invece detto: manteniamo e miglioriamo la E 45, evitiamo di pagare un pedaggio e, non ultimo, di sconvolgere e distruggere per i prossimi dieci o quindici anni una fetta importante del territorio, del paesaggio e dell’ambiente regionale."

La presa in giro sul reddito minimo Di ilsimplicissimus


Nuovi-poveriUna ragione ci sarà per chiamarlo reddito minimo d’inserimento. Infatti è una presa per i fondelli, una sorta di elemosina di 250 euro al mese per persone e nuclei familiari al di sotto del livello di povertà, in cambio di un impegno in lavori socialmente utili o la partecipazione a programmi di aggiornamento, utili più che altro ad alimentare la macchina del corsismo pubblico e privato, visto che il problema è proprio la mancanza di posti di lavoro e la deindustrializzazione del Paese.
E che si tratti di puro fumo negli occhi, di una mancia per tenere a freno il malumore che cova soprattutto nelle città, lo dimostra intanto l’assoluta esiguità del finanziamento, 120 milioni da dividere con i fondi necessari a rifinanziare le carte d’acquisto, le famose poorcard di Tremonti, 40 milioni l’anno, dieci milioni meno di quanto previsto da Monti, davvero poca roba a confronto dello sconto Irap alle banche o anche ai 58  misteriosi milioni stanziati per il semestre di presidenza europea dell’Italia. Ma poi la sua disorganicità, visto che i soldi vengono dal temporaneo contributo di solidarietà delle pensioni d’oro da 90 mila euro in su e infine la sua ridottissima applicazione ad alcune aree urbane la cui turbolenza spaventa il governo. Quest’ultima spiacevole e deludente caratteristica viene giustificata con un presunto carattere “sperimentale” del provvedimento, ovvero con la sua precarietà.
Ma proprio qui sta il marcio, perché in realtà non ci sarebbe bisogno di sperimentare nulla visto che il reddito minimo di inserimento è già stato ampiamente sperimentato dal 1999 al tutto il 2002: con 309 comuni coinvolti (il più grande fu Napoli), con oltre 25 mila famiglie e 37 mila individui coinvolti. Il governo Berlusconi, bloccò l’esperimento nel 2003, nonostante esso fosse stato presentato a Bruxelles come “buona pratica” nel Piano nazionale per l’inclusione sociale. Lo fece con il beneplacito delle parti sociali, leggi sindacati, che com’è noto temono qualsiasi welfare che non passi attraverso di loro. Inoltre forme simili di sostegno sono stati sperimentate con finanziamenti propri in parecchie regioni e ancora oggi esistono sotto varie forma in Campania, Puglia, Valle d’Aosta, Lucania, e nel Trentino Alto Adige dove fa parte di un’ ampia serie di provvedimenti di assistenza.
Dunque quattro anni a livello nazionale e un decennio abbondante in molte regioni sono stati più che sufficienti per produrre una mole di documentazione e studi così corposa da escludere il bisogno di ulteriore sperimentazione. Uscirsene fuori con questo pretesto svela meglio di qualsiasi altra considerazione  la natura occasionale e strumentale del provvedimento, tesa ad addolcire l’immagine del governicchio e a distrarre l’attenzione dalle tasse o dai giganteschi problemi sociali che si vanno accumulando. Per non parlare poi della possibilità che il tutto si trasformi in una generica operazione di voto di scambio volta a dare un pourboire della durata di un anno ad un massimo di 10 mila persone su oltre 4,8  milioni  in povertà assoluta.

Ai confini della realtà: il bi-Steccone si farà di Leonardo Caponi, Umbrialeft.it




PERUGIA - Questa decisione del Consiglio comunale di Perugia di completare il palazzo dello Steccone a Fontivegge  appare, sinceramente, ai confini della realtà. Dunque, in una città dove già esistono molti grandi immobili, pubblici e privati, vuoti, si decide di aggiungerne un altro ancora; in un quartiere già strozzato dal cemento, dove la sovrabbondanza di offerta abitativa ed edilizia è la causa prima di difficili condizioni di vivibilità, dove esistono centinaia di appartamenti e decine di migliaia di metri cubi sfitti, dove adesso, da ultimo si vuota uno dei tre Palazzi Fioroni per effetto della decisione della Regione di trasferire i propri dipendenti al Broletto; in una realtà di questo tipo si decide di costruire, con gran dispendio di risorse (da trovare!, mix si dice pubblico privato), un nuovo enorme contenitore, per completare così un palazzone dal quale la gente perbene già scappa via, perché abitato da prostitute in quantità e popolato di spacciatori e malfattori di ogni risma. Roba da matti!
   Il nuovo ammasso di travi d’acciaio e calcestruzzo servirà, si dice, ad ospitare gli uffici comunali. Bene, così avremo una nuova cattedrale che, come è per il Broletto o per gli uffici di Equitalia al Bellocchio, dopo le cinque del pomeriggio, chiude e si svuota per lasciare un deserto di silenzio, solitudine e anonimato, che sarà off limits per la gente comune e spadroneggiato di notte dalle ombre di losche figure o di poveri giovani disgraziati che, provati dall’esperienza dell’immigrazione, dalla lontananza da casa, dalle difficoltà di inserimento, sono spinti a delinquere come ultima risorsa di vita. 
    E poi, che bisogno c’è di costruire una nuova sede per gli uffici comunali?! Si potrebbe fare un lungo elenco di altri contenitori utili, con un po’ di coordinamento e collaborazione tra istituzioni pubbliche, a ospitarli. La sede ex Inpad di via Cacciatori delle Alpi, recentemente ristrutturata con impiego di abbondanti fondi pubblici, è vuota essendo i dipendenti assorbiti e trasferiti all’Inps di via Canali. La Provincia di Perugia non riesce a vendere all’asta i suoi immobili tra i quali quello, antico e di pregio, di via Tornetta, ex Crued ed ex Università dei Sapori. Ad utilizzare questi contenitori si farebbe un gran bene alla rivitalizzazione del centro storico, senza continuare ad appesantire periferie già congestionate di traffico e cemento.
   IL completamento dello Steccone è una “cambiale” elettorale o politica che va onorata? Oppure è un modo per compiacere e ingraziarsi, a ridosso delle elezioni, uno dei tradizionali poteri forti della città, quello dei costruttori,? Evitiamo (anche se è difficile!) il processo alle intenzioni e sforziamoci di guardare la questione da un altro angolo visuale: quello di un amministratore pubblico che, in questo momento di crisi, vede deperire irrimediabilmente l’economia della propria città e si sente in dovere di fare tutto il possibile per riattivarla. Ecco, allora, che si torna a puntare sulla industria delle costruzioni. La vicenda dello Steccone non è unica nel suo genere, tuttaltro! Somiglia molto a quella di Ponte della Pietra, dove il campo da calcio verrà soppiantato da un grande complesso urbanistico (sempre cemento è, anche se ecclesiastico e rivolto ad opere di bene) e, su un altro versante, quello regionale, dalla accettazione, anzi dalla richiesta, di trasformare in autostrada la E45.
   Il problema è che non è questa la strada per risalire la china dell’economia! Perché è una strada vecchia,  consumata che, a questo punto tra occupazione del territorio, danni ambientali e alla salute, criminalità, viene a costare più di quello che da. In Umbria si proclamano bei concetti come sviluppo e competizione di qualità, cultura, economia verde e, nella pratica, si fa tutto il contrario.
   Lo spazio per l’edilizia? Ce n’è quanto se ne vuole; ma invece che per nuove costruzioni venga dato alla ristrutturazione e al recupero delle aree e degli immobili degradati. A Fontivegge Bellocchio ed in tutta Perugia ce ne sarebbe un gran bisogno e si troverebbe un bel mercato!
   Considerazione finale: è possibile che a Perugia non si riesca a coagulare una lista civica di sinistra, aperta e inclusiva, che, muovendo da un punto di vista critico della realtà, si proponga di affermare una nuova idea di città, disposta a sfidare l’egemonia del Pd, fuori o dentro la coalizione?     

mercoledì 27 novembre 2013

La tribù dei Nasi Tappati di Alessandra Daniele, Carmillaonline.com

Ricchi-e-PoveriAlla fine, anche la presunta ala sinistra del PD, Ciwati e i ciwawa, ha finito per allinearsi al resto del partito nel rinnovare la fiducia al Cancellierbot, l’ingombrante guscio biomeccanico di forma vagamente umanoide indossato dai Ligresti per muoversi nella nostra atmosfera.
I ciwawa l’hanno fatto brontolando, mugugnando, trascinando i piedi, ma ovviamente l’hanno fatto, esattamente come Renzi che, da vincitore annunciato delle primarie, ci ha aggiunto la berlusconiana promessa che con lui al comando certe cose non succederanno più. Per adesso però bisogna tapparsi il naso per il bene del paese: su questo il PD è un coro unanime. Quanto durerà questo adesso?
Per sempre.
Nessuno nel PD ha intenzione di correggere davvero la rotta politica, tantomeno il vincitore annunciato, il fantasma del Natale anni ’80, figlio primogenito della coppia Boldi-De Sica. L’odioso compagno di classe raccomandato che, finita la scuola, inutilmente speravamo di non incontrare mai più.
Tutti i cosiddetti volti nuovi del PD hanno quest’aria vintage da comprimari de ”I ragazzi della 3°C”, di quei personaggi di contorno che apparivano in due o tre episodi l’anno, spiccando solo per antipatia, e cagneria degli interpreti.
Stereotipi con lo spessore di una figurina. Maschere. Il secchione, il bulletto, lo spione, il figlio di papà, la ragazza seria, lo sfigato.
La loro consistenza politica è pari a quella del Ciocorì spiacciato sul fondo della cartella.
Il governo di cambiamento che promettono è un pupazzo animato, una lepre finta da cinodromo che i loro disperati elettori potranno solo continuare a rincorrere in circolo, e mai raggiungere.
Correre per anni col naso tappato dev’essere particolarmente affannoso.
Intellettuali e blogger PDofili li incitano: coraggio, un ultimo sforzo, che questa è la volta buona, Renzi è abbastanza stronzo da piacere alla maggioranza degli italiani, è abbastanza bugiardo da essere creduto, vincerà.
Anche di Rutelli e Veltroni l’avevano detto: è lo stronzo giusto, finalmente l’abbiamo trovato.
Anche dell’alleanza con Monti avevano promesso: coraggio, questo è l’ultimo cucchiaio di merda che vi tocca inghiottire.
In realtà, nel piatto c’è solo merda.
L’unico modo per smettere di mangiarla è buttarlo.

martedì 26 novembre 2013

Mala tempora currunt: hanno ucciso il campo sportivo di Ponte della Pietra di Stefano Vinti, Umbrialeft.it

PERUGIA - La decisione di cementificare il campo sportivo di Ponte della Pietra di Perugia è dunque definitiva. Una decisione che ha dell’inverosimile, non tanto per le legittime aspirazioni della proprietà del terreno, quanto per la inerzia e la subordinazione dell’amministrazione comunale di Perugia, incapace di salvaguardare quello che ormai, nei fatti, era diventato un “bene comune”.
Bene comune significa di tutti e per tutti, atei, laici, cattolici musulmani, senza distinzione di razza e di religione, di fede politica, ecc…., governato e gestito da volontari, che hanno fatto praticare sport e attività motoria a ragazzi e bambini, in un quartiere che cresce, si sviluppa e si popola.
In questi anni si è assistito ad un processo di privatizzazione degli impianti che hanno perso in maniera significativa il loro carattere pubblico e gratuito. Quanto successo a Ponte della Pietra va oltre, e si aggiunge alla cancellazione del campo di Prepo avvenuta per la costruzione di un edificio adibito a centro amministrativo e burocratico della Figc. Con la concessione della edificabilità, atto non dovuto sia ben chiaro, la scelta è stata quella di eliminare un altro centro sportivo di aggregazione per un’opera che interessa solo una parte della comunità perugina.
Questa “bene comune” è stato ucciso, per volontà della proprietà e di una maggioranza trasversale del comune di Perugia.
I miei ricordi arrivano a circa 40 anni fa, quando nell’allora polveroso campo sportivo giocavano i ragazzi della Libertas, poi quelli dell’Olimpia, delle giovanili dell’A.C. Perugia, compresa la squadra Primavera che giocava contro i Lionello Manfredonia, i Giordano Bruno, i Bruno Conti, l’U.S. Penna Ricci, il Ponte della Pietra, insomma un campo sportivo della nostra città, che ha svolto una straordinaria funzione sociale, dove hanno giocato campioni ma anche giovani cittadini per puro divertimento.
Un campo sportivo al lato di via Settevalli, circondato da poche case e quando ancora via Chiusi era solo un tracciato su una piantina, era in grado di soddisfare un bisogno reale, un diritto dei figli del popolo e dei lavoratori, il diritto allo sport e all’attività motoria.
Un campo sportivo, trattato con cura e amore da un custode brontolone, Gallina, che ne era geloso e la manutenzione sembrava il fine, non il mezzo del suo lavoro.
Ora il campo sportivo di Ponte della Pietra sarà cementificato, ucciso, cancellato, per fare spazio ad un centro parrocchiale a 100 metri da un’altra chiesa, grazie al permesso a edificare concesso dal comune. Complimenti.
Una città che non riesce a difendere i propri impianti sportivi ha qualcosa che non va; le forze politiche che decidono la cementificazione dei propri impianti al servizio della salute dei cittadini sono le stesse che stanno decidendo la nuova legge sugli stadi, ipercommerciali e consumistici, impianti per i tifosi che debbono solo consumare lo spettacolo sportivo e acquistare merci nei nuovi supermercati. Complimenti.
C’è da chiedersi se tutti i proprietari dei terreni ora non edificabili e che faranno richiesta di edificabilità, riceveranno lo stesso trattamento riservato ai proprietari del campo sportivo. Dubito che saranno in tanti.
Come dubito che alle vaghe promesse di costruzione di un nuovo campo sportivo seguiranno atti concreti: con quali risorse? Dov’è il terreno? Di certo c’è solo che l’amministrazione comunale, da oggi, è in debito con la comunità di Ponte della Pietra. Quello che stato tolto deve essere risarcito; nessuno pensi che la vicenda possa chiudersi nell’oblio o a tarallucci e vino. Ponte della Pietra deve riavere al più presto il suo campo da calcio.
In questa vicenda mi aspettavo che le autorità sportive perugine e regionali prendessero posizione, intervenissero per difendere il campo sportivo, si dessero da fare per trovare soluzioni alternative, ma invano. Registro il silenzio più assoluto del Coni, della Federazione Calcio, degli enti di promozione sportiva, dell’assessore cittadino allo sport, tutti a testa china, tutti subordinati ai “poteri forti”, tutti pavidamente disinteressati alla salvaguardia del “bene comune”.
Mala tempora currunt, ma sappiate che c’è chi non si arrende.

lunedì 25 novembre 2013

Regioni, dove la politica costa 1 miliardo di Lavoce.info

Finora tanti aneddoti e scandali, ma quanto costa veramente la politica a livello regionale? Ecco la prima stima, sulla base dei bilanci di tutti i consigli regionali nel 2012. di Roberto Perotti * (Lavoce.info)
Quanto costa la politica regionale? Si è parlato spesso recentemente dei vari scandali di consiglieri (e consigliere) superpagati, di rimborsi spese fantasiosi, e di contributi a gruppi consiliari finiti nelle tasche sbagliate. Mancava però finora una stima dei costi totali della politica regionale. Partendo da un esame dei  bilanci dei consigli regionali per il  2012, in questo lavoro riporto, per ogni regione, la spesa totale di ogni consiglio, distinta nelle seguenti voci: retribuzione dei consiglieri, spese per consiglieri cessati dal mandato, spese per il personale, contributi ai gruppi consiliari, e altre spese (in gran parte spese per acquisto di beni e servizi, ma anche spese di rappresentanza, consulenze al consiglio regionale, manutenzione etc.). Il massimo sforzo è stato fatto per rendere queste voci comparabili tra le varie regioni (1). Gli unici casi in cui non ho ancora ottenuto i dati completi sono quelli segnati in giallo: nel bilancio del Lazio manca gran parte della spesa per il personale (2) e in quello del Molise la spesa per vitalizi. Inoltre, i bilanci consuntivi del 2012 di Sicilia e Veneto non erano ancora stati approvati  al momento di scrivere questo articolo, quindi per queste due regioni  i dati si riferiscono al 2011.
Ogni consigliere regionale costa in media 200.000 euro. Nel complesso la spesa totale è stimata con una certa precisione, anche se probabilmente per difetto di circa 30 milioni di euro (ipotizzando che il Lazio abbia una spesa per il personale un po’ superiore a quella della Lombardia). Inoltre, il dato del Veneto è  anch’esso sottostimato perché nel 2011 vi furono degli altissimi residui passivi (somme impegnate ma non spese, e rimandate all’anno successivo) alla voce “Personale”. Con queste precisazioni, vediamo le conclusioni principali. Complessivamente, i consigli regionali costano circa 1 miliardo di euro all’anno (tabella 1),  esattamente quasi quanto la Camera dei Deputati. I compensi lordi ai consiglieri sono  circa 230 milioni (colonna 1), mentre si spendono circa 170 milioni per pensioni e vitalizi dei consiglieri cessati dal mandato (colonna 2). I contributi ai gruppi consiliari sono quasi 100 milioni. Le regioni più costose sono le due che forse più frequentemente si sono ritrovate al centro della cronaca: la Sicilia, con un costo totale di 156 milioni, e il Lazio, con 84 milioni (ai quali però come abbiamo visti bisogna aggiungere altri 20 o 30 milioni). Ovviamente però la spesa  dipende anche dalle dimensioni del consiglio. La tabella 2 riporta la spesa media per consigliere. In media in tutta Italia gli emolumenti lordi a ciascuno dei 1117 consiglieri regionali ammontano a poco più di 200.000 euro all’anno (ultima riga della colonna 1). Si passa dai 118.000 euro in Emilia Romagna e 140.000 in Valle d’Aosta ai 244.000 euro del Piemonte, 270.000 del Lazio, e 281.000 della Calabria.
In Sicilia il Consiglio costa 1.700.000 euro per ogni consigliere. La spesa totale (quindi comprensiva degli emolumenti ma anche di tutte le altre voci) per consigliere (colonna 2) è un indice della spesa che le regioni ritengono necessaria  per mettere ciascun consigliere in grado di svolgere il proprio lavoro. La media italiana è di 875.000 euro per consigliere (ultima riga della colonna 2). Ma anche qui c’è molta dispersione:  si passa dai 410.000 euro della Valle d’ Aosta e i 415.000 euro del Trentino a1.000.000 di euro   per consigliere in Piemonte, 1.500.000 in Calabria, e  1.700.000 in Sicilia. Se vi sono dei costi fissi, ci si aspetterebbe che nei consigli più piccoli il costo  totale medio per consigliere sia più alto. I dati invece indicano l’esatto opposto: più grande il consiglio,  più alto il costo totale medio per consigliere. Sembra che vi siano quindi notevoli diseconomie di scala: se siano dovute a sprechi o ad altri fattori è difficile dire. E’ però interessante notare che una regione medio-grande come l’Emilia, usualmente considerata bene amministrata, in totale spende per ciascun suo consiglieri 650.000 euro, molto meno della media nazionale. Con lo stesso numero di consiglieri (e una popolazione inferiore) la Calabria spende quasi due volte e mezzo l’Emilia Romagna.
112 euro per abitante in Valle D’Aosta, 45 in Sardegna. Il costo totale è ovviamente influenzato anche dalla grandezza della regione. La colonna 3 della tabella 2 mostra la spesa totale per abitante, per ogni regione. Qui chiaramente vi sono economie di scala: nella regione più popolosa, la Lombardia, mantenere il consiglio regionale costa 7 euro all’anno per abitante (inclusi anziani e bambini); nella meno popolosa, la Valle d’Aosta, costa 112 euro per abitante. Ma anche qui c’è una notevole variabilità. Calabria, Sardegna e Liguria hanno una popolazione simile, ma nelle prime due il consiglio regionale costa il triplo che in Liguria per ogni abitante. Il Piemonte ha una popolazione identica all’Emilia Romagna, ma un costo per abitante doppio.

Tabella 1: Spesa totale
Perotti
Migliaia di euro. La spesa totale è al netto delle tasse versate e della restituzione dell’avanzo di bilancio

Tabella 2: Spesa per consigliere
perotti
Migliaia di euro (eccetto nella colonna 3, che è espressa in euro). La spesa totale è al netto delle tasse versate e della restituzione dell’avanzo di bilancio

Autostrade versus territorio. Anche nelle "verde Umbria"

Venerdi scorso a Roma sotto al Ministero delle Infrastrutture, insieme ai comitati che si battono contro il corridoio autostradale A12 Roma- Cisterna e relativa Bretella Cisterna-Valmontone, c'era anche una delegazione dall'Umbria con il suo striscione, quello del Comitato che si batte contro la nuova austrada Orte-Mestre. Qui di seguito le loro motivazioni:
Come nascente Comitato Umbro contro la trasformazione della E45 in Autostrada abbiamo partecipato al presidio svoltosi lo scorso venerdì 22 novembre davanti al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti insieme ai comitati territoriali che si battono contro il Corridoio autostradale a pedaggio A12 Roma - Latina e la Bretella Cisterna-Valmontone, lottando contro le devastazioni ambientali ed un modello di sviluppo che privilegia il cemento e il profitto di alcune precise lobby politico-finanziarie a delinquere. 
Nell’ attesa del ritorno della delegazione di cittadini salita al Ministero, abbiamo condiviso con gli altri comitati solidarietà, informazioni e valutazioni, aderendo sulla necessità di percorsi comuni che ci portino a lottare insieme contro la “Legge Obiettivo” che è dietro a tutte le grandi opere, che permette in barba a qualunque limite di legge o vincolo paesaggistico, ma anzi con deroghe e procedure semplificate, di ricoprire centinaia di chilometri di territorio con colate di cemento. 
La delegazione al ritorno dall’incontro, che si è svolto con la sola presenza dei responsabili tecnici delle opere, in assenza di qualsivoglia referente o responsabile di carattere politico, in un report ai presenti ha comunicato come la controparte abbia riaffermato l’indiscutibilità delle decisioni prese circa la realizzazione delle opere autostradali, “concedendo” una mera unica "disponibilità" ad eventuali confronti circa parziali modifiche e varianti in corso d’opera, un meccanismo che cela una logica clientelare volta a dividere ed a mettere gli uni contro gli altri, a concedere un favore ad uno a danno dell’altro. 
I Comitati hanno rifiutato tale proposte clientelari che come si è già innumerevoli volte visto nascondono i soliti intrallazzi che non rientrano nei nostri costumi, e hanno riaffermato la necessità di lottare per i piani alternativi già presentati pure in sede di incontro istituzionale:
- messa in sicurezza delle strade esistenti,
- potenziamento del servizio su ferrovia sia merci che passeggeri, al fine di migliorare anche la situazione dei tanti pendolari che ogni giorno viaggiano in condizioni pessime e con ritardi continui,
- la contrarietà alla privatizzazione della mobilità pubblica, considerando anche che tali autostrade comporteranno il pagamento di un pedaggio che si abbatte ulteriormente sui redditi.
Nella riflessione comune si è condivisa la necessità di incrementare la mobilitazione nei diversi comuni interessati, coinvolgendo anche le amministrazioni locali contrarie, rafforzando così l’opposizione popolare. E’ stato chiaramente ribadito, visto che ci negano qualunque altra possibilità di dialogo, che saremo tutti pronti ad affrontare e sviluppare la lotta, ad opporci con i nostri compagni,figli, genitori e tutti i resistenti, fino anche a bloccare con i nostri corpi le ruspe al momento dell’avvio dei lavori, per difendere la nostra Terra, il nostro diritto alla mobilità per un altro modello di sviluppo, affinché i soldi pubblici siano utilizzati per opere di utilità veramente pubblica.
I cittadini della Val di Susa lo hanno gridato: «1 km di TAV = 1000 case popolari, 500m di TAV = 1 ospedale, 4cm di TAV = 1 anno di pensione» e noi tutti concordiamo.
I nostri percorsi di lotta si uniscono per un unico fronte contro le devastazioni ambientali ed il saccheggio delle risorse pubbliche