venerdì 31 gennaio 2014

Fiat, ovvero un’Italia in ginocchio di Dino Greco, Liberazione.it


elkann_marchionne_415368877ImmaginePaginaIniziale_ThumbFine della storia. La Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) è defunta e – come capisce chiunque non voglia ingannare se stesso o il prossimo – non soltanto nell’acronimo. Fiat Chrysler Automobiles (Fca) il nuovo gruppo sortito dall’unione della casa torinese e di quella di Detroit ha in Italia solo una modesta dependance produttiva, aree di grande cubatura che ospitano stabilimenti in gran parte dismessi, migliaia di operai in cassa integrazione, nessun serio progetto per il futuro. Il board strategico è già migrato a Detroit, insieme al know how nostrano, preziosa merce di scambio spesa per entrare in Chrysler senza che la Famiglia dovesse scucire un soldo bucato. Per la sede legale è stata scelta Amsterdam, al fine di sfruttare il maggior peso concesso nel voto in assemblea ai soci che abbiano la maggiore quota di una società. Così, con meno del 30 per cento della nuova Fiat, gli Agnelli potranno controllare la società, cosa che con le leggi italiane sull’Opa non sarebbe possibile. La sede fiscale verrà invece “opportunamente” allocata a Londra, operazione che si spiega con i vantaggi che il sitema inglese accorda a chi matura dividendi all’estero. L’azienda ha provato a dissipare questa ulteriore ombra su un gruppo industriale che ha totalmente perso le proprie radici nazionali e che dopo avere succhiato sino all’osso risorse materiali ed umane dall’Italia ora trova la scappatoia per evadere anche le tasse dovute. “Questa scelta non avrà effetti sull’imposizione fiscale cui continueranno ad essere soggette le società del gruppo nei vari Paesi in cui svolgeranno le loro attività”, ha provato a controbattere il Lingotto, ma non la pensano così neanche i fiscalisti britannici.
Infine, scelta del tutto scontata, la quotazione in borsa sarà sulla piazza newyorkese, a Wall Street, forse già dal 1° ottobre. A Milano rimarrà la quotazione secondaria del gruppo. E’ sul mercato americano che Fca andrà a drenare capitali. Ed è lì che restituirà qualcosa, avendo di fronte un governo che forse non si limiterà a fare da zerbino.
E’ chiaro come il sole che le produzioni e l’occupazione in Italia rappresentano per il nuovo player internazionale l’ultima delle preoccupazioni. Lo hanno perfettamente compreso anche gli osservatori internazionali. ”Arrivederci Italia!”, titola il quotidiano economico tedesco Handelsblatt. Il giornale racconta che in Italia “è scoppiato il panico per il timore che parte di Fiat possa essere trasferita all’estero”, anche se “il passaggio è in corso già da tempo: dal 1990 il numero delle vetture prodotte in Italia è crollato da 1,9 milioni ad appena 400mila nel 2012″.
Sfidando il ridicolo, Enrico Letta, e lui solo, si rallegra. Va raccontando che un gruppo a “vocazione globale” come Fca potrà fare gli investimenti necessari a garantire il lavoro anche in Italia. E finge di non accorgersi che il piatto è vuoto. Come il il più genuflesso dei servi, prende ceffoni e ringrazia.
P.s.: Pardon, ho commesso una grave dimenticanza a cui pongo subito riparo. Fra chi esulta di fronte a questo nuovo, esaltante successo del gotha dell’italica borghesia industriale non poteva mancare Piero Fassino che si è in queste ore sperticato in un’appassionata difesa della “lungimiranza” con cui l’azienda di Torino e quella di Detroit, fondendosi, si sono trasformate da brutti anatroccoli quali erano in uno splendido cigno. Ma l’attuale sindaco di Torino ha dalla sua tutta una gloriosa storia che testimonia dell’indistruttibile sodalizio che lo ha sempre legato, in tutte le stagioni, ai padroni della Fiat.
C’è un prequel famoso, nel curriculum dell’ex-ex-ex-comunista, ora dirigente del Pd, che risulta certo ancor oggi indimenticabile per gli operai della Fiat che nel 1980 combatterono una straordinaria – e ahinoi perdente – battaglia di libertà contro l’impresa che incarnava la riscossa del capitale contro le conquiste operaie che lungo il decennio precedente avevano cambiato il volto dell’Italia. Ebbene, anche allora Fassino sosteneva che la Fiat avesse perfettamente ragione e che “chi si opponeva non era altro che un demagogo romantico in lotta contro la modernità”, ovvero mercato a gogò e globalizzazione. Come si può vedere, una coerenza adamantina che descrive la drammatica parabola del movimento operaio e la corsa a ritroso della democrazia italiana.
Era il 5 settembre del 1980, quando la Fiat annunciava di avere 24.000 lavoratori in esubero. Di questi almeno 13/14.000 avrebbero dovuto essere licenziati. Iniziavano così i trentacinque giorni di lotta alla Fiat. Chi stava in fabbrica viveva direttamente l’aspetto politico dell’offensiva Fiat e delle sue conseguenze, in particolare l’inevitabile azzeramento del potere dei lavoratori nel caso di una sconfitta. Non si arrivò alle lettere di licenziamento, perché il 27 settembre cadde il governo. Poco dopo la Fiat annunciò il rinvio della procedura dei licenziamenti e la messa in cassa integrazione a zero ore per tre mesi di circa 24.000 lavoratori a partire dal 6 ottobre. Per gli operai della Fiat fu sufficiente scorrere i nominativi degli elenchi affissi ai cancelli, per capire che l’azienda voleva decapitare la presenza dei delegati in fabbrica, quel tessuto di avanguardie che erano la base del “contropotere” nei vari reparti. Come risposta alle liste di espulsione per i lavoratori, decise unilateralmente dalla Fiat, il Consiglio di fabbrica di Mirafiori approvò una mozione che dava il via al presidio di tutti i cancelli e chiedeva alle confederazioni di proclamare uno sciopero generale. Dai primi giorni di ottobre davanti agli stabilimenti Fiat, si animò, e a poco a poco prese forma, una nuova realtà sociale: il popolo dei cancelli.
Il 14 ottobre il Coordinamento dei capi e intermedi Fiat convocò un’assemblea al Teatro Nuovo di Torino. La Fiat aveva fatto le cose in grande, aveva mobilitato i dirigenti di tutto il gruppo, a loro volta questi avevano impartito ordini ai capi e a catena questi avevano telefonato a casa ai lavoratori più moderati e opportunisti. Poi avevano organizzato pullman, pulmini e auto per raccogliere tutti i disponibili e predisposto tanti bei cartelli che invocavano il diritto di lavorare. Dal Teatro Nuovo uscì un corteo silenzioso che percorse le vie cittadine passando alla storia come la “marcia dei 40.000″. Anche se non erano quarantamila, ma molti di meno, l’impatto fu evidente. Ancora oggi rimaniamo stupiti osservando le foto di quei marciatori. Fu chiamata infatti marcia, non corteo o manifestazione, termini che si addicevano ai lavoratori. Abituati ai cortei colorati, rumorosi e rombanti di slogan degli operai e delle operaie della Fiat, i “40 mila” marciatori si distinsero per il loro silenzio, per i pochi cartelli graficamente ben scritti, per il loro procedere ordinato e intruppato per le vie del centro, per il loro modo diverso di vestire: giacche, cravatte, soprabiti.
L’indomani la gente dei picchetti venne a sapere che era stata raggiunta una ipotesi di accordo tra sindacati e dirigenza. Nel pomeriggio fu convocata l’assemblea di tutti delegati Fiat con i segretari nazionali al Cinema Smeraldo, nella periferia di Torino. In quell’assemblea si ebbe immediatamente sentore della sconfitta che quell’accordo segnava. Giovanni Falcone, delegato Fiom della Carrozzeria, pronunciò una sorta di testamento politico, valido per un’intera generazione di avanguardie: “Ci sono degli accordi che non ti fanno fare dei passi avanti, che magari ti fermano sulle posizioni che hai acquisito. Dopo hai difficoltà, e riprendi il cammino. Ma questo è sicuramente un accordo che ci fa fare molti passi indietro”. Falcone proseguiva nel suo intervento, quando per ragioni di tempo venne richiamato dalla presidenza: “Non ti preoccupare, compagno. Ho anche il diritto, dopo 12 anni mi cacciano fuori, concedetemi almeno di parlare ancora, perché io credo…, credo che la possibilità come operaio Fiat, come delegato Fiat, non ce l’avrò mai più. Almeno la soddisfazione di aver chiuso in bellezza, e sono contento di tutte le lotte che ho fatto, al di là del fatto che il padrone non mi riprenda più”.
Il 16 ottobre al mattino furono convocate le assemblee operaie. Si votava sull’accordo appena firmato a Roma. Se nelle assemblee del mattino il risultato era perlomeno incerto, ma con una massiccia presenza di voti contrari, nelle assemblee del pomeriggio i no prevalsero in modo netto. Nonostante questo i vertici sindacali dissero che l’accordo era stato approvato a larga maggioranza dagli operai, dimostrando la loro volontà di chiudere quella partita iniziata un decennio prima.
Subito dopo la conclusione della lotta iniziarono nel movimento operaio le rese dei conti e fu probabilmente quel momento che segnò l’inizio della fine del sindacato dei consigli e della Flm.

Governabilità o democrazia

Postdemocrazia. Cosa c’è dietro l’ingegneria istituzionale della governabilità ad ogni costo
 
PaulPierCacciaLe regole della cac­cia alla volpe inte­res­sano per­lo­più i signori che la pra­ti­cano. E, suo mal­grado, la volpe. Dif­fi­cile imma­gi­nare che un intero popolo vi si possa appas­sio­nare.
Altret­tanto lecito è dubi­tare che gli ita­liani fre­mano per i dispo­si­tivi e le norme di quella nuova legge elet­to­rale che i media pon­gono ripe­tu­ta­mente e quo­ti­dia­na­mente al ver­tice delle loro più impel­lenti aspi­ra­zioni.
Assai più pro­ba­bile è che desi­de­rino pre­sto un qual­si­vo­glia risul­tato per non sen­tirne par­lare più e pas­sare ad altro.
Del resto, già il latino mac­che­ro­nico cor­ren­te­mente impie­gato nel desi­gnare le diverse leggi elet­to­rali è indice dell’atmosfera pro­vin­ciale e comi­ca­mente litur­gica in cui tutto il dibat­tito si svolge per par­to­rire, alla fine, qual­cosa di assai simile al già noto. Lad­dove in que­stione sono assai meno le forme della demo­cra­zia che non la distri­bu­zione delle risorse di potere tra forze poli­ti­che in disa­strosa crisi di senso e di rappresentanza.
Le argo­men­ta­zioni che i mag­giori costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani hanno oppo­sto al pro­getto di legge con­cor­dato da Renzi e Ber­lu­sconi non potreb­bero essere più sen­sate. Ma si tratta di un eser­ci­zio di razio­na­lità politico-giuridica che dif­fi­cil­mente potrà inci­dere su una sto­ria già ampia­mente scritta, non solo in Ita­lia e non da ieri. Con­verrà allora risa­lire alle spalle dell’ingegneria nor­ma­tiva che infe­sta le prime pagine per col­lo­care lo stato coma­toso in cui versa la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva nel con­te­sto, sem­pre più deci­sa­mente post­de­mo­cra­tico, che gli è proprio.
La parola chiave da cui si deve par­tire è «gover­na­bi­lità». Non risale alla notte dei tempi, ma agli anni ’80, per poi cele­brare il suo trionfo con il pas­sag­gio dal pro­por­zio­nale al mag­gio­ri­ta­rio nel 1993. Lungi dal rap­pre­sen­tare un con­cetto tecnico-giuridico il prin­ci­pio della «gover­na­bi­lità» è di natura stret­ta­mente e squi­si­ta­mente poli­tica ed è anche piut­to­sto sem­plice: con­si­ste nel met­tere i gover­nanti al riparo dai gover­nati, almeno per il tempo che inter­corre tra una sca­denza elet­to­rale e l’altra. Ed è tal­mente per­va­sivo, in que­sta sua sem­pli­cità, da potersi appli­care a uno stato nazio­nale, a una fab­brica, a una uni­ver­sità, a un sin­da­cato (lo sa bene il segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Lan­dini nel con­durre la sua bat­ta­glia per la demo­cra­zia sin­da­cale), in breve a qual­si­vo­glia orga­ni­smo col­let­tivo, con diversi gradi di potere disci­pli­nante e di durata. Ed effet­ti­va­mente a tutte que­ste realtà è stato in diversa misura applicato.
Que­sta pre­ro­ga­tiva del comando con­si­ste in primo luogo nell’escludere la pos­si­bi­lità stessa delle «crisi di governo» e cioè l’eventualità che di fronte all’esplodere di con­trad­di­zioni sociali e poli­ti­che il qua­dro gover­na­tivo si trovi costretto a scom­porsi e ridi­se­gnarsi.
La «gover­na­bi­lità» garan­ti­sce invece che, per il tempo privo di incer­tezze del suo man­dato, la mag­gio­ranza par­la­men­tare e il suo governo pos­sano eser­ci­tare il più pieno arbi­trio senza met­tere a repen­ta­glio la pro­pria sta­bi­lità.
Una ten­denza alla faci­li­ta­zione del comando, o ridu­zione della com­ples­sità come la chia­ma­vano i teo­rici più raf­fi­nati, che nes­sun bilan­cia­mento isti­tu­zio­nale, e men che meno la cor­rut­ti­bile «libertà di coscienza» dei rap­pre­sen­tanti, potrà più rimet­tere in questione.
Governi, è ovvio, ce ne sono sem­pre stati, anche nelle fasi di mag­giore insta­bi­lità (che sovente cor­ri­spon­de­vano a quelle di mag­giore svi­luppo), sog­getti, tut­ta­via, a quella neces­sità di adat­ta­mento alla tur­bo­lenza dei gover­nati che il prin­ci­pio di «gover­na­bi­lità» intende radi­cal­mente rimuo­vere.
La cre­scita costante dell’astensionismo è il segno più evi­dente del dif­fon­dersi del senso di impo­tente distanza da parte dei gover­nati e, nei casi meno ras­se­gnati, di osti­lità, che la blin­da­tura del qua­dro poli­tico determina.
Ma «gover­na­bi­lità» è anche la ban­diera dei par­titi mag­giori, i quali rispon­dono alla stessa logica delle grandi con­cen­tra­zioni eco­no­mi­che impe­gnate nella com­pe­ti­zione entro un oriz­zonte comune. Que­sto oriz­zonte comune o «regola con­di­visa» non è che la dot­trina della com­pe­ti­ti­vità libe­ri­sta non­ché la pre­tesa a una libertà di azione che non ammette vin­coli né discus­sioni. Quando si dice che l’economia domina la poli­tica, si intende soprat­tutto che la seconda si ridi­se­gna secondo gli schemi e le forme della prima. Ed è esat­ta­mente quello che i grandi par­titi mono­po­li­stici stanno facendo nell’approntare le con­di­zioni nor­ma­tive che ren­dano pos­si­bile que­sto ade­gua­mento. Senza troppo disco­starci dalla realtà potremmo con­si­de­rare le pri­ma­rie come una assem­blea degli azio­ni­sti, la dire­zione poli­tica come un con­si­glio di ammi­ni­stra­zione, il segre­ta­rio come un ammi­ni­stra­tore dele­gato e le ele­zioni poli­ti­che come la com­pe­ti­zione su un mer­cato che non lascia più spa­zio agli outsi­ders o alle pic­cole imprese più o meno artigianali.
È que­sto carat­tere post­de­mo­cra­tico dell’ordine libe­ri­sta, e il rico­no­sci­mento comune delle regole che vi pre­sie­dono, ciò che nella sostanza sot­tende l’accordo tra il Pd di Mat­teo Renzi e la rinata Forza Ita­lia di Sil­vio Ber­lu­sconi. Così come i listini della Borsa anche il duo­po­lio poli­tico non pre­vede «alter­na­tiva», ma solo alter­nanza delle rispet­tive quo­ta­zioni sul mer­cato. La nuova legge elet­to­rale costi­tui­sce un effi­cace ade­gua­mento della poli­tica a que­sto schema. Le «lar­ghe intese», che si pre­gia di aver supe­rato per sem­pre, non erano in fondo che una appli­ca­zione diversa di quello stesso dogma della «gover­na­bi­lità» ad ogni costo che essa san­ci­sce nella dot­trina dell’alternanza. Nell’un caso e nell’altro si tratta di can­cel­lare la con­flit­tua­lità sociale dalla vita collettiva.
La dimen­sione post­de­mo­cra­tica è ciò che sem­pre più acco­muna il governo dell’Europa a quelli dei sin­goli stati che la com­pon­gono e che con­tri­bui­scono in maniera deci­siva a osta­co­larne l’evoluzione poli­tica e con­ser­varne la rigi­dità tec­no­cra­tica. Non c’è da aspet­tarsi alcuna demo­cra­tiz­za­zione dell’Unione da parte di sovra­nità nazio­nali alle prese con la ridu­zione dei pro­pri spazi demo­cra­tici interni.
Sem­mai il con­tra­rio, secondo la gene­rosa e azzar­data ipo­tesi di Etienne Bali­bar che auspica un’Europa più demo­cra­tica di tutti gli stati che la compongono.
È solo su que­sta scala che un movi­mento poli­tico e un con­corso di forze che par­lino una lin­gua diversa dal latino mac­che­ro­nico potreb­bero rove­sciare la «regola comune» cui i nostri mono­po­li­sti poli­tici, nazio­nali e sovra­na­zio­nali, vor­reb­bero pie­gare le società europee.

MARCO BASCETTA
da il manifesto

L’Italia nelle mani di lor signori di Angelo d'Orsi, Micromega


Una legge elettorale peggiore del Porcellum. La “ghigliottina” per zittire il Parlamento. La vergogna del decreto IMU-Banca d’Italia. Un presidente della Repubblica non più super partes. Queste giornate di fine gennaio saranno ricordate come macchie scure nella vicenda del nostro sistema democratico.


Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi! Qualcuno annunciava la spaccatura del PD. Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto, il giovin Civati tace, mi pare. I bersaniani mordono il freno, forse, ma solo per odio a chi ha fatto cadere il loro ex leader. Gli altri “vecchi” della nomenclatura, attendono tempi migliori, badando a non esporsi troppo, usando parole vuote, ma piene di retorica. Come lo erano quelle che abbiamo udito da parte dei rappresentanti di M5S e dei loro contendenti PD, nelle deprimenti zuffe parlamentari: intendiamoci, che la signora Boldrini debba ora menare scandalo per quel che accade nel consesso da lei presieduto (certo, abbiamo avuto Irene Pivetti presidente, e dunque la Boldrini è una gran donna e una politica straordinaria, ma che pena, la sua retorica al servizio del potere!) suona bizzarro, avendo lei inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”, per bloccare il dibattito e far convertire in legge, obtorto collo, il vergognosissimo decreto IMU-Banca d’Italia.

Si era mai visto qualcosa di simile in quell’aula? A mia memoria, no. Mentre la storia parlamentare repubblicana è traboccante di incidenti, anche gravi, comprese ingiurie, colluttazioni e addirittura lanci di oggetti (narrano le cronache parlamentari di un deputato comunista che, negli anni Cinquanta, dopo aver con forza erculea divelto un seggio l’abbia scagliato verso i democristiani). Ma devo dire che di tutte le scenette a cui abbiamo assistito per me la più grottesca è stata il faccia a faccia tra due deputati, un PD e un M5S, che ripetevano, psittacisticamente, insomma, come due pappagalli ammaestrati, frasi senza senso, ossia di repertorio, che ricordavano i famigerati “Capra! Capra! Capra!” e via seguitando dell’orrido Sgarbi nei programmi spazzatura della televisione.

L’iterazione è, come si sa, un espediente cui si ricorre in mancanza di capacità argomentativa: certo, che l’onorevole Speranza, col suo faccino compunto da bravo scolaretto, che ripete con voce tesa al suo contendente il mantra “Voi state ostacolando la democrazia” appariva ridicolo, a dir poco: ma nessuno gli ha spiegato che l’ostruzionismo è una tattica parlamentare alle quali tutte le forze politiche hanno fatto e fanno ricorso? Nessuno gli ha detto che la sinistra è stata, lodevolmente, maestra in tale genere di tattica, per fermare provvedimenti liberticidi, o nemici delle classi popolari?


E che dire della reazione generale di scandalo, perché qualcuno osa dire che Napolitano si sta comportando più da capo di governo che da capo di Stato? Si tratta di una osservazione persino banale, che una gran parte dei commentatori indipendenti tanto in patria quanto all’estero ha avuto modo di fare. L’abbiamo scritto anche noi, di MicroMega, qui, più volte, su questo spazio; e l’ho sostenuto io stesso. E ancora per quanto concerne l’inclita signora Boldrini, sia consentito rilevare che, accanto alle solenni reprimende della certamente indecorosa seduta parlamentare, non ha trovato modo di dire una parola di solidarietà per la collega deputata (forse perché di M5S?) duramente colpita da un energumeno di “Scelta civica”, al quale forse si dovrebbe insegnare un po’ di civismo. Ma più ancora offende il fatto che ella, come del resto il presidente della Repubblica, e il presidente del Senato, si comportino come parte integrante dell’Esecutivo: la giustificazione data dalla Boldrini che il suo stop alla discussione aveva il solo scopo di impedire che “gli italiani” (quali? E in quale misura?), pagassero la seconda rata dell’IMU è una offesa alla decenza. E si potrebbe seguitare.

Stiamo, in sintesi, assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (Esecutivo e Legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche (PD-FI e il resto della minuteria “moderata” ormai vanno verso una identità sostanziale, con leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali), che toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici.

E ancora: come possiamo ancora distinguere la CGIL (di CISL e UIL manco vale la pena di parlare, tanto appiattiti sono ormai da anni sulle logiche padronali) dalla voce del padrone? Il decreto per la “ricapitalizzazione” della Banca d’Italia, che implica un gigantesco regalo alle grandi banche, è un esempio paradigmatico; come lo è il silenzio ossequiente verso le scellerate scelte “strategiche” di Marchionne e dell’”azionista di riferimento” Fiat (Agnelli-Elkann), che meriterebbero risposte adeguate, e così via, non dimenticando la vicenda degli F35 (appena dichiarati pericolosi e costosi dal Pentagono! Mentre il governo Letta, quello “virtuoso”, persevera nella politica delle commesse alle multinazionali produttrici di questi giocattoli di guerra), o quella del TAV, o del MUOS, eccetera eccetera.

Insomma, un catalogo di orrori che sta facendo toccare con mano quanto fossero esatte le funeste previsioni all’ascesa alla guida del PD del giovane rottamatore, che sta inanellando una vittoria dopo l’altra, nel silenzio complice o inerte degli uni, o nell’adesione convinta o necessitata degli altri. Ma le vittorie di Renzi sono altrettante sconfitte della democrazia. E le giornate di fine gennaio saranno ricordate come macchie scure nella vicenda dello stesso sistema liberal-democratico. E non certo per i chiassosi e spesso rozzi, spessissimo irritanti e ignoranti “grillini”, ma per il delitto perfetto che è stato consumato dai “democratici” Renzi e Letta, sotto la regia di Napolitano, con la benevolenza istituzionale dei presidenti delle Camere, e soprattutto la complicità attiva e interessatissima del riesumato Berlusconi e della sua gang.

Ora non paghi di una legge elettorale che, come è stato notato, è persino peggiore della precedente (il “Porcellum” da tanti vituperato, e ora imitato), e prelude a uno scenario cimiteriale, dove due partitoni indistinguibili, come sovente sono laburisti e conservatori in Gran Bretagna, democratici e repubblicani negli Usa, occuperanno l’intero panorama politico. E questa sarebbe la “moderna democrazia” a cui si vuole arrivare? Ma non basta: una nuova gioiosa macchina da guerra avanza. La guida il piccolo duce, alias Renzi, nello stupefatto balbettio della minoranza interna, nella soddisfazione di chi l’ha votato, stanco dell’immobilismo bersaniano, e, infine, nell’entusiasmo di chi lo chiama “Matteo” e lo acclama come la star da opporre finalmente al Berlusconi, e capace di fermare il “fenomeno Grillo”.

Guadagnato il fortilizio elettorale, con una ultima ignominiosa correzione per impedire che la Lega Nord (un partito che proclama la secessione dall’Italia!) esca dal giro, la macchina marcia verso la Costituzione, che da almeno tre decenni i soloni del “novitismo”, delle “riforme” e della “governabilità”, hanno classificato come “obsoleta”: e in quattro e quattr’otto lo si farà, recando una ferita che non sarà più possibile rimarginare, neppure quando ci si liberasse del Berluscone e del Berluschino. Occorrerà una rivoluzione (si penserà poi all’etichetta), per restituire dignità al Paese e valore alle sue leggi, rinnovando completamente la sua classe dirigente. Ma dietro l’angolo la rivoluzione non si vede: si vedono proteste, jacqueries, ribellioni, uno scontento generale e gigantesco che si traduce anche, per fortuna, in atti di resistenza, che, in realtà numerosissimi e diffusi, hanno il solo torto di non essere coordinati e spesso neppure conosciuti.

Il che vuol dire che davanti a questo sfascio, se si prende atto che l’alternativa tra PD e tutta l’ammucchiata di centrodestra è ormai fasulla, non solo ribellarsi è giusto ma è anche possibile. Lo è perché M5S non rappresenta l’alternativa, e al di là delle simpatie che si possano provare per il movimento, o quanto meno per talune delle sue istanze, o delle idiosincrasie per i due capetti che lo tengono (finora) in pugno, o del fastidio per tanti suoi ridicoli esponenti (basti pensare a Vito Crimi, degno del senatore Razzi imitato dal comico Crozza), ebbene, oggi solo questi ragazzacci stanno provando ad alzare la voce contro lo schifo, anche se poi essi stessi per tanti versi ne sono contaminati. Stanno “facendo ammuina”, certo, ed è poco, e spesso insopportabile nei modi, nelle volgarità, nelle manifestazioni di ignoranza; ma è meglio di nulla. E mentre siamo disgustati di aver sentito il canto di Bella ciao, sulle bocche dei deputati piddini, per difendere il decreto IMU-Bankitalia, certo non ci è piaciuto il “Boia chi molla!”, dei “grillini”, Eppure, come è stato
osservato da Alessandro Gilioli: “È davvero notevole lo sforzo con cui il Pd, Forza Italia, Boldrini e Napolitano stanno trasportando verso il Movimento 5 Stelle anche gli italiani meno attratti da Grillo e Casaleggio”.

Ciò malgrado, noi, noi che, schierati da sempre contro il berlusconismo, cancro morale del Paese, noi che non siamo disposti ad andare all’abbraccio con Grillo e Casaleggio, noi che siamo schifati di tutte le scelte del Partito Democratico, noi che siamo delusi di un Vendola rimasto capace di affabulare solo se stesso allo specchio, noi che abbiamo atteso finora invano un gesto serio (di autocritica e di rilancio unitario) da parte dei responsabili della ”vera sinistra” rimasti in posizione perlopiù autoreferenziale, noi che faremo? Ci rifugeremo nell’astensionismo, decidendo di abbandonare le istituzioni nelle grinfie di lorsignori? O addirittura smetteremo di pensare politicamente, rifugiandoci ciascuno nel suo proprio cenobio?

Forse ora, non in attesa di tempi migliori, ma decisi a costruirli, quei tempi, ci tocca, ancora una volta, ricominciare il gramsciano lavorio lungo e tenace, a carattere culturale, ma non soltanto; occorre anche lavorare sul terreno sociale, dando ciascuno il suo modesto contributo per connettere le tante isole di opposizione allo schifo. Un’altra Italia esiste, insomma. E non è così piccola e debole, non ancora. Perciò anche se questa battaglia forse è già perduta, la guerra continua e il combattimento va rilanciato subito, prima che ci schiaccino completamente. E, resistendo allo scoramento, occorre provare ancora una volta a rimettere insieme i pezzi di ciò che sinistra significa o dovrebbe significare, mettendo da parte diffidenze e preclusioni, e sottolineando ciò che deve unire quanti sono contro lorsignori: la situazione è grave, non diamo una mano al nemico.

Correre dietro ai polacchi non ci rende meno italiani di Alessandro Robecchi, Micromega



La pericolosa moda del bus surfing
E’ vero che se corri dietro al tram risparmi un euro e mezzo, ma se corri dietro a un taxi riesci a risparmiare molto di più.Che questa scemenza sia applicabile all’economia, e quindi alla vita delle persone, non fa ridere per niente. Eppure è quello che ci sentiremmo di suggerire alla Electrolux, la multinazionale degli elettrodomestici che ha proposto ai suoi lavoratori un accordo che suona più o meno così: noi vi molliamo qui e andiamo a fare le nostre lavatrici in Polonia, a meno che voi non accettiate di prendere salari polacchi.

In pratica si tratta di una riduzione di stipendio di quasi il cinquanta per cento: quello che prima facevi per 1.400 euro, domani potresti farlo per 700. Se no a casa. Prendere o lasciare che si direbbe, dall’economia, alla politica, alle riforme, pare la moda del momento. Vedete anche voi che la formuletta del tram e del taxi è una metafora perfetta: perché diavolo inseguire stipendi polacchi quando si potrebbero rincorrere addirittura quelli cinesi? E perché limitarsi agli stipendi cinesi quando si potrebbero pagare stipendi cambogiani? Il fatto è che c’è sempre qualcuno che è il polacco di qualcun altro (o il cinese, o il cambogiano…) e quindi non si finisce più: la corsa al ribasso è una specie di toboga insaponato dove si prende velocità e non si riesce a frenare.
Ma certo, certo, non c’è dubbio che la faccenda non sia così semplice. Non c’è dubbio che sul costo del lavoro alla Electolux (come ovunque in Italia) pesino anche altri fattori. Le tasse sul lavoro, i costi, il famoso cuneo fiscale eccetera eccetera. Bene. Ridurre, tagliare lì e non dalle tasche dei lavoratori, tutto giusto, tutto bello e assai riformista. Però. Però non c’è niente da fare: se costruire una lavatrice in Italia costa 24 euro all’ora e in Polonia costa 8, non bastano né i tagli al costo del lavoro, né i tagli al cuneo fiscale, né riti propiziatori, né mani benedette, né ometti della provvidenza. Restano i sacrifici umani, quelli sì: sui lavoratori. E in più, della proposta Electrolux non si calcola un piccolo dettaglio. Che i lavoratori prenderebbero stipendi polacchi, ma non abiterebbero in Polonia. Continuerebbero a pagare affitti o mutui italiani, a comprare cibo nel supermercati italiani e a far benzina in Italia, che Varsavia gli viene un po’ scomoda.
Dunque, non per tirare in ballo il vecchio maestro Keynes (ma anche il signor Ford, che fece il botto vendendo le Ford agli operai della Ford), se ne deduce che oggi, con il suo stipendio, un lavoratore dell’Elecrolux potrebbe forse permettersi di comprare una lavatrice Electrolux, ma domani, con il suo stipendio polacco, non potrà più. Meno soldi in tasca a chi lavora, quindi meno consumi interni, quindi nuovi lavoratori in esubero, quindi nuove riduzioni di salario. E’ la famosa manina magica del mercato che sistema tutto, a favore del mercato, naturalmente.
Ecco: per portarsi avanti col lavoro, meglio forse cominciare a studiare la piantina di Pechino o cercare un bilocale a Phnom Penh. Certo, urge un taglio delle tasse sul lavoro, non c’è dubbio, e dei costi dell’energia, non c’è dubbio, e una politica industriale, non c’è dubbio. Nel frattempo, sarebbe bello non diventare troppo polacchi, troppo cinesi o troppo cambogiani, continuando a fare la spesa qui. Potendo ancora sognare in italiano e non in polacco, sarebbe bello avere uno Stato che offra buone condizioni a chi viene a investire e a produrre, ovvio, giusto, ma anche che chieda garanzie e imponga qualche obbligo.

"Italicum": L'incostituzionalità nascosta nel doppio turno e gli sbarramenti

Governabilità e rappresentanza, questi i cardini sui quali, a seguito della sentenza della Consulta, dovrebbe cercare di reggersi la legge elettorale.
Sì, va bene, ma i numeri a cui fare riferimento, come deciderli?
È giusto “vincere” al 35%, o è più giusto al 37 o al 40%?
Ed è giusto, nella logica di una legge elettorale in grado di assegnare, al primo turno o al ballottaggio, un premio di maggioranza, poter decidere anche il livello di NON rappresentanza per le forze minori di opposizione?
Se c’è un vincitore sicuro, con la maggioranza parlamentare assicurata dal meccanismo elettorale, per quale motivo fare terra bruciata di milioni di voti di opposizione?

Per quale motivo alterare l’espressione della sovranità popolare anche dal lato della futura opposizione, se l’obiettivo della governabilità risulta in ogni caso assicurato dal premio di maggioranza?
Per un motivo molto semplice che si chiama voto utile
; un voto peraltro ugualmente utile se gli elettori “nemici” smettono di votare.
Per i partiti maggiori, infatti, che l’elettore destinato a rimanere senza rappresentanza decida di non votare, ben venga : meno voti validi rispetto ai quali fare i conti per la soglia, e meglio sarà per loro, con le percentuali destinate a salire.
Ed eccolo quindi qui il primo doppio trucco: alte soglie di sbarramento per essere votati per amore o per forza, altrimenti tanto varrebbe rimanere a casa; e se si rimane a casa va bene lo stesso, perché i conti si fanno sui voti validi (nota veloce al riguardo: alle prossime elezioni si va tutti a votare, anche la lista della nonna, pur di non regalare le finte percentuali in grado di nascondere i numeri reali).
Sempre sulle soglie di sbarramento si potrebbe inoltre scrivere un volume di 1.000 pagine, tante sono le possibili combinazioni, bizzarre, che dal modello Renzi-Berlusconi potrebbero sorgere.
Dalla coalizione dove un solo partito al 20-30% potrebbe assicurarsi la maggioranza dei seggi; alla coalizione che supera lo sbarramento del 12% ma che potrebbe non avere al suo interno liste al di sopra del 4,5%. Per non dire, poi, del diverso peso dei voti localmente concentrati, norma salva Lega, rispetto a quelli distribuiti uniformemente su tutto il territorio nazionale; nonché il diverso peso del voto se indirizzato verso le liste coalizzate o no, con due diverse soglie di sbarramento, 4,5% ed 8%, a punire severamente l’elettorato che non si riconosce nelle coalizioni.

Un incredibile guazzabuglio che mette sotto i piedi la sentenza della Consulta e che si stenta a comprendere come possa essere stato preso nella pur minima considerazione.
E sì, nel ritrovarsi a commentare un simile progetto di legge, è forte l’impressione di trovarsi a “scherzi a parte”.

Ma non è finita qui.
Non contenti di aver introdotto soglie di sbarramento che costringeranno gli elettori a votare solo per le forze politiche maggiori, o rimanere a casa,
portando in ogni caso benefici al risultato percentuale di chi ambisce al premio di maggioranza, il duo Renzi-Berlusconi ha introdotto il secondo turno nel caso nessuna lista o coalizione riesca a raggiungere la soglia del 37% dei voti validi.
Un secondo turno dove se votano solo in 5 poco importa, con tanti saluti alle soglie richieste per poter “legittimare” l’assegnazione del premio di maggioranza. Chi prende 3 voti intasca il premio.
Il tutto giustificato dalla necessità di avere un vincitore a tutti i costi ed un governo senza problemi. Una stravaganza tutta italiana, visto che neanche negli Usa, Francia e Inghilterra, i tre paesi sempre presi a modello dai fondamentalisti del maggioritario, esiste una simile certezza:
1) il democratico Obama vince ma deve fare i conti con un Congresso di diverso orientamento;
2) analoghi problemi con il semipresidenzialismo francese;
3) governi di coalizione, infine, formati dopo le elezioni, sono spesso la norma sia per la Francia che per l'Inghilterra.

Che senso ha, allora, discutere di 2-3 punti percentuali in più o in meno al primo turno, se poi il premio di maggioranza verrà lo stesso assegnato al ballottaggio, ma senza alcuna certezza riguardo alla sussistenza di un effettivo equilibrio tra le due diverse esigenze, governabilità e rappresentanza?Un altro doppio trucco, utile solo per nascondere i numeri reali ed aggirare la sentenza della Consulta.
Perché non soltanto si concorre solo in due, cioè “senza concorrenti”, divenendo quindi più semplice attirare voti altrimenti insperati, ma perché non ci sarà più neanche bisogno di dover raggiungere la soglia di voti già mancata al primo turno.
Al ballottaggio votano solo in 10? Bene, vuol dire che saranno sufficienti solo 6 voti per vincere largamente con un brillante 60%.

Ciò che pertanto manca nel doppio turno dell’Italicum, è la previsione, al fine di garantire una meno scorretta rappresentazione della sovranità popolare, così come appunto indicato dalla Corte Costituzionale, di una soglia minima di voti in relazione, però, ai votanti del primo turno.
Se non si è stati in grado di ottenere tot voti nel primo turno, i soli che potrebbero permettere di acquisire il premio di maggioranza, ci si deve riuscire nel secondo, perché non può essere sufficiente arrivare primi, altrimenti, ma di quale perfezionamento della volontà degli elettori stiamo parlando?
Al di là, pertanto, delle giuste osservazioni circa l’esigenza di alzare ulteriormente la soglia ora fissata al 37%, se non si interviene sui meccanismi di assegnazione del premio di maggioranza al secondo turno, nonché sull’incredibile forzatura e caos determinati dalle pesanti e diversificate soglie di sbarramento, Porcellum era, Porcellum rimarrà. Anzi: qualcosa di anche peggio.
PS: e sulle liste bloccate, neanche una parola?
Ebbene sì, non se ne può più di sentir ripetere sempre le stesse cose, per cui va bene, si alza bandiera bianca.
Con le preferenze aumenterebbero le infiltrazioni mafiose, la corruzione, il clientelismo e il voto di scambio, tutte cose che con le primarie non succederebbero (perché, poi, mai nessuno che l’abbia spiegato).
E tutto questo malaffare, per ottenere cosa?
Per eleggere dei manigoldi che, però, non ci sarebbero se qualcuno non li candidasse.
E sì, i partiti possono candidare personaggi che puzzano di mafia, ma per il loro arrivo in Parlamento non possono esserci dubbi: tutta colpa del voto di preferenza.


di Franco Ragusa, Riforme.net
  

giovedì 30 gennaio 2014

Il Pentagono certifica: gli F35 sono un bidone di Il Simplicissimus

Ci scommetto: il sistema politico italiano avrà un sussulto di dignità e per una volta farà carta straccia delle indicazioni del Pentagono. Peccato che non sia prevista anche una medaglia al valor di tangente, l’unica capace di infrangere la sudditanzacoloniale. Il fatto è che il supremo organo militare statunitense ha stilato un rapporto sul caccia il cui acquisto ci costerà una marea di miliardi, certificando in via ufficiale ciò che già si sapeva dai tanti rapporti che si susseguono da anni senza che i vari governi italiani si siano sognati di bloccare l’acquisto: l’ F35 è un bidone.
  • Il rapporto dice che le prestazioni dell’aereo sono “immature” e dunque “inaccettabili” per le operazioni di combattimento.
  • Che il costo della manutenzione è tre volte superiore alle specifiche richieste.
  • Che i test sull’affidabilità raggiungono a mala pena il 37% dei risultati e il 30% per il modello da portaerei
  • Che l’aereo è troppo pesante e lento
  • Che il software è pieno di errori
  • Che il sistema virtuale di guida con relativo e costosissimo casco fa vedere immagini incerte e traballanti
  • Che temporali e fulmini mettono in serio pericolo l’apparecchio
  • Che è stato condotto a termine solo il 54% dei test previsti e il 21% di essi ha rivelato la necessità di rimettere mano al progetto
  • Che ci sono stati pochissimi progressi nel rimediare ai difetti dell’aereo
  • Che a questo punto è necessario comparare sul campo l’F35 agli altri aerei in dotazione delle forze armate Usa per chiarire se questo apparecchio non rappresenti in realtà un grosso passo indietro
E’ chiarissimo che quanto meno ci saranno enormi ritardi nella consegna del caccia e che i prezzi andranno oltre ogni record oppure bisognerà rassegnarsi ad usare gli F. 35 solo come addestratori di superlusso vista l’impossibilità allo stato attuale dell’arte di pensare a un loro impegno bellico.
Tombola. Eppure nessuna reazione viene dai comandi militari e men che meno dall’altro comando renzusconico che invece è fermamente deciso ad eliminare qualsiasi resistenza sull’acquisto del caccia ben sapendo che questo rapporto del Pentagono significa in primo luogo che occorrerà stanziare parecchio di più dei 13 miliardi ufficiali senza contare i costi sempre più stratosferici della manutenzione e dell’addestramento: il tutto per avere in cambio una ciofeca. Così un’inconcepibile spreco di soldi pubblici in tempi di vacche magrissime, si trasforma ufficialmente in una vera e propria truffa del sistema politico nei confronti dei cittadini.

Rivoluzione, non sinistra. Diciassette appunti contro la disillusione organizzata

 

di Roberto Ciccarelli, Esseblog
 
1. L’avvenire della sinistra non è il nostro avvenire. Così come quello del Pd, di Vendola, di Matteo Renzi, di Berlusconi, di Tsipras o di Grillo non è il nostro. C’è una confusione che fa soffrire, tra chi parla dell’avvenire di riforme o di rivoluzioni, come fa la politica, e il divenire di ciascuno. Non sono mai stati la stessa cosa e tuttavia – ieri e come oggi – la politica si fonda sulla confusione tra questi piani. Da un lato, c’è chi sempre parla di un futuro generico che riguarda tutti. Dall’altro lato, c’è sempre chi cerca in questo racconto di trovare uno spazio per sé. Mai che si parli di un divenire a partire da sé, si parla solo di quale spazio trovare all’interno di una casa già arredata. Il singolo deve trovare la forma per adattarsi ai concetti esistenti.
2. La sinistra è un concetto che rimanda ad un’idea di futuro e di giustizia sociale per tutti. Questa è tuttavia solo l’origine del concetto. Poi c’è la realtà storica. Quando oggi si parla di sinistra, si parla di una storia di fallimenti. Chi tiene a questa idea, “sinistra”, rileva il punto di vista dello storico malinconico: tutte le rivoluzioni sono destinate a fallire. Quella americana, francese, sovietica, e poi i movimenti. C’è un aspetto autoconsolatorio nel parlare di “sinistra”, nell’appartenere a questo campo dello spirito, nemmeno più elettorale: tutte le rivoluzioni sono destinate a fallire. Sinistra è la strada che mostra il cinismo dell’“uomo” del Dopo storia. Lì dove finiscono le potenzialità del presente, ecco nascere un discorso sulla sinistra che evoca un “mondo nuovo”, una discontinuità, un’alternativa oltre la gabbia del presente.
3. Chi dice che le rivoluzioni sono destinate a fallire? Lo storico, il politico di professione o il burocrate. Chi dice che c’è sempre uno spazio per il divenire rivoluzionario di ciascuno?
Chi sa che le rivoluzioni falliscono ma questo non ha mai impedito che una persona diventi rivoluzionaria. Il problema non è l’assetto ottimale tra gruppi, reti o forze politiche che rendano possibile l’incarnazione di un’idea di sinistra. Il problema è più concreto: perché e come le persone diventano rivoluzionarie. Chi crede nella prima prospettiva, passa il tempo a difendersi da un discorso parlato da tutti, a destra al centro e a sinistra: risaliamo all’inizio – dicono – è da quel tempo che l’avvenire è così fosco, perché tutto è fosco già fin dall’inizio. Fortunatamente, la disillusione, l’impotenza, non impediranno un divenire diverso.
4. Gilles Deleuze sostiene che la sinistra non è una questione di giustizia. È una questione di giurisprudenza. Definizione provocatoria che sposta il rapporto tra la giustizia e il diritto. Ciò che fonda la giustizia è l’invenzione di un nuovo diritto che vale per qualsiasi applicazione. Un nuovo diritto nasce invece da un caso specifico, vale a dire dalla creazione di norme, regole, comportamenti a partire dal divenire di ciascuno. Tanto più si parla di divenire, quanto più si dovranno inventare giurisprudenze che evitano l’abominio, lo sfruttamento e l’ingiustizia. Caso dopo caso, passo dopo passo, seguendo e potenziando la vita di chi si trova in questo caso o deve fare un passo piuttosto che un altro. La giustizia, e quindi la sinistra, lavora per prevedere tutto alla luce di un concetto universale. La giurisprudenza, e quindi il divenire, lavora per dare voce al singolo evento e a quel singolo che vive, soffre o si afferma in quel dato, specifico, evento. Sinistra è parlare di tutti i casi alla luce di una verità, stabilire il diritto di questo o di quello. Parlare invece di un divenire rivoluzionario significa parlare di una situazione e di una situazione che crea diritto per tutti.
5. Sinistra significa dividere la realtà tra una maggioranza e una minoranza. Tra chi decide, e governa, e chi obbedisce, ed esegue. Sinistra è dire sia che bisogna fare gli interessi di una minoranza, sia non rifugiarsi nel campo dei subordinati e rivendica un’identità minoritaria. Fare politica, a sinistra come altrove, significa dunque diventare maggioranza. Perché chi è minoranza non decide nulla ed esegue gli ordini. Sinistra è vivere in un mondo gerarchico dove la decisione democratica viene presa in nome di molti per la tutela dei pochi. Questa distinzione è una costante in tutta la storia della sinistra comunista, socialista e di tutte le loro derivazioni. Nonostante quarant’anni di differenza sessuale, sinistra oggi è stabilire una maggiorità che implica una costante ideale, un metro campione in base al quale può essere valutata e con il quale valutare la quantità della minorità. Sinistra significa collocarsi nella terra di mezzo che è un cattivo trascendentale rispetto a quelli puri di libertà, fraternità o uguaglianza. Si resta minoritari, ma con il desiderio fantasmatico di essere una maggioranza. Supponiamo che questa maggiorità, cioè il metro campione, sia il pilastro sul quale è costruita la democrazia liberale: l’uomo-maschio-capofamiglia-ragionevole-eterosessuale-cittadino. L’Uomo è “maggiore”, cioè ha raggiunto l’età adulta, rispetto alla donna, all’immigrato, al marginale, al bambino, all’omosessuale o alla lesbica. Chi si riconosce nella maggiorità suppone uno stato di diritto, il dominio della legge nel quale far entrare o tutelare la minoranza che non è padrone di tale maggiorità (cioè non è ancora adulta). In questo modo è la maggioranza che presuppone l’esistenza di una minoranza, non viceversa.
6. Cosa significa essere maggioranza? Far parte, o aspirare ad entrare, in un soggetto anonimo. Il Nessuno, senza sesso, né individualità. Una pura identità astratta che si esprime nel voto di un’assemblea, parlamentare ad esempio. Si può passare tutta la vita sperando di diventare Nessuno e decidere, come in un tribunale, ciò che è maggioritario e cosa minoritario per tutti, ciò che è bene per tutti e male per pochi. Questo assetto della realtà ha provocato sofferenze, insoddisfazioni, rivolte. Per quale motivo? Non è questa la normale dialettica politica in una democrazia? Chi vince non deve governare? Certamente, ma tutti i sistemi democratici o comunisti si sono impegnati a neutralizzare il disagio dell’egemonia della maggioranza sulla minoranza. Questo è un problema enorme per tutte le democrazie che hanno approntato una solida disciplina giuridica per la tutela delle minoranze e una filosofia della tolleranza per governare l’ambivalenza e l’estrema incertezza nel definire il torto, o il malinteso, che in ogni istante una maggioranza può arrecare a una minoranza. Per sua costituzione, la sinistra si è collocata sul crinale di questa ambivalenza, cercando di governarla.
7. I populisti parlano di rivoluzione in un ritornello che serve a entrare nei titoli dei telegiornali. Di cosa parlano, in realtà? La “rivoluzione” è riportare il popolo al centro della decisione politica. Riportare gli Stati alla sovranità monetaria, perché la sovranità popolare è tutt’uno con il denaro e la capacità di produrlo da parte di uno Stato. Sarebbe rivoluzionaria l’istituzione di una “comunità” nella quale le relazioni tra i cittadini riescano a supplire alle mancanze di un’economia che non crescerà e non assicurerà il benessere diffuso tra il 1945 e il 1975, il Dopoguerra quando il Pil cresceva del 5-7-10%. i rapporti umani contro la povertà. Il calore della comunità umana contro la freddezza della dittatura tecnocratica dell’Eurocrazia. Questa ipotesi si sposerebbe bene anche con la Costituzione italiana che aggiunge: bisogna garantire il lavoro in quanto questa repubblica è fondata sul Lavoro. Senza aggettivi. Quindi significa essere messi al lavoro, non importa quale. Al di là di interpretazioni che vedono un “fascismo” nei populismi contemporanei, credo che alla base di queste formulazioni ci sia l’idea di restaurare il Trentennio glorioso, dove tutti avevano accesso ad una ricchezza. Questa è chiaramente una falsità, soprattutto se legata ad un’idea della rivoluzione del “tutti a casa”. Visto che proprio quel trentennio si è concluso con la sconfitta se non di una rivoluzione sociale, almeno di una riforma radicale delle istituzioni. La rivoluzione è un salto all’indietro, per ristabilire l’equilibrio edenico che non è mai esistito e le disparità allora esistenti. Si pensa che siano inferiori a quella attuali. Ma potrebbero essere ben peggiori.
8. Perché allora parlare di rivoluzione, se l’unico orizzonte possibile sembra quello indicato dai populisti? Rispetto al cinismo della sinistra, la parola “rivoluzione” è indicibile. Inconcepibile per tutti gli altri, in un mondo ormai perfetto, compiuto. Il mondo del Dopo storia, appunto. In fondo, qui la “rivoluzione” è sempre la riproposizione di se stessi. Questo divenire inizia quando viene riconosciuto un torto. Non parlo solo di un torto personale, un’offesa, una ferita. Parlo di un torto che divide il mondo in due, o in più parti. Quell’atto che non divide la popolazione in una maggioranza e una minoranza, ma crea una diseguaglianza all’interno dei molti come dei pochi. La maggioranza e la minoranza si spaccano, si riformano, iniziano un movimento che crea politica, un discorso sull’evento, si crea una tensione nella creazione di un diritto. In questa situazione è difficile distinguere una maggioranza da una minoranza. Anzi, il problema della politica che afferma una rivoluzione contro il torto sta nello sfuggire tanto all’una quanto all’altra per istituire un nuovo diritto comune. Allora il problema non è conquistare una maggiorità, ma mobilitare queste forze per istituire un diritto. Nell’opposizione al torto e nell’istituzione di un nuovo diritto si scatena un divenire di tutti e del loro potenziale, e quindi dei singoli, che compongono questo divenire, nel momento in cui esso avviene.
9. All’origine del divenire c’è un fatto maggioritario, nel senso che viene riconosciuto da tutti, anche se sono in pochi, o anche nessuno, a sapere come si fa a contrastarlo e a creare un’alternativa. In questo caso, non c’è una maggioranza, ma si pone il problema di come essere all’altezza del torto compiuto e come trovare la strada per ritornare a vivere nel mondo. Allora, proprio in questo momento, nell’istante di una distrazione, di un’immaginazione o di una bellezza improvvisa, si trova una strada. Si diviene altro, in uno spazio che si spalanca imprevedibile, dove non c’è ancora una divisione tra maggioranza e minoranza. Questo spazio è sempre da costruire, più che attenderlo, bisogna passare il tempo per mettersi all’altezza del problema, cioè come costruire uno spazio dove cambia il rapporto tra chi comanda e chi obbedisce? La politica esclude la possibilità per cui il rapporto tra il dominante e il dominato, anche in nome della legge, possa essere trasformato e persino rovesciato. Non lo farà certamente la destra. Perché non può farlo la sinistra? Perché ciò che la tradizione, e il presente, ci hanno consegnato in questo concetto di sinistra tende a rendere insuperabile già il primo movimento del divenire, cioè la rottura della barriera tra maggioranza e minoranza. La sinistra, per come l’abbiamo conosciuta dopo la caduta del muro di Berlino, rifugge dal divenire di tutti.
10. È difficile, ad esempio, identificare la “classe”, e il suo movimento (l’in sé e il per sé) indicato da Marx nella semplice categoria di sinistra. Il movimento operaio, quando ha iniziato a costituirsi in sindacato e poi nei vari partiti, ha riscontrato il limite dell’appartenenza alla sinistra dello schieramento parlamentare, sebbene poi in questo parlamento abbia trovato una collocazione. A cosa è dovuta questa eccedenza? Qualcuno sostiene alla differenza tra il “sociale” e il “politico”. All’inizio la sinistra avrebbe preferito il “sociale”, in seguito la “politica”. Alcuni pensano che bisogna tornare al “sociale” e viceversa. Questa idea ha diviso una buona parte del pensiero politico in Italia, e non solo. Ho l’impressione che questa distinzione, che pure esiste, non colga il problema dell’eccedenza di un movimento rispetto alla norma di un’appartenenza, il divenire rivoluzionario rispetto al metro della sinistra. Non solo perché alla “società” (civile o meno) è difficile riconoscere una purezza in natura, o un’autenticità, ma anche perché alla politica – oggi come ieri – è difficile attribuire un’“autonomia” distaccata dai soggetti che la esprimono. O meglio, questo è possibile e lo fanno le procedure della democrazia amministrata (la cosiddetta governance) espressa dal neoliberismo e dall’austerità. Dal ceppo neoliberale di queste politiche discende, tra l’altro, anche l’idea che la società sia naturalmente governabile in nome del diritto, della meritocrazia, ma anche dell’uguaglianza e della giustizia. Una conoscenza minima delle teorie neoliberali, che non sempre coincidono, con le politiche neoliberiste, attesta la pretesa di coniugare principi e valori tra loro realmente inconciliabili. Molta della schizofrenia della politica contemporanea, e della sinistra, deriva da qui.
11. Questo divenire si manifesta in prima istanza come eccedenza, poi come irruzione di una novità nella vita dei singoli, infine come conflitto per la creazione di un diritto (la giurisprudenza della vita di cui parla Deleuze). Questo si traduce in una tensione, contraria alla passività dominante, e dipende interamente dalla capacità di riconoscere e sapere autogovernare una discontinuità, uno choc, un lutto oppure una scelta. Nessuno è mai pronto, e quasi mai esistono gli strumenti per mettere persino in parola questa situazione. Viene tradotta nei termini di una questione personale, mai come un problema comune. Anzi, si cerca in ogni modo di evitare una discontinuità, trovando il modo di connetterla con altre, costruendo senso, rapporti di forza, istituzioni, modi di fare o di pensare. Esistono droghe, la televisione, le assemblee di partito, o di movimento, la precarietà, la disoccupazione, la paura e l’angoscia. Un’intera società tesa a neutralizzare la pur minima possibilità di un’eccedenza. L’unica eccedenza permessa (più o meno) è quella del capitalismo finanziario rappresentato da Martin Scorsese nel film The Wolf of Wall Street [Il lupo di Wall Street]. L’eccedenza di chi vuol diventare miliardario contro la legge, perché la legge riconosce entro certi limiti questa possibilità e crea diritto per garantirlo.
12. Ora, è legittimo volere diventare ricchi – se si possiedono le capacità. Il punto è che l’unica possibilità per scartare rispetto alle maggioranze e alle minoranze esistenti è quella di diventare ricchi. A differenza di un capolavoro della letteratura italiana, Le mosche del Capitale di Paolo Volponi, questa verità oggi non suscita nemmeno la schizofrenia nel soggetto. Questo soggetto vuole realmente diventare ricco, a costo di distruggere il mondo che lo circonda perché esso, semplicemente, non lo interessa. La possibilità di cambiare il mondo, quindi di mettersi fuori dalla legge per istituire un nuovo diritto, è riservata solo a chi coltiva un corpo pulsionale puro: droga per un’erezione ripetuta e coiti a volontà, condizione per innalzare i listini di borsa e ottenere il proprio guadagno. Non a caso, e per fortuna si direbbe, questi tentativi non sempre riescono, anche se sono in milioni a pagarne le conseguenze. Il divenire rivoluzionario non è un mero corpo pulsionale, ma è la capacità di concepire un desiderio – sul quale tutto il capitalismo si regge – al di fuori di una determinata costruzione (il capitale finanziario) su di un piano che non è preesistente (la borsa), ma che dev’essere costruito (la vita). L’unica cosa che conta è che i singoli, i gruppi, gli umili come tutti gli altri, costruiscano un piano dove la loro vita divenga. Non solo il miliardario eccedente, ma proprio tutti. Il problema allora non è l’appartenenza ad un gruppo politico, né il desiderio eccedente che porta a violare ogni legge, ma le relazioni trasversali tra queste cose (non solo la droga, il capitale, l’identità, ma la sessualità, la politica, la differenza) in modo tale che possano produrre piani diversi dove milioni di persone trovino un posto nel mondo, amando questo mondo in virtù di un’ospitalità riconquistata. Una vita può essere molte cose, ma assume una dignità democratica quando libera il desiderio imprigionato nel narcisismo. C’è sempre un’altra possibilità per creare diritto, non c’è solo una verità affermata dallo Stato o dal Capitale.
13. Cosa farsene del realismo o del fatto compiuto? Niente. Serve sempre agli stessi, agli 85 super-ricchi che possiedono la ricchezza di 3 miliardi e mezzo di persone sulla terra. Serve alle relazioni di parentela (quella che i populisti chiamano “Casta”) che sono gli strumenti del capitalismo e del parlamentarismo per governare una realtà che non serve ai molti, ma che viene legittimata dalle maggioranze. Questa realtà serve ad amplificare l’impotenza delle masse che non riescono a introdursi nei circuiti della cooptazione o della ricchezza e, visto che viene decisa e concepita a beneficio delle minoranze e non per le maggioranze, serve a desiderare senza successo l’onnipotenza del Capitale oltre la legge e la democrazia. Davanti a questo spettacolo miserabile, la sinistra avrebbe molto da dire, ma non ha nulla da fare o da contrapporgli. Si dice che non sia credibile. Se è per questo non lo sono nemmeno il Pd, il Movimento 5 Stelle, figuriamoci un satiro incontinente ma ingegnoso come Berlusconi. In Italia non esisterà una “sinistra” per le prossime generazioni perché i suoi cultori coltivano la logica del fatto compiuto. Come i loro avversari.
14. Questo significa disfarsi della sinistra? Se lo è chiesto Judith Butler. La sua risposta è ingegnosa. Abbiamo capito che un mero discorso di resistenza serve solo a designare con un nuovo nome la situazione in cui la resistenza si riorganizza sulla base dei suoi precedenti fallimenti. La “sinistra” riafferma sempre il medesimo in un mondo rassicurante dove tutto resta uguale a se stesso. Ciò non toglie che in questa ripetizione si possa affermare una differenza, alla luce della scommessa su una strategia più efficace. La sinistra è una parola vuota di contenuto, ma che serve a indicare una posizione. Non di un soggetto, bensì di un futuro aperto, in relazione con l’infinità degli eventi.
15. Il possibile è l’alternativa al realismo del fatto compiuto ed è l’apertura rispetto a ciò che diviene. Questa è una definizione praticabile di rivoluzione, oggi, ancor prima di interrogarsi sulle forme e le istituzioni da dare a una “rivoluzione”. Questo possibile non è la preghiera di “un altro mondo è possibile” dei No Global. Al contrario, significa questo mondo è praticabile. Non è tanto meno un possibile immaginario come un sogno, e non precede o è alternativo a ciò che è attuale. Il possibile non è un’utopia, bensì un’esistenza di temporalità diverse, e quindi di vite differenti, che non è già data o pre-formata, ma eccede le sue condizioni date. Così si riportano sulla terra gli ideali e si stabilisce dentro questo mondo un altro mondo possibile. Questo accade molto più spesso di quanto la disillusione attuale, effetto del capitalismo finanziario e della sua crisi, possa fare credere. È accaduto nel Maggio 68, nei momenti sorgivi delle primavere arabe, a Istanbul con Occupy Gezi o con Occupy Wall Street. Per chi ha occhi per vederlo, anche in Italia, con gli studenti nel 2008 o nel 2010 contro la riforma universitaria Gelmini. E molti altri esempi potrebbero essere fatti.
16. L’obiezione è: tutto scorre, nulla resta. Quando si è “giovani” si spera e ci si illude. Poi si cresce e si muore precari. Proprio quegli studenti di cui parlo sono i primi ad essere oggi disillusi. Dicono di avere perso, senza mai avere combattuto. Se non per mesetto, quando va bene. La disillusione è la stessa di chi ha proposto una legge sul reddito minino in Italia. La disillusione è così forte da impedire persino la convocazione di una manifestazione nazionale. Non critico più di tanto queste posizioni, del resto dominanti in ben altri momenti della vita civile in Italia. È un fatto. Il punto è un altro: per risalire la corrente, e porsi in testa ad un’onda, non occorre oggi “prendere coscienza”, né evocare un Soggetto della Trasformazione che faccia pesare i suoi orientamenti sulla realtà. La forza esiste già, non occorre inventarla, né costruirla, come invece recita il sottofondo di tutti i pensieri sulla “sinistra” che non c’è e che bisogna trovare. Perché allora questa forza non scatta, e non si connette alle altre, lasciando la scena persino a soggetti improbabili come i “forconi”? Perché questa forza si nutre dell’egemonia dominante per cui il tempo è solo uno, quello del Capitale, non quello comune in cui coesistono diverse temporalità e altrettanti modi di vita.
17. Più che “prendere coscienza” della forza, occorre praticarla. E ricominciare. Sempre di nuovo. Perché anche l’esausto nella ripetizione trovi il suo futuro.

Dal Porcellum al Cotechinum di Alessandra Daniele, Carmillaonline.com

porcellum-cotechinumFuori dal governo, fuori dal parlamento, Berlusconi sembrava in difficoltà. Niente paura però, come tutte le altre volte, gli è bastato schiacciare il pulsante del suo Salvamilculo Beghelli, perché il segretario del PD si precipitasse in suo soccorso.
La biscaggina di salvataggio è sempre la stessa: la riforma della legge elettorale (ex Porcellum). Dopo D’Alema e Veltroni, ora la pilota Renzi.
Ripescare Berlusconi è il principale compito del segretario del PD. Ed è anche l’unico che riesca a svolgere con successo.
Il segretario del PD è tradizionalmente un completo fallimento in qualsiasi altro campo, ma a salvare Berlusconi è bravissimo.
Perfino Bersani a modo suo c’è riuscito, nel 2011, rinunciando a elezioni che rischiava di vincere contro un PdL allo sbando, per obbedire ciecamente all’ordine BCE di grosso-coalizzarcisi, e sostenere Monti.
Adesso anche Renzi sta puntualmente svolgendo il suo compito.
La sopravvivenza di Berlusconi è vitale per il PD, perché senza il suo zampino, anzi, zampone, il PD si estinguerebbe.
Da vent’anni Berlusconi è lo spauracchio perfetto che consente ogni volta ai leader PD di ricattare i loro elettori, spingendoli a tapparsi il naso e rivotarli, nonostante tutte le porcate di cui si sono resi responsabili, perchè quello che c’è dall’altra parte è comunque peggiore.
 saveQuesto rapporto simbiotico-parassitario è ormai talmente evidente che Renzi non sente più neanche il bisogno di dissimularlo. E con la spocchia stizzosa che lo caratterizza, se ne vanta, trattando da umarell rompicoglioni chiunque osi discutere il suo Cantiere delle Riforme.
Quello che rimane inspiegabile è perchè gli elettori del PD non abbiamo ancora capito che farebbero prima a votare direttamente Berlusconi.
Il PD è devoto alla sua sopravvivenza ancora di piu della stessa Forza Italia, com’è evidente da questa proposta di legge elettorale, il Cotechinum renziano tagliato su misura delle esigenze berlusconiane, dalle liste bloccate, da riempire di maggiordomi e fidanzate, al premio di coalizione per rimangiarsi le lenticchie alfaniane disperse, al premio di maggioranza che gli consentirebbe di tornare al governo con la minoranza di voti rimastagli .
Per continuare a servire come spauracchio deve restare una minaccia credibile, deve poter vincere.
Che poi finisca per vincere sul serio è un rischio che ogni vero leader PD è disposto a correre, pur di salvare il suo partito dall’estinzione.
E soprattutto, pur di scipparlo a tutti gli altri aspiranti leader PD.

Appello associazioni e movimenti: Giorni cruciali, fare tutti ogni sforzo possibile





Siamo atti­vi­sti di alcune fra le tante asso­cia­zioni, orga­niz­za­zioni, gruppi, reti, movi­menti di base che nel nostro paese da sem­pre lot­tano nei ter­ri­tori e nella società per la difesa e la riap­pro­pria­zione dei diritti, dei beni comuni e della democrazia.
Cia­scuno con la pro­pria cul­tura ed espe­rienza, le pro­prie pra­ti­che e il pro­prio campo di azione, spe­ri­men­tiamo ogni giorno le con­se­guenze deva­stanti del più grande attacco neo­li­be­ri­sta di tutti i tempi nel nostro continente.
La nostra Europa è occu­pata. Un blocco di potere forte e rami­fi­cato — ban­che, finanza, tec­no­crati, grandi inte­ressi eco­no­mici e poli­tici — è da tempo impe­gnato a sman­tel­lare demo­cra­zia, diritti e lavoro, a pri­va­tiz­zare e mer­ci­fi­care i beni comuni, a distrug­gere le garan­zie sociali, per ren­dere tutte e tutti sud­diti silenti al ser­vi­zio di una gigan­te­sca redi­stri­bu­zione di ric­chezza al contrario.
Auste­rità, obbligo al pareg­gio di bilan­cio e al paga­mento for­zoso del debito, con­trollo della Com­mis­sione Euro­pea sulle leggi finan­zia­rie, pri­va­tiz­za­zioni gene­ra­liz­zate sono gli stru­menti uti­liz­zati non per risol­vere la crisi la crisi, ma per nuove accu­mu­la­zioni di pro­fitto nelle mani di pochi.
Le nostre espe­rienze di resi­stenza, mobi­li­ta­zione sociale e costru­zione di alter­na­tive devono quo­ti­dia­na­mente fare i conti anche con una ver­ti­cale crisi della rap­pre­sen­tanza, della poli­tica e della sini­stra, che rischia di vani­fi­care ogni passo avanti nella società, semi­nando ras­se­gna­zione e ali­men­tando nuove guerre fra poveri.
Pro­prio par­tendo dalla riaf­fer­ma­zione dell’autonomia delle reti e dei movi­menti sociali, pren­diamo parola per dire che la pos­si­bi­lità di costruire in Ita­lia una lista uni­ta­ria di cit­ta­di­nanza per un’altra Europa a soste­gno di Ale­xis Tri­pras, con­tro il Fiscal Com­pact e l’austerità, è una occa­sione impor­tan­tis­sima e da non sprecare.
Con­fi­diamo nella volontà di tutte le per­sone e le orga­niz­za­zioni finora coin­volte a fare ogni sforzo neces­sa­rio per­ché l’impresa diventi pos­si­bile e siamo grati soprat­tutto a Tsi­pras e a Syriza per la sen­si­bi­lità e l’impegno a favo­rire le migliori con­di­zioni per­ché anche in Ita­lia si rie­sca a rea­liz­zare un labo­ra­to­rio inno­va­tivo di ricon­nes­sione fra poli­tica e sociale, attra­verso la costru­zione uno spa­zio uni­ta­rio, plu­rale e par­te­ci­pato, senza vin­coli esclu­denti, rac­colto intorno a una piat­ta­forma chiara e a pra­ti­che e meto­do­lo­gie coerenti.
Sap­piamo che non è una impresa facile in un paese come il nostro, dove la debo­lezza e la fra­gi­lità della sini­stra è tal­mente grande da non essere stati capaci di met­tere in campo nean­che una mobi­li­ta­zione dav­vero uni­ta­ria con­tro il fiscal com­pact e l’austerità, dove la sini­stra poli­tica è ai minimi ter­mini e dove anche le forze del sociale — incluse quelle capaci di impor­tanti resi­stenze e fon­da­men­tali vit­to­rie — vivono una fase di frammentazione.
E pro­prio dalla Gre­cia e dall’esperienza di Syriza ven­gono alcune grandi lezioni, che a nostro mode­sto parere costi­tui­scono le pos­si­bili basi per poter riu­scire nell’impresa.
Non c’è rico­stru­zione di rap­pre­sen­tanza senza inve­sti­mento vero e forte nel sociale. La demo­cra­zia o è sal­da­mente anco­rata nella par­te­ci­pa­zione e nella cit­ta­di­nanza attiva, o non è. Per­sone, comu­nità e ter­ri­tori devono poter ripren­dere la poli­tica nelle loro mani altri­menti, comun­que la si pre­senti, rimarrà gioco di palazzo.
Syriza è forte in Gre­cia non solo per la sua piat­ta­forma poli­tica, ma per­ché ha rico­no­sciuto la dignità e il pri­mato dell’autonomia delle lotte, delle buone pra­ti­che, del pen­siero del sociale orga­niz­zato, con esse si rela­ziona in modo pari­ta­rio e le con­si­dera — nella loro indi­pen­denza — parte inte­grante del pro­prio percorso.
Syriza non si è accon­ten­tata di un buon risul­tato elet­to­rale, ma ha inve­stito le ener­gie di diri­genti e mili­tanti nel creare e raf­for­zare espe­rienze indi­pen­denti di mutuo soc­corso e di soli­da­rietà sociale nelle città e nei quar­tieri, per offrire alla popo­la­zione un’altra opzione: la soli­da­rietà, il mutuo aiuto, la fidu­cia che insieme si può resi­stere e vincere.
I depu­tati eletti da Syriza ver­sano una parte del loro sti­pen­dio alle espe­rienze ter­ri­to­riali indi­pen­denti: mense popo­lari, bot­te­ghe a prezzo zero, mer­cati di filiera corta, dopo­scuola gra­tuiti, ambu­la­tori sociali, cam­pa­gne per la difesa dell’acqua pub­blica e del ter­ri­to­rio e dei beni comuni.
Noi a que­sto pen­siamo, quando pen­siamo a una pos­si­bile lista per Tsipras.
Que­sta è la lista di cui c’è bisogno.
Per costruirla pen­siamo che, così come sug­ge­rito dai com­pa­gni greci, tutti deb­bano fare un passo indie­tro, per farne molti avanti insieme. Spe­ri­men­tiamo tutti i giorni che que­sto è l’unico modo per vin­cere: creare spazi pub­blici e sociali acco­glienti, con­di­visi e pari­tari, dove cia­scuno si senta pie­na­mente parte dell’impresa comune.
Sap­piamo che alle forze poli­ti­che è richie­sto sacri­fi­cio, ma siamo con­vinti che dalla rico­stru­zione di un campo uni­ta­rio a sini­stra, fon­dato sul sociale, potranno essere ampia­mente ripa­gati. Sap­piamo di chie­dere ai pro­mo­tori dell’appello un di più di pazienza e di dispo­ni­bi­lità all’ascolto.
Sono giorni cru­ciali, vanno fatti tutti gli sforzi per­ché il pro­cesso maturi. Vanno fatti tutti i passi neces­sari per­chè tutti i sog­getti già in campo, e quelli che arri­ve­ranno, con­di­vi­dano in modo uni­ta­rio e in sedi col­let­tive la costru­zione del per­corso. E, per quello che si può, siamo pronti a fare la nostra parte per libe­rare, dal basso e insieme, la nostra Europa.
 
Andrea Bara­nes, Raf­faella Bolini, Dome­nico “Megu” Chio­netti, Dome­nico Chi­rico, Carlo De Ange­lis, Renato Di Nicola, Tom­maso Fat­tori, Gra­zia Naletto, Cor­rado Oddi, Rosa­rio Rappa, Fran­ce­sca Re David, Filippo Sestito, Ric­cardo Troisi, Lorenzo Zam­poni, Alberto Zoratti

mercoledì 29 gennaio 2014

Legge elettorale: la sinistra dovrebbe difendere il proporzionale di Enrico Grazzini, Il Fatto Quotidiano



E’ colpa grave anche della cultura maggioritaria diffusa dalla quasi totalità della sinistra italiana (Sinistra Ecologia e Libertà e la sinistra del Pd) se Berlusconi e Renzi hanno potuto concordare il Porcellum2, cioè un progetto di legge elettorale truffa falsamente proporzionale e invece fortemente maggioritario. L’autocritica non guasterebbe. Invece hanno fatto bene i militanti grillini ad approvare (finalmente!) il sistema proporzionale con il loro referendum via Internet. Il sistema proporzionale è l’unico in grado di rappresentare veramente gli elettori. Non a caso il Parlamento europeo è eletto con il sistema proporzionale. E l’Italia ha conosciuto il miracolo economico degli anni ’50-60 anche grazie al proporzionale.
Il sistema proporzionale è sempre stato storicamente il principio assoluto della sinistra da quando è nata. Cambiare questo principio significa tradire la base della democrazia. Nella storia dell’occidente la sinistra socialista e comunista ha sempre sostenuto l’utopia democratica egualitaria: tutti, ricchi e poveri, donne e uomini, contadini e proprietari terrieri, istruiti e analfabeti, operai e capitalisti, devono avere pari diritto di voto e devono essere rappresentati alla pari. Mentre il principio maggioritario e i collegi uninominali, nati nella monarchica Gran Bretagna, sono sempre stati promossi dalla destra storica. Infatti il maggioritario, come dice la parola, crea e rafforza le maggioranze schiacciando le minoranze.
Sinistra, Ecologia e Libertà ha finora puntato sul Mattarellum, una legge elettorale maggioritaria e basata prevalentemente su collegi uninominali. I parlamentari di Nichi Vendola hanno proposto il Mattarellum perché dà un grande peso parlamentare alle minoranze che, come Sel, possono fare la differenza per fare prevalere gli alleati maggiori nella competizione elettorale. Ma è sbagliato cedere sui principi di base della democrazia per motivi di bassa tattica elettorale e per potersi alleare a tutti i costi con il centrosinistra di Renzi.
Non è neppure possibile difendere la cultura del maggioritario in nome della governabilità. In nome della governabilità il Pd ha addirittura prospettato il presidenzialismo – vedi la Bicamerale D’Alema-Berlusconi e le dichiarazioni di Veltroni favorevoli al semi-presidenzialismo -, che è una forma di governo essenzialmente plebiscitaria e autoritaria perché concentra il potere nell’esecutivo. La cultura della governabilità a tutti i costi ha pervaso il centrosinistra ma è sostanzialmente anti-democratica. La governabilità è necessaria, ma va perseguita per via politica senza truccare i meccanismi elettorali. E neppure la giustificazione della governabilità regge alla prova dei fatti. Con l’ultramaggioritario Porcellum1 (il Porcellum2 è quello di Renzi) Berlusconi non è riuscito a governare perché le contraddizioni politiche si sono riflesse in una maggioranza forzata e falsa. Mentre con il proporzionale è del tutto possibile governare bene, come quasi tutti gli illustri politologi nostrani si sforzano invece di nascondere. La prova del nove è data dal fatto che la stragrande maggioranza dei paesi europei è governata con sistemi proporzionali. Germania, Grecia, Svizzera, Spagna, Svezia, Norvegia, Finlandia, Islanda, Danimarca, Olanda, hanno un regime proporzionale, puro o misto, e hanno anche governi stabili.
Il mito della governabilità decisionista è iniziato con la Trilaterale e con le sue ricette ultra conservatrici del 1975 relative alla “crisi della democrazia”. La Trilaterale, dopo le rivolte degli anni 60-70, predicava che la società esprimeva domande troppo complesse e avanzate, e che quindi bisognava rafforzare l’esecutivo a scapito della rappresentatività democratica. Questa sirena ha trovato facile ascolto anche nella sinistra italiana. Purtroppo molti di Sel si lamentano perché con questo sistema con elevato sbarramento per i partiti minori il loro voto collegato al centrosinistra renziano non porterebbe poi i loro uomini ad avere dei seggi in Parlamento. Il vero problema è però soprattutto un altro. Il principio di rappresentanza è un principio democratico di base ribadito recentemente dalla Corte Costituzionale (che Renzi ha infatti criticato) che non può assolutamente essere derogato per tattiche elettorali. In nome del proporzionale è necessario contrastare il sistema anti-democratico proposto da Renzi, promuovendo anche un referendum abrogativo se questa legge dovesse passare.