mercoledì 30 aprile 2014

Le imprese non creano il lavoro di Frédéric Lordon*, Le Monde Diplomatique

Non passa giorno senza che il governo francese dichiari fedeltà alle strategie economiche più liberiste: «politica dell’offerta», tagli alla spesa pubblica, stigmatizzazione degli «sprechi» e degli «abusi» nella previdenza sociale. Tanto che il padronato esita sulla condotta da tenere. E la destra confessa il proprio imbarazzo davanti a un tale livello di plagio…

InterstateBisogna aver esagerato con gli alcolici, che ci fanno sembrare sinuose tutte le strade, per vedere, come fa il coro quasi unanime dei commentatori, una svolta neoliberista nel «patto di responsabilità» di François Hollande (1). Senza innalzare troppo gli standard della sobrietà, la verità richiama piuttosto una di quelle affascinanti immagini di Jean-Pierre Raffarin (2): la strada è dritta e la discesa è ripida – molto ripida (e i freni non funzionano). In effetti, l’ossimoro del tornante rettilineo non fa che approfondire la logica del quinquennio, manifestatasi sin dai primi mesi. Una logica debole, che lascia trasparire strategie di disperazione e rinuncia. Le antiche propensioni al tradimento ideologico si mescolano con i calcoli smarriti del panico quando, avendo abbandonato del tutto il progetto di riorientare le disastrose politiche europee, e di conseguenza qualunque possibilità di ripresa, per salvarsi dal naufragio totale si vede solo la zattera della Medusa: «l’impresa» come provvidenza, cioè… il Movimento delle imprese di Francia (Medef) come scialuppa di salvataggio. Trovata geniale, mentre si sta per essere ingoiati dai flutti: «La sola cosa che non è stata tentata, è dar fiducia alle imprese (3)». Che bella idea! Dar fiducia alle «imprese»... Come ostaggi che danno fiducia ai rapitori e si gettano nelle loro braccia, senza dubbio convinti che l’amore chiama indubbiamente amore – e disarma le richieste di riscatto.
Contrariamente a quanto sosterrebbero all’unisono le schiere degli editorialisti, scandalizzati che si possa parlare di «presa d’ostaggio», non c’è un grammo di esagerazione nella parola che, anzi, è analiticamente dosata al meglio. È vero che l’alterazione della percezione che fa vedere le linee dritte come curve ben si accorda con quest’altra distorsione che porta a vedere delle «prese d’ostaggio» ovunque – da parte dei ferrovieri, dei postini, degli spazzini e più in generale di tutti quelli che si difendono come possono dalle ripetute aggressioni subite – ma non dove ce ne sono davvero. Perché il capitale ha per sé tutti i privilegi della lettera rubata di Edgar Allan Poe (4), e la sua presa d’ostaggio, evidente, enorme, è diventata invisibile proprio per la sua enormità ed evidenza. Come faceva notare Karl Marx, il capitalismo, cioè il lavoro salariato, è prendere in ostaggio la vita stessa! In un’economia monetaria fondata sulla divisione del lavoro, non c’è altra possibilità di riprodurre la vita se non con il denaro del salario… cioè ubbidendo al datore di lavoro. E, se non ci fosse stata la conquista importante dei sistemi di protezione sociale, non si vede cosa distinguerebbe il lavoro sotto il capitalismo da un puro e semplice «o così o crepa». Il capitale non prende in ostaggio solo la vita degli individui, una per una, ma anche (di fatto, nello stesso modo) la loro vita collettiva, che è l’oggetto della politica. Questa cattura risponde al principio di fondo secondo il quale l’intera riproduzione materiale, individuale e collettiva, è ormai entrata nella logica dell’accumulazione del capitale – la produzione dei beni e servizi che riproducono la vita è ormai realizzata solo da entità economiche dichiaratamente capitaliste e ben decise a operare unicamente con la logica della mercificazione per profitto. L’altro principio è la capacità di iniziativa di cui gode il capitale: il capitale finanziario ha l’iniziativa delle anticipazioni monetarie che finanziano le iniziative di spesa del capitale industriale, spese di investimento o spese per le assunzioni. Così le decisioni globali del capitale determinano le condizioni nelle quali i singoli trovano i mezzi – salariali – per la propria riproduzione. È questo potere di iniziativa, di impulso del ciclo produttivo, a conferire al capitale un ruolo strategico nell’insieme della struttura sociale; il ruolo del rapitore, dal momento che tutto il resto della società finisce per dipendere dalle sue decisioni e dalla sua buona volontà. Se non si accondiscende a tutte le sue richieste, il capitale praticherà lo sciopero degli investimenti – «sciopero»: non è forse una parola che nella testa dell’editorialista tipo scatena abitualmente l’associazione con «presa d’ostaggio»? Basta allora andare indietro nel tempo per misurare meglio l’efficacia dell’estorsione, dalla soppressione dell’autorizzazione amministrativa al licenziamento, a metà degli anni ’80, fino alle disposizioni scellerate dell’Accordo nazionale interprofessionale (Ani), passando per gli sgravi fiscali sulle società, la defiscalizzazione delle stock-options, i ripetuti attacchi al contratto a durata indeterminata (Cdi), il lavoro domenicale (5), ecc. La lista di bottini di guerra è gigantesca; ma bisogna capire che è destinata ad allungarsi all’infinito finché la potenza del capitale non sarà contrastata da una potenza della stessa scala di grandezza, ma di segno opposto, che d’autorità riporti alla moderazione il capitale, visto che esso non ha alcun senso dell’abuso, come dimostra la lista summenzionata. Ma la cosa peggiore, in tutta questa storia, è forse l’irrimediabile inanità della strategia di Hollande e dei suoi consiglieri, spiriti che sono del tutto colonizzati dal punto di vista Medef sul mondo e che come unico punto di partenza per tutte le loro riflessioni hanno la premessa, l’enunciato principe del neoliberismo, ovunque e da tutti ripetuto, entrato in tutte le teste come postulato: «Sono le imprese che creano il lavoro». Questo enunciato, punto nevralgico del neoliberismo, è la prima cosa da distruggere, come primo passo verso la liberazione dalla presa d’ostaggio da parte del capitale. In ogni caso, l’enunciato «le imprese non creano lavoro», non va considerato puramente empirico – anche se gli ultimi 20 anni lo confermerebbero in pieno. È un enunciato concettuale, la cui lettura corretta, del resto, non è «le imprese non creano lavoro», ma «le imprese non creano il lavoro». Le imprese non hanno alcun mezzo per creare da sole i posti di lavoro che offrono: questi derivano solo dall’osservazione del movimento dei loro ordinativi, che, ovviamente, non possono controllare del tutto, dal momento che vengono da fuori – cioè dalla volontà di spesa dei clienti, famiglie o altre imprese. In un momento di verità, accecante quando non intenzionale, è stato Jean-François Roubaud, presidente della Confederazione generale delle piccole e medie imprese (Cgpme) e san Giovanni Crisostomo, a parlare troppo, in un momento certo fatto per essere potentemente rivelatore: quello della discussione delle «contropartite». Come si sa, nel momento clou che precede la conclusione del «patto», il padronato giura sulla testa del mercato che saranno create centinaia di migliaia di posti di lavoro e, come si sa, nel momento immediatamente successivo alla conclusione del patto, di colpo non si è più sicuri di niente… Non perdiamo il controllo, in ogni caso bisogna che vi fidiate di noi. Ed ecco quel babbeo Robaud che svela tutto senza malizia né preavviso: «Bisogna che gli ordini arrivino…», risponde candidamente alla domanda «come contropartita, le imprese sono pronte ad assumere?» (6). Roubaud non è bugiardo! Se le imprese potessero da sé crearsi gli ordini, la cosa si saprebbe subito, e il gioco del capitalismo sarebbe di una semplicità sconcertante. Ma le imprese registrano ordini che hanno la possibilità di influenzare solo marginalmente (e niente del tutto, sulla scala aggregata, macroeconomica), perché questi dipendono unicamente dalla capacità di spesa dei loro clienti, la quale a sua volta dipende per l’appunto dagli ordini (7), e così via, fino a perdersi nella grande interdipendenza che fa il fascino del circuito economico. Con alcune variazioni, determinate dalla concorrenza fra imprese, la formazione dei registri degli ordinativi, che come ci ricorda – giustamente – Roubaud decide tutto, non dipende dunque dalle imprese singolarmente, ma dal processo macroeconomico generale. Le imprese, passive davanti a questa formazione degli ordini, che possono solo registrare, non creano dunque nessun posto di lavoro, ma semplicemente convertono in posti di lavoro la domanda di beni e servizi che viene loro rivolta, o che esse anticipano. Dunque, quel che l’ideologia padronale vorrebbe indurci a vedere come atto demiurgico che deve tutto alla potenza sovrana (e benefica) dell’imprenditore, è piuttosto, meno spettacolarmente, la meccanica del tutto eteronoma dell’offerta che risponde semplicemente alla domanda esterna. Si dirà tuttavia che le imprese sono diverse l’una dall’altra, che alcune riducono i prezzi più di altre, innovano di più ecc. Questo è vero, ma alla fine influenza solo la ripartizione fra le imprese della domanda globale… la quale rimane irrimediabilmente limitata dal reddito macroeconomico disponibile. Ma non è possibile andare a cercare all’esterno un surplus di domanda, al di là dei limiti del reddito interno? Sì. Ma il cuore dell’argomento rimane inalterato: con l’export come sul mercato interno, le imprese semplicemente registrano domande che, logicamente, non possono individualmente contribuire a formare, e si limiteranno (eventualmente) a convertire gli ordini in posti di lavoro. Non c’è nessun gesto «creatore», come invece vuol far credere l’ideologia padronale. Gli imprenditori e le imprese non creano nulla in materia di lavoro – il che non vuol dire che non facciano niente: si fanno concorrenza per catturare come possono i flussi di reddito-domanda, quello è il loro lavoro. Questo significa che non dobbiamo accondiscendere a tutte le loro stravaganti richieste come se possedessero il segreto della «creazione del lavoro». Non ce l’hanno affatto. Ma allora, se i posti di lavoro non sono creati dalle imprese, chi li crea? A chi dovrebbero andare le nostre cure e attenzioni? La risposta è che il «soggetto» della creazione dei posti di lavoro non va ricercato fra gli esseri umani; in verità, il soggetto è un non-soggetto; per meglio dire, questa creazione è l’effetto di un processo senza soggetto, meglio noto come congiuntura economica – certo, che delusione per chi si aspettava l’ingresso in scena di un eroe. La congiuntura economica in effetti è questo meccanismo sociale d’insieme mediante il quale si formano al tempo stesso i redditi, le spese globali e la produzione. È un effetto di composizione, la sintesi indeterminata di miriadi di decisioni individuali, quelle delle famiglie che consumano anziché risparmiare, quelle delle imprese che lanceranno o no degli investimenti. È un dramma, per il pensiero liberista eroicizzante: bisogna infatti avere la saggezza intellettuale di interessarsi a un processo impersonale. Ma è possibile, e anche in modo molto concreto! Infatti la congiuntura è un processo che, in una certa misura, si lascia pilotare. E l’oggetto di quest’azione è proprio quel che si chiama politica macroeconomica. Ma il governo «socialista», che si è piegato in modo consenziente ai vincoli europei, ha abdicato a ogni velleità in materia. Non gli rimane dunque che precipitarsi con tutti gli altri lungo il pendio dell’ideologia liberista d’impresa, per plasmare il potente ragionamento secondo cui «visto che sono le imprese a creare i posti di lavoro, dobbiamo essere molto gentili con le imprese». Questa corbelleria si è ormai incistata così profondamente, a giudicare dalla velocità con la quale esce dalla bocca dell’editorialista tipo, che sradicarla richiederà tempo. Ma la politica si comporterà meglio, cioè in modo più razionale, quando i suoi discorsi cominceranno a essere un po’ depurati da tutte le contro-verità manifeste, e manifestamente legate a un punto di vista molto particolare sull’economia; e quando saranno stati disattivati gli schemi di pensiero automatici comandati da queste contro-verità. Le imprese non creano il lavoro: esse «operano» il lavoro determinato dalla congiuntura. Se si vuole del lavoro, occorre interessarsi alla congiuntura, non alle imprese. Ma è duro farlo entrare in una testa «socialista»… È vero che, nel quadro del programma delle conversioni simboliche necessarie, occorre anche abbandonare l’abitudine automatica di considerare di sinistra il Partito socialista e identificare (in modo davvero sconsiderato) la sinistra con il Partito socialista. Quando invece il Partito socialista – che del resto, ricordiamolo, si sforza abbastanza di smontare questo luogo comune – è la destra, ma una destra complessata. E a proposito della destra, visto come vanno le cose, presto ci si dovrà chiedere quali complessi le rimangano, esattamente…
* Economista. Ultima opera: La Malfaçon. Monnaie européenne et souveraineté démocratique, Les Liens qui libèrent, Parigi, 2014 (in uscita il 26 marzo 2014).
note:
 
(1) Proposto da Hollande in gennaio, il «patto di responsabilità» offre alle imprese un alleggerimento dei contributi sociali pari a 30 miliardi di euro…nella speranza che queste vorranno, in cambio, creare posti di lavoro.
(2) Quando era primo ministro di Jacques Chirac, fra il 2002 e il 2005.
(3) Matthias Fekl, deputato vicino a Pierre Moscovici, citato da Lénaïg Bredoux e Stéphane Alliès, «L’accord sur l’emploi fracture la gauche», Mediapart, 6 marzo 2013.
(4) Nel racconto di Edgar Allan Poe La lettera rubata (1844), tutti i protagonisti cercano febbrilmente un biglietto di importanza decisiva pensando che sia nascosto, mentre è in bella evidenza su una scrivania.
(5) Si legga Gilles Balbastre, «Lavoro domenicale: l’eterno ritornello», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 2013.
(6) «Jean-François Roubaud: “Il faut passer au plus vite aux actes, avec des mesures immédiates”», Les Echos, Parigi, 3 gennaio 2014.
(7) Ordinativi di lavoro per i nuclei familiari salariati, ordinativi di beni e servizi per le imprese clienti. (Traduzione di M.C.)

I 10 punti della SINISTRA PER PERUGIA


PERUGIA IN COMUNE 
LAVORO, AMBIENTE, PARTECIPAZIONE 
Perugia, capoluogo di regione, deve avere il coraggio di aprire una vera sfida all'Europa delle larghe intese e alle politiche di austerità. Occorre una visione d’insieme che sappia sviluppare un nuovo progetto di città nel segno dei diritti: il lavoro, i beni comuni, ambiente e sociale. Proponiamo 10 punti su cui lavorare, per dare a Perugia un’economia sostenibile e un profilo di alta vivibilità e cultura.


1 - MACCHINA COMUNALE 
Riduzione della pianta organica degli apicali e rivedere i parametri di giudizio con cui sono definiti i premi. Cessare ogni forma di consulenza, semplificazione della enza, semplificazione della burocrazia, decertificazione in tutti gli uffici. 

2 - BENI COMUNI
Nuovi sistemi che facciano dei servizi primari come acqua, rifiuti, istruzione, salute e mobilità un laboratorio pubblico di efficienza, innovazione e sviluppo che sappia ridurre le tariffe. Non sono più rinviabili scelte come quella dei "rifiuti zero" e della tutela ambientale che sappia garantire il principio precauzionale. Tutte le risorse del pubblico devono essere investite nel pubblico, con particolare riferimento alla scuola, e indirizzate mediante una fattiva partecipazione dei cittadini, partendo proprio dalle aziende del Comune. 

3  - PARTECIPAZIONE
Occorrono nuovi strumenti partecipativi decentrati che non ripropongano vecchi schemi di "controllo politico" e a cui sia riconosciuta la possibilità di incidere sulle scelte dell'Amministrazione. È necessario quindi avviare il percorso del bilancio partecipato dove ogni territorio sia in grado di decidere gli interventi più utili al proprio sviluppo. 

4 - PIANO SOCIALE
Avviare un' attività di controllo e verifica di benefici/costi dell’esternalizzazioni e, dove necessario, riportare i servizi in seno al pubblico garantendo comunque tutti i livelli occupazionali. Aggiornare la spesa sociale al contesto economico che viviamo e alle nuove esigenze che la crisi ha prodotto, evitando costose sovrapposizioni d’interventi per implementare i servizi. 

5 - PIANO DEL LAVORO
Sostenere le piccole e medie imprese e gli artigiani mediante un coordinamento costante con Enti e Confederazioni degli artigiani  e del commercio per: accesso al e del commercio per: accesso al credito e start up; indirizzare i fondi europei, nazionali e locali e la fiscalità generale a interventi di riqualificazione della città, capaci di fare economia e sviluppo sostenibile; avviare progetti come il Coworking e Terre Comuni; ripensare le politiche delle dismissioni favorendo l’utilizzo di spazi pubblici a fini sociali, culturali e produttivi. 

6 - PIANO DEL COMMERCIO
Riteniamo che ormai a Perugia, soprattutto in periferia, ci siano troppi centri commerciali, per questo dobbiamo saper invertire la rotta dello sviluppo commerciale dalla grande distribuzione alla piccola. 

7 - PIANO PER IL CENTRO STORICO 
Pretendere più sicurezza dalle forze dell’ordine con attività di intelligence e di indagine sul territorio soprattutto riguardo le infiltrazioni mafiose. Il Comune deve: intensificare il controllo del territorio, riportare i cittadini a vivere in centro attraverso un piano di riqualificazione urbana dell’acropoli, incoraggiare l’apertura di nuove attività commerciali e sostenere i negozi di prossimità e i cinema di città attraverso piani di defiscalizzazione.

8 - DIRITTI CIVILI 
Potenziare unioni civili, testamento biologico, affermare il diritto a una sanità laica, pensiamo in particolare a questioni come la pillola ru486 e l’obiezione di coscienza nel campo dell’ivg. 

9 - CUBATURA ZERO
Cessare il consumo del territorio recuperando spazi e luoghi esistenti, intervenire in una sua ridefinizione generale avendo il coraggio di mettere mano su ciò che a oggi è previsto e non ancora attuato. Servono piani per la programmazione d’interventi straordinari di manutenzione stradale, di ammodernamento della rete fognaria e della banda larga, di decoro urbano nelle periferie.

10 - CITTA’ DELLA BELLEZZA 
Fare della bellezza, in termini di arte, rilancio dell'Università, decoro urbano vivacità culturale e vivibilità, l’orizzonte da raggiungere, giocando un ruolo d’innovazione nella partita della candidatura di Perugia a CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2019,  capace di promuovere nuovi modelli di sviluppo economici e culturali in grado di sancire Perugia, capoluogo di Regione, città universalmente riconosciuta come internazionale.

L'azzardo amerikano di Claudio Conti, Contropiano.org

L'azzardo amerikano
Mettiamo in fila alcune notizie e vedremo all'improvviso un allineamento dei pianeti che getta una luce vivida su quanto sta avvenendo nel mondo in questi mesi. Nel mondo, anche se è in Europa il fulcro fondamentale che può determinare l'esito della partita.
Prima notizia. Il cda del gruppo francese Alstom ha deciso di accettare l'offerta di General Electric, decisa ad acquistare il suo settore energetico, pari al 72% del fatturato. In apparenza sembra una sfida al governo Hollande, in particolare al ministro dell'economia Arnaud Montebourg, che aveva preteso un ripensamento, visto che proprio nelle ultime ore si era fatta avanti la tedesca Siemens – verosimilmente su pressione dei due governi europei. Le motivazioni erano del resto chiarissime: una società privata deve pensare soltanto a “creare valore per gli azionisti”, mentre un governo deve mantenere la “sovranità economica”. Specie in un settore strategico decisivo come l'energia.
Non c'entrava nulla (o molto poco) il proverbiale “nazionalismo francese”. Era invece la manifestazione plastica di come le ambizioni imperialiste dell'Unione Europea (incardinate sul rapporto franco-tedesco) fossero minacciate da un'interferenza statunitense.
La decisione del cda di Alstom è però una mediazione con la richiesta del governo. Ha infatti contemporaneamente chiesto una “expertise indipendente” sull'offerta americana che durerà almeno un mese. Ovvero il tempo chiesto da Siemens per articolare più dettagliatamente la propria offerta (basata per ora su uno scambio tra le attività energetiche e quelle ferroviarie, in cui sia Alstom che Siemens sono molto forti), sfruttando al meglio l'impossibilità per General Electric – nel frattempo - di cambiare l'articolato e renderlo più “competitivo” rispetto a quello tedesco. Partita ancora aperta dunque, con i governi e l'Unione Europea in campo per impedire una mossa che nessuno sano di mente attribuisce al “libero gioco del mercato”.
Seconda notizia. La crisi Ucraina si approfondisce. Ed anche in questo caso gli Stati Uniti spingono per “sanzioni più dure” contro la Russia, mentre gli europei nicchiano e si muovono in modo decisamente più soft. In gioco – anche qui – ci sono le forniture energetiche che Mosca e i suoi satelliti (Kazakhstan, soprattutto) garantiscono da anni a un'Europa che ne è priva o quasi.
Terza notizia. L'ambasciata statunitense a Roma ha inviato una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l'impegno a comprare tutti i 90 aerei F35, come da accordi sottoscritti a suo tempo. Perché “ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici non soltanto sotto il profilo militare, ma anche in termini economici in generale e occupazionali in particolare”. Un ricatto mirante a sotterrare l'ipotesi renziana di “risparmiare” a conti pubblici sotto stress – e da tagliare pesantemente, secondo le indicazioni dell'Unione Europea, alla vigilia dell'entrata in vigore del Fiscal Compact – un esborso considerevole e soprattutto senza alcun ritorno economico o occupazionale serio (giusto alcune commesse minori).
Quarta notizia. Gli Stati Uniti hanno riannodato i rapporti con le Filippine e quindi riapriranno proprie basi militari nel paese, in esplicita funzione anti-cinese.

Ne potremmo inanellare molte altre, di questi giorni o delle ultime settimane (a cominciare dalla “ripresa di possesso” che si va manifestando sull'America Latina, attraverso il foraggiamento delle opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador, ecc).
Ma ci sembra più utile menzionarne soltanto un'altra: secondo uno studio dell'International Comparison Program della Banca Mondiale, citato dal Financial Times di oggi, gli Stati Uniti stanno per perdere il loro primato e si apprestano a consegnare alla Cina lo scettro di prima economia al mondo. Il sorpasso avverrà molto prima del previsto 2019, forse già quest'anno. Gli Stati Uniti detengono il primo posto dal 1872, quando avevano superato la Gran Bretagna. E saranno presto incalzati anche dall'India, che sta per prendersi il terzo posto.
È la temuta crisi dell'egemonia statunitense, affermatasi pienamente con la Seconda guerra mondiale ma lungamente preparata nei decenni precedenti. Non si è mai vista una potenza imperiale dominare sul mondo senza essere anche la prima economia del pianeta. Il “lungo addio” della Gran Bretagna all'egemonia globale è potuto esser tale solo grazie a un mondo assai più lento di oggi e allo “speciale rapporto” con l'ex colonia che stava diventando una superpotenza.
Oggi l'economia finanziaria viaggia in tempo reale. La competizione a questo livello si gioca sui centesimi di secondo. E anche le forze militari sono mobilitabili in tempi infinitamente più rapidi. In compenso, si fa per dire, gli approvvigionamenti energetici stanno diventando sempre più problematici, tra risorse storiche in via di esaurimento e “risorse non convenzionali” sufficienti per ora appena a mantenere allo stesso livello i consumi planetari.
La quinta notizia, insomma, spiega tutte le altre. Gli Stati Uniti sanno meglio di tutti che il loro dominio sul mondo è a rischio. E hanno deciso di lottare per non farsi scalzare, nemmeno a favore di un “multipolarismo” in cui non potrebbero restare dei “primus inter pares”; ovvero dei privilegiati che possono affrontare i propri problemi stampando dollari e imponendo agli altri di accettarli in cambio di prodotti fisici. Attaccano in Europa cogliendo i due punti deboli dell'emergente imperialismo dell'Unione Europea: forniture energetiche e dotazione militare. Attaccano in Asia tentando di “contenere” militarmente l'esplosiva influenza economica cinese. Gli Usa si giocano il tutto per tutto, prima che le loro debolezze diventino laceranti o immobilizzanti.
È una dinamica antica e ripetitiva, una coazione a ripetere; ma estremamente pericolosa. La crisi economica non passa, la guerra inter-imperialista si affaccia di nuovo come possibile soluzione. Peccato che tutte quelle testate nucleari in giro per il mondo garantiscano – da 70 anni – una sola certezza: non ci sarebbero vincitori.

Il sindacato della licenza di uccidere


Il sindacato della licenza di uccidere
Ci sembra il caso di riportare unicamente il testo dell'Ansa, senza i commenti che ognuno di voi saprà fare con altrettanta indignazione.
Circa cinque minuti di applausi e delegati in piedi alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di Polizia, per tre dei quattro agenti condannati in via definitiva per la morte del 18enne Federico Aldrovandi durante un controllo il 25 settembre del 2005 a Ferrara: Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani.
I tre agenti presenti al congresso del Sap, sono stati condannati dalla Corte di Cassazione il 21 giugno del 2012 per eccesso colposo in omicidio colposo a tre anni e sei mesi, tre anni dei quali coperti dall'indulto. Oltre ai tre poliziotti presenti al congresso riminese, nel caso Aldrovandi era coinvolta anche un'altra poliziotta, Monica Segatto. I quattro hanno trascorso alcuni mesi in carcere.
"Mi si rivolta lo stomaco. E' terrificante", reagisce Patrizia Moretti, madre di Federico. "Cosa significa? Che si sostiene chi uccide un ragazzo in strada? Chi ammazza i nostri figli? E' estremamente pericoloso".
Il capo della polizia Alessandro Pansa aveva da poco lasciato la sala dopo aver parlato delle “nuove regole d’ingaggio” in ordine pubblico che si rendono necessarie dopo gli abusi documentati in occasione degli incidenti dello scorso 12 aprile a Roma.

Applausi a scena aperta per il degrado civile

20140429_68611_aldrovandi-ansa-applausi-poliziotti-sap.jpg.pagespeed.ce.rIMqNM-ClzE così anche i poliziotti del Sap applaudono a scena aperta agli assassini di Aldrovandi, seguendo l’esempio degli industriali di Confindustria che festeggiarono i killer della Thyssen Krupp, ora salvati dalla diligente Cassazione. Un intero mondo di civiltà e di speranza viene schiacciato da quelle che mani che battono insistenti e senza vergogna, anzi arroganti, sapendo benissimo che proprio la sfrontatezza dell’ingiustizia che ostentano sarà di monito a chi s’indigna e di conforto per i complici che si nascondo dietro la politica e le istituzioni.
Inutile scandalizzarsi di tutto questo, quando l’intera società viene condotta dall’ambito dei diritti a quello dello sfruttamento: piangere sulla tragedia della Thyssen e poi appoggiare lo sfascio della legislazione del lavoro è il duro, indefesso lavoro dell’ipocrita. E pensare che un sistema che vuole trasformarsi da democratico a oligarchico abbia bisogno di poliziotti rispettosi della legge e non invece di semplici bravi, è come il vagare dei ciechi. Ed è proprio in questa cornice che va inquadrata la standing ovation del Sap, tutt’altro che spontanea, ma voluta e preparata: non pensiate di toccarci perché siamo ciò che il potere vuole che si sia. Del resto erano presenti all’assemblea anche alcuni parlamentari plaudenti tra cui Lara Comi del Pdl.
E quale dimostrazione migliore di tutto questo del finto scandalo del ministro Alfano, absit iniuria verbis,  che proprio pochi giorni si era indignato per la sola idea di mettere identificativi sui caschi del poliziotti alle manifestazioni? E’ un chiaro endorsement verso la irresponsabilità degli agenti chiamati invece a reprimere duramente ogni contestazione all’opera del sistema politico. E dunque anche un applauso indiretto al Sap. Ma anche le altre reazioni, compresa quella di Renzi, nuotano nel nulla: in qualsiasi Paese agenti condannati per fatti come quello di Ferrara sarebbero già da un bel pezzo fuori dalle forze dell’ordine, mica tutelati come si conviene a un clan di stato negli stipendi e nelle pensioni.
Inutile starci a girare intorno: la riduzione della democrazia ha bisogno anche di pescare nel torbido di queste vite e di queste vicende, soprattutto ha bisogno di tutelare i suoi tutori, di coprire, depistare, proteggere. Di infliggere pene minime come già avviene per il sistema di potere.  Certo, com’è ovvio, le mele marce ci sono dovunque e di certo la gran parte dei poliziotti non ha nulla a che vedere con i quattro del caso Aldrovandi, ma gli applausi del Sap hanno volutamente contraddetto questa evidenza facendo sapere al sistema di voler far parte del cerchio magico dell’impunità sostanziale se vogliono avere qualcuno disponibile a reprimere i cittadini.
Certo l’arroganza li ha spinti a fare un passo falso mettendo in imbarazzo proprio i loro protettori. Ma questi sono ormai così deboli e legati al filo delle menzogne, che possono esigere la visibilità della barbarie più scoperta.  Del resto perché a loro dovrebbe essere negato lo stesso privilegio che viene concesso ad altri persino con il favore dell’opinione pubblica?

martedì 29 aprile 2014

Elezioni Comunali 2014 - Lista Torgiano Bene Comune



La lista Torgiano Bene Comune (Lista Torre) col nuovo logo, è stata presentata ufficialmente stamattina.


Con il Candidato Sindaco Feliciano Martinelli la coalizione di centro-sinistra presenta, in ordine alfabetico:
 
Blanchi Leonardo
Cardinali Luciano
Cruciani Samuel
De Marinis Domenico
Ferroni Andrea
Giacchetta Monia
Peppicelli Serena
Pucciarini Leonardo
Raspa Federico
Rastelli Terdelinda detta Dida
Tiberi Natascia
Tomassini Enrico

Mamma li comunisti: panico a Wall Street Di ilsimplicissimus


pikettyQualche giorno fa avevo parlato della bomba caduta nel quartier generale del liberismo, con due conferenze dell’economista Thomas Piketty che sia a Washington che ad Harvard aveva contestato alla radice le tesi economiche del pensiero unico (vedi qui ). E lo aveva fatto non con intervento estemporaneo, ma presentando una monumentale ricerca – Il Capitale nel XXI° secolo – che attraverso i dati di realtà raccolti durante 15 anni da decine e decine di ricercatori in tutto il mondo, confuta le teorie economiche correnti, scardina i miti con cui esse si accompagnano – come ad esempio quello del merito in una società tornata ad essere immobile o quello del marcato - e infine mostra come tale assetto non produce benessere per tutti, come affermano gli ipocriti, ma solo ricchezza stratosferica per pochi e povertà per molti.
Un ritorno insomma alle società della diseguaglianza e delle oligarchie autoritarie ottenuto grazie all’iniezione di dosi letali di pensiero unico resa grazie ai media ormai generalmente in possesso dei grandi gruppi e condotta con strumenti monetari come in Europa o legislativi sfruttando le paure del nuovo nemico appositamente creato, il terrorismo (o magari la Russia in un sinergico ritorno al passato). Inutile dire che la presentazione dell’opera di Piketty ha fatto scalpore, dal momento che è difficile confutarla e riparare lo strappo prodotto sullo sfondo di scena: rappresenta intellettualmente un chiaro segno di svolta. Tanto più che i centri di potere economico finanziario stanno producendo il loro massimo sforzo nel convincere le popolazioni europee di una fantomatica ripresa, ricorrendo anche a temporanee elemosine, per evitare intoppi alle cessioni di sovranità al sistema finanziario che si verificherebbero con la sconfitta dei partiti dell’austerità alle europee.
Così la reazione liberista, incapace di dare una risposta razionale a Piketty, si è espressa attraverso una desolante accusa di marxismo venuta dal Wall Street Journal e ripresa poi dai media delle colonie, compreso il Corriere della Sera, organo ufficiale della massima comun reazione del sistema politico italiano. Nessuna analisi e nessun ragionamento, ma solo l’evocazione del nome di Marx per segnalare agli incliti della finanza e ai colti del grande fratello i confini di appartenenza. Del resto i dati di realtà sono difficili da contestare e lo stesso Paul Krugman sostiene che il Piketty panic che si è impadronito degli ideologi del pensiero unico deriva semplicemente dalla loro mancanza di idee (vedi qui l’articolo originale). Figuriamoci dunque l’imbarazzo di quelli che avevano esaltato Renzi perché non aveva letto Marx (come se poi avesse letto Adam Smith, Bentham, Weber, Keynes o un qualunque manuale scolastico di economia politica : non risulta infatti siano stati pubblicati sull’albo di Topolino).
Ma in questa esplosione di panico e di fascino (le prenotazioni del Capitale nel XXI° secolo sono andate alle stelle) c’è qualcosa di più: il libro è come una liberazione da una cappa. Piketty non è marxista,  è definito tale solo da chi non sopporta che alcun dogma del liberismo venga messo in discussione, ma non sa come replicare: la costruzione è intellettualmente così fragile, posticcia, così chiaramente di natura politica, che anche a grattarne un po’ di malta rischia di cadere rovinosamente trascinando a fondo anche chi ha costruito nome e fortuna suonando ottusamente l’organetto. E lo si vede anche da queste reazioni: il solo accenno all’eguaglianza rende tout court marxisti, quindi comunisti, quindi nemici da additare alle vittime opportunamente addestrate a farlo e a colpevolizzarsi. Di certo quell’1% che detiene la metà della ricchezza mondiale e quegli 85 super ricchi che guadagnano come 3 miliardi e mezzo di persone, non amano che se ne parli. E lo si capisce: con quello che hanno speso per costruirsi un alibi che avesse la parvenza della scienza, adesso rischiano di essere messi a nudo.

Austerity - Il Pd ha votato con le destre europee il 73,41% delle risoluzioni


Questa mattina il responsabile comunicazione del Partito Democratico ha diffuso una grafica per dire che l'austerità è colpa delle destre e che grazie alla sinistra l'Europa tornerà a crescere.
Cosa che ci auguriamo anche noi.
Ci è venuto però un dubbio: con "sinistra" Francesco Nicodemo intendeva alludere al PD? Perché, nel caso, deve essergli sfuggito che in questa legislatura PPE e PSE (di cui il PD fa parte) hanno votato insieme il 73,41% delle risoluzioni e in ogni caso hanno sempre votato insieme le risoluzioni più importanti.
Esattamente come in Italia il PD ha votato -- insieme alle destre -- per l'inserimento in Costituzione del pareggio di bilanciohttp://bit.ly/pareggio-di-bilancio e per il Fiscal Compacthttp://bit.ly/fiscal-compact
#cambiaversione e puoi far credere quello che vuoi?
C'è solo un modo per far crescere l'Europa: costruire un'Altra Europa. Votare L'Altra Europa con Tsipras.
Per completezza, ecco i dati delle votazioni, aggiornati al 26 marzo 2014:

LEGISLATURA 
Voti totali 6408
Voti comuni PPE-PSE 4704
Percentuale 73.41%
-----------------------
2009 (dal 14 luglio al 31 dicembre):
Voti totali 303
Voticomuni 204
Percentuale 67.33%
2010:
Voti totali 1048
Voti comuni 724
Percentuale 69.08%
2011
Voti totali 1124
Voti comuni 834
Percentuale 74.20%
2012
Voti totali 1030
Voti comuni 764
Percentuale 74.17%
2013
Voti totali 1961
Voti comuni 1476
Percentuale 75.27%

lunedì 28 aprile 2014

In Ucraina l'Europa si è appiattita alla volontà americana, giocando alla provocazione antirussa di Paola De Pin

Nel sostanziale disinteresse del sistema mediatico italiano, troppo impegnato ad alimentare il nuovo sciagurato bipolarismo tra Renzi e Grillo, si sta consumando, alle frontiere orientali dell'UE, un dramma che potrebbe avere proporzioni inimmaginabili. L'Ucraina sprofonda sempre di più nella guerra civile. C'è la concreta possibilità che nello scontro siano coinvolte altre potenze: la Russia, la Polonia, gli stessi Stati Uniti. Anche se in Italia il pericolo viene largamente sottostimato (giornali e televisioni sono molto più interessati a render conto degli insulti che si scambiano i nostri politicanti) mai, dalla fine della guerra fredda, il mondo si è trovato così vicino ad un confronto tra potenze nucleari.
L'Europa non ha fatto nulla per prevenire questo esito disgraziato. Al contrario, al pari di un bambino spericolato ed incosciente, sembra divertirsi a gettare benzina sul fuoco. Eppure, non solo un naturale sentimento di giustizia, ma anche gli interessi materiali avrebbero dovuto consigliare un comportamento diverso.
L'Ucraina è divisa tra una parte occidentale, che guarda naturalmente all'Unione europea, ed una parte orientale, legata alla Russia per ragioni etniche, linguistiche ed economiche. Questa condizione, che ora sta portando il paese alla catastrofe, avrebbe potuto essere la fonte della sua prosperità. Come osservato da Romano Prodi in un articolo di qualche mese fa (pubblicato sul New York Times, ma naturalmente ignorato nel nostro paese) l'Ucraina è un ponte naturale tra un'Europa che necessita delle risorse naturali della Russia ed una Russia che ha bisogno dei capitali e degli investimenti europei. Sulla base di questa banale considerazione l'UE avrebbe avuto tutto l'interesse ad agire secondo queste direttive: a) aiutare economicamente l'Ucraina; b) favorire una risoluzione del conflitto per via elettorale e non attraverso una rivolta armata molto simile a un colpo di stato; c) promuovere una riforma federale, così da tutelare i diritti di tutti; d) infine - si tratta dell'elemento più importante - garantire che l'Ucraina non entrerà nella NATO, mantenendo una stretta neutralità.
Nulla di tutto questo è accaduto. Al contrario l'Europa si è totalmente appiattita alla volontà americana, giocando alla provocazione antirussa. Voglio, al riguardo, essere chiara. Non ho alcuna simpatia per Putin ed il suo regime. Penso, però, che quando noi giudichiamo la Russia omettiamo di ricordare un piccolo particolare.
La caduta del comunismo e la conseguente dissoluzione dell'URSS non hanno portato ricchezza e benessere diffuso. L'introduzione improvvisa dell'economia di mercato, promossa dall'FMI, ha al contrario determinato la svendita di tutto il patrimonio pubblico ed il taglio dei servizi essenziali. Le persone comuni si sono così trovate da un giorno all'altro prive di ogni protezione ed in balia di una oligarchia di profittatori e di criminali. Il dato che spiega in modo inequivocabile quanto accaduto è quello della durata media di vita. Con l'introduzione delle riforme, essa è sprofondata dai 70 ai 62 anni. Se passiamo poi al piano politico non possiamo non constatare che il bilancio è egualmente negativo. L'intrapresa più memorabile di Boris Eltsin, il presidente russo prediletto dall'Occidente, è stata quella di aver bombardato, col vergognoso plauso delle cancellerie europee, il parlamento che lo aveva eletto. Non stupisce, allora, visti i precedenti, che Putin sia così popolare nel suo paese.
È evidente che molti russi vedono in lui l'uomo che ha riportato un minimo d'ordine, impedendo il prevalere del caos e della disgregazione. Tutto questo, ripeto, può non piacere (e a me non piace), ma è impossibile non tenerne conto. È nel comune interesse di Europa e Russia avere proficui rapporti di collaborazione. Poiché in questo momento Putin gode il sostegno dei russi, è con lui che bisogna venire a patti. Da un clima di pace tutti, a cominciare dai popoli dell'Ucraina, trarranno beneficio.
L'Occidente, purtroppo, sta scegliendo la folle strada dello scontro. Come in altre occasioni, esso si avvale di compagni di strada di cui un giorno si dovrà vergognare. Dopo le bande armate che stanno distruggendo la Libia, dopo i fanatici islamici che seviziano la Siria è ora il turno dei neonazisti ucraini. No, tutti questi signori non sono un'alternativa a nessun regime, per quanto detestabile esso sia. La democrazia si costruisce nella pace, nella tolleranza e nel diritto. La guerra favorisce soltanto le oligarchie finanziarie che dominano il mondo.
I governi europei che si accodano supinamente agli USA sulla strada dello scontro agiscono contro gli interessi dei loro popoli e contro il buon senso.
Dobbiamo fermarli prima che sia troppo tardi.

Grillo parla come Berlusconi e non per caso ma per mestiere


Berlusconi “vede” comunisti dappertutto, negli ex democristiani come negli ex comunisti da venti anni convertiti al mercato e alle sue leggi infami. In realtà Berlusconi ha sempre saputo perfettamente che la cosiddetta sinistra italiana, quella del XXI° secolo, quella degli ultimi 25 anni, con il comunismo non c’entra assolutamente nulla. Ma il desiderio da una parte di cancellare le residue regole che rimangono nei rapporti di lavoro e dall’altra di condurre una precisa operazione mediatica, associando la parola comunismo alle manovre dei politici della cosiddetta sinistra ( in realtà una cordata di interessi capitalistici che sono in competizione con quelli da lui rappresentati ), ha cercato, anche con successo, di far crescere nell’immaginario della popolazione, l’idea che comunismo e la scandalosa politica dei governi di centro sinistra siano la stessa cosa. Questo per poter continuare a lungo la scandalosa politica degli affari propri e dei suoi amici, chiamata Centro Destra, e per sporcare le idee comuniste che teme più di ogni altra cosa.
Grillo fa la stessa operazione quando associa la parola Rossi ( che significa comunisti, che significa lotta di classe, che significa uguaglianza sociale ) alla peste, al fascismo, a Napolitano, a Renzi, al Centro Sinistra. La tecnica è la stessa, da una parte denuncia la scandalosa politica del Centro Sinistra ( ripeto, in realtà una cordata di interessi capitalistici che sono in competizione con quelli del Centro Destra e con il riassetto del capitalismo da lui confusamente immaginato  ) ma facendolo ( e di proposito)  utilizzando come sinonimi la parola Rossi (quindi comunisti, ogni libro di storia usa questo aggettivo – la settimana rossa, il biennio rosso, i Partigiani rossi e così via -) e le parole peste, Renzi, Napolitano, fascismo, porta avanti una operazione politica più profonda (ripeto ancora: scientemente), quella di gettare fango su una idea e su tutti coloro che combattono per essa.
E’ difficile dire quanto questi due vecchi milionari (Grillo e Berlusconi), cabarettisti e incantatori ( senza dimenticare il loro omologo al governo – Renzi -)cesseranno di imbrogliare i cittadini poveri di questo mondo. Quello che è certo, anche se l’orologio gli è contro, lasceranno più danni della grandine e una ignoranza difficile da cancellare.
Associazione Culturale CASA ROSSA

Per capire situazione Russia-Ucraina-"Europa" ragioniamo su rapporti USA-Cina di JOSEPH HALEVI




dalla pagina fb dell'economista Joseph halevy dell'Università di Sidney socializziamo un intervento assai interessante:
Non si può capire la situazione russia-ucraina-"europa" se non si parte dal rapporto USA-Cina. La procedura per formarsi un quadro d'insieme non è semplice.
Alcuni consigli:
(1) NON TRATTARE PUTIN come una specie di surrogato progressista faute de mieux è questo che rende la sinistra ovunque totalmente imbecille e comincio a credere che lo sia sempre stata). Non è così, in tutti i sensi. A cominciare dal fatto che Putin venne scelto dalla vecchia nomenclatura comunista- KGB (è stato il KGB ed esclusivamente il KGB a tener insieme la Russia durante Eltsin dato che stava andando a pezzi) per bloccare la sicura vittoria dei neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin. Tutto venne fatto dagli USA direttamente e soprattutto via "europa" per sostenere e rafforzare il potere di Putin prima come premier poi come presidente succeduto a Eltsin. L'elemento saliente di quel periodo è la seconda guerrra cecena (1999-2001). La strategia militare elaborata da Putin implicò delle perdite fortissime tra i civili residenti in Cecenia (sia ceceni che russi) e questa violazione dei diritti umani non venne mai denunciata politicamente e formalmente dagli "occidentali" perchè troppo importante era Putin in relazione ad un possibilissimo ritorno al potere dei (neo) comunisti
(2) NON TRATTARE LA CINA COME QUALCOSA di ROSSO PERCHE' C'E' il PCC AL POTERE (altro fatto che rende una grossa parte della sinistra completamente scema senza possibilità d'appello).
Il modo migliore, a mio avviso, di intepretare la Cina è vederla come un fenomeno ultra-bismarckiano. Ovviamente la formazione di una potenza bismarckiana delle dimensioni della la Cina pone dei problemi per l'altra potenza. La visione elaborata già nel 1999 dalla Rand Corporation in proposito mi sembra condivisibile sebbene non includa esplicitamente una componente economica. Il termine coniato presso la Rand è congage (neologismo derivante da confront and engage).A formularlo fu Zalmay Khalilzad, afghano emigrato negli USA diventato sotto Bush figlio ambasciatore USA a Kabul dopo il 2001, poi ambasciatore in Iraq dopo il 2003 ed infine ambasciatore USA all'ONU. Nel paper della Rand Corporation, linkato sotto, Khalilzad spiega dal lato geopolitico perchè con la Cina gli USA non possono avere soltanto rapporti di cooperazione amichevole o di solo conflitto. Congage unifica cooperazione e scontro. Economicamente si capisce meglio però. Pochi hanno colto la dimensione duale e contraddittoria degli interessi USA in Cina ma basta studiarsi, leggendo il WSJ e l'International New York Times, Walmart, Apple, e la General Electric per coglierli. Quelli sono in Cina per rifornire, in primo luogo, il mercato USA, in secondo luogo, il resto del mondo, in terzo luogo per vendere sul mercato cinese in crescita asfissiante (letteralmente). Il successo della loro presenza in Cina dipende dalla crescita cinese che è organizzata dallo Stato bismarckianamente. Questa crescita significa capacità di mettere in piedi in breve tempo grosse strutture industriali con ampie economie di scala e con ritmi di lavoro parossistici. Conferisce una dimensione concreta alla globalizzazione. Prendete il caso Apple I-pad-I-phone ecc: sono progettati negli USA, prodotti da una società di Taiwan ma localizzata in Cina perchè a Taiwan e nemmeno negli USA avrebbero potuto costruire, in poco tempo e con tutte le infrastrutture di collegamento, un insieme di impianti che occupano oltre 700 mila persone. Ma ciò significa che si è creato uno iato crescente tra gli interessi economici del capitale USA e la capacità dello Stato USA di garantirne gli interessi in maniera coerente (vedi le discussioni USA sulla necessità di far rivalutare la moneta cinese, lo Yuan: a non volerlo sono proprio le società USA che operano dalla Cina). Fino alla fine degli anni 90 il mantenimento della egemonia USA si fondava sul ruolo della spesa pubblica federale (senza la quale il sistema militar politico finanziario non funzionerebbe) e sul ruolo del dollaro che permettevano e permettono il controllo delle cruciali zone energetiche del medioriente. Nel suo libro The Grand Chessboard: American Primacy And Its Geostrategic Imperatives (N.Y. Basic Books, 1998) Zbigniew Brzezinski sostenne che il controllo dell'arco energetico che va dall'Arabia Saudita all'insieme del medio-oriente pemette di tenere al guinzaglio simultaneamente sia il Giappone che l'UE. Giustissimo per quel periodo. Da allora la Russia è emersa come superpotenza energetica e la Cina come fulcro della produzione industriale mondiale, nonchè come asse dei meccanismi finanziari sui mercati delle materie prime, del carbonio ecc. Insieme alla finanziarizzazione degli Oceani e soprattutto dell'Artico, la dinamica dei prodotti finanziari globali non è certo determinata dal debito pubblico italiano e dallo spread, bensì dalla Cina. La formazione di un continuum economico tra Cina-Russia-Europa (Germania) è nei piani sia cinesi che tedeschi e russi. La parte più debole meno coordinata è quella russa perchè il processo di disgregazione dell'URSS apertosi nel 1991 è lungi dall'essersi concluso. La Russia è una superpotenza energetica ma come forza statuale è ancora nel day-after del 26 dicembre del 1991. Per gli USA è essenziale che non si formi alcun continuum euroasiatico altrimenti entrerebbe seriamente in crisi la capacità dello Stato americano di proteggere coerentemente gli interessi del capitale USA.

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alcune ore dopo Halevy ha scritto un altro post che possiamo considerare un'appendice al precedente intervento:
Vorrei proprio sapere dove'è l'ideologia nel mio post su USA-Cina. Proprio per sgombrare il terreno da incrostazioni ideologiche che, riguardo la Russia di Putin, non avrebbero ragion d'essere, ho premesso che
(a) bisogna evitare di vedere Putin ed il suo regime come il surrogato di qualcosa di progressista. Non lo è. Nel suo regime non c'è alcun spazio per la ricostruzione di sindacati e/o di movimenti socialisti che non siano anche nazionalistici e sciovinisti. L'anno scorso il vecchio (ultra novantanne) Yegor Ligachev già membro del Politiburò del PCUS e numero 2 della Segreteria durante Gorbachev , accusò il partito comunista russo di oggi di essere diventato unicamente un partito statalista-nazionalista. Il che significa che il regime di Putin impedisce ogni ricostruzione di movimenti progressisti.
(b) Anche riguardo la Cina non bisogna cadere nell'abbaglio in base al quale essendo un'organizzazione politica chiamata Partito Comunista Cinese al governo allora la Cina è comunista nel senso che ha un governo volto ora allo sviluppo (vieppiù soffocante) ma un bel giorno invece... e che come tale si erge da contrappeso agli USA. Questa visione è sbagliata da cima a fondo ed essa è sì ideologica perchè deriva dall'ascrivere al PCC degli obiettivi che non ha e - qualora li avesse avuti (ci sono molti dubbi su ciò) - ha abbandonato da tempo.
Secondo me la sinistra che si vuole comunista in un paese come l'Italia che ha avuto un vasto popolo comunista (questo fenomeno è stato capito da pochissime persone tra le quali Leonardo Sciascia ed un grande politologo americano della Cornell University, Sidney (una y soltanto) Tarrow il cui libro di analisi sociologico-quantitativa sul PCI pubblicato da Einuadi nel 1971 è un classico insuperato) ha soprattutto bisogno di deep psychoanalysis. Non vogliono studiare why the cookie crumbled - perchè si è sbriciolato il biscotto - (URSS, maosimo, Vietnam: siii, Vietnam!! Ora il PC vietnamita dice che sono diventati comunisti solo per ragioni nazionalistiche. Bel pezzo di addio al Vietnam come fallimento della terza rivoluzione comunista per importanza storica apparve sul Journal of Contemporary Asia da parte di Gabriel Kolko che al Vietnam dedicò gran parte del suo impegno politico). Non vogliono leggere, non vogliono studiare niente, vogliono vivere solo nella nostalgia di un passato che castiga anche il loro presente cercando inutilmente si ricostruire qualcosa di cui non hanno alcuna valutazione oggettiva. Sono quindi votati al fallimento ed alla sofferenza psicologica permanente senza pensare di attingere alla cura naturale che proviene dall'intelletto: la capacità di rendersi culturalmente liberi ed analiticamente indipendenti senza miti vincolanti ed oppressivi.

“Con la Cgil spostata sempre più a destra la crisi del sindacato sarà sempre più acuta”. Intervista a Cremaschi

di Fabio Sebastiani – Controlacrisi.org
Il congresso della Cgil invece di parlare della crisi del sindacato sarà l’ennesima vetrina con qualche effervescenza sui dati dei congressi di base. Non ti pare un po’ poco anche a te?
Il congresso nazionale arriva con una Cgil più spostata più a destra rispetto a come era partita. E’ questo il dato politico principale. Siamo di fronte a una deflagrazione verso posizioni ancora più moderate del gruppo dirigente. Non bisogna dimenticare, infatti, che c’è stato l’accordo del 10 gennaio che ha fatto esplodere la maggioranza. Da una parte il fallimento evidente del disegno degli emendatari, tutto proteso a condizionare dall’interno la maggioranza e, dall’altra, un gruppo dirigente su posizioni più moderate sul piano sindacale e politico.
Sì ma è un fallimento che nessuno registrerà, visto che Camusso ha vinto con percentuali bulgare i congressi di base.
Il bilancio sul cosiddetto dibattito interno è drammatico. Siamo partiti con una Cgil che si rimproverava di non aver fatto tutto quello che doveva sulla legge Fornero ed oggi ci ritroviamo con il vuoto totale di iniziativa contro Renzi. Siamo partiti con l’autocritica alle tre ore di sciopero e finiamo con il fatto che non si sciopera più. Sui congressi di base va detto che, a parte le denunce di brogli totale non applicazione del regolamento, che abbiamo già prodotto, siamo di fronte a una platea congressuale che non rappresenta la realtà della Cgil. Pensare che nella Cgil ci sia più del 90% che sta con Susanna Camusso e le sue posizioni non risponde alla realtà. Anche gli aspetti di colore sono significativi. Il fatto che sia stato invitato Moretti è un atto vergognoso. Voglio ricordare che Moretti ha licenziato Riccardo Antonini che è un delegato della Cgil. Questo è un congresso della crisi della Cgil che deriva dalla crisi economica e di un gruppo dirigente che reagisce solo con autoritarismo e annullamento della democarazia
E quindi voi al congresso che farete?
Noi andremo al congresso per fare tutte le battaglie possibili compresa quella della nostra esistenza perché l’hanno messa in discussione. Perfino con la trasgressione più sfacciata delle regole congressuali. Non sono stati annullati, infatti, i congressi dove è documentato che hanno votato i defunti e gli ammalati. Gli organismi di garanzia hanno lavorato fino in fondo per Susanna Camuso e la sua maggioranza. Questo è il congresso dell’abuso di autorità e della prevaricazione continua dove la Cgil darà il peggio di se. Questa crisi l’avevamo annunciata. Non voglio fare polemiche ma, insomma, se dal 31 maggio dell’anno scorso si fosse messo in piedi un fronte di opposizione interna non saremmo giunti a questa situazione. Noi proponiamo a tutti quelli che non sono d’accordo con Camusso un’alleanza comune di tutte le opposizioni nella diversità perché la situazione è gravissima. Un percorso di auto-annullamento della Cgil.
Hai fatto diverse assemblee nei luoghi di lavoro, che impressione ne hai ricavato?
Non c’è niente di peggio di un sindacato concertativo senza concertazione. Una sopravvivenza burocratica che espone i lavoratori al disastro. La sensazione nei luoghi di lavori è che il sindacato non esiste più. Renzi l’ha compreso benissimo e quindi affonda nel burro. La Cgil propone una sopravvivenza burocratica e autoritaria. Quello che abbiamo visto nei congressi è un enorme dissenso falsificato però dai risultati. E anche un elemento di assoluta sfiducia nella capacità e nella volontà del gruppo dirigente, che è il gruppo dirigente che ha il minor prestigio proprio quando vanta la massima maggioranza numerica. Non sta a noi proporre come risolvere questa contraddizione.
Al suo congresso la Fiom ha invitato una delegazione di Usb, che ha accettato di buon grado…
Considero positivo la decisone Fiom di invitare Usb. Non solo atto di cortesia ma un rapporto positivo cominciato dopo le critiche di entrambi all’accordo del 10 gennaio. Noi, che porteremo quell’accordo in tribunale, lavoriamo su questo in fondo. Detto questo, la Fiom è a un bivio, mi pare evidente. L’accordo del 10 gennaio è fatto per normalizzare la Fiom. Se non l’accetta deve trovare un modo per costruire l’opposizione. Credo che non possa stare in mezzo.
Come vi caratterizzerete a Rimini?
Il 6 maggio faremo un presidio proprio perché non accettiamo tutto questo. Una assemblea davanti al congresso della Cgil per iniziare la battaglia democratica che proseguiremo poi all’interno del congresso.

Piombino, Grillo flop nella piazza operaia



Grillo Piombino TW


Ieri Grillo è andato a fare un comizio a Piombino ed ha fatto un attacco frontale al PD e al Sindacato in quanto tale, Fiom compresa. I giornali parlano di 2/3.000 persone. I compagni e le compagne di Piombino che ho sentito di 400/800, di cui larga parte venuti da fuori con agli autobus. Un cartello che contestava a Grillo la strumentalità elettorale della sua presenza è stato tolto brutalmente dalle mani di chi lo teneva - un operaio dell'acciaieria - e fatto sparire dal servizio d'ordine. Gli operai che in questi hanno hanno fatto le lotte contro la chiusura dell'acciaieria - una minoranza è bene saperlo - non c'erano, anzi hanno fatto nei giorni scorsi un invito a Grillo a non venire. Grillo ha dimostrato nel comizio di non conoscere per nulla la realtà dell'acciaieria di Piombino, che ha fatto le rotaie per le ferrovie di tutta Europa e non potrà mai fare pentole. Grillo però i voti li prenderà, anche a Piombino. Non i voti di chi ha lottato contro la chiusura, di chi si è battuto contro la privatizzazione della siderurgia ma i voti dei delusi e dei disperati. Vi è chi ha già fatto notare un anno fa che il successo di Grillo è costruito sulla disperazione che nasce dalla sconfitta dei movimenti. L'elemento che nella vicenda di Piombino si evidenzia, è che oggi questa disperazione non solo si è trasformata in delega all'uomo della provvidenza, ma che sta trasformandosi in delega passiva priva di ogni speranza. La cosa era certo prevedibile: se le cose vanno male e per raddrizzarle occorre costruire i rapporti di forza, cosa che non si fa con 4 vaffa e correndo dietro al senso comune su ogni stupidaggine entrata in testa nella maggioranza degli italiani. Nel cartello che denuncia la strumentalità di Grillo vi è il segnale di un punto di passaggio: dal Grillo fuori del palazzo e che rappresenta il popolo, al Grillo che è dentro il palazzo, che ha preso il 25% dei voti, che sta tutti i giorni sui giornali e che non ha cambiato nulla, ma proprio nulla. Del Grillo che non sa cosa proporre se non di dargli più voti e più potere. Grillo per una fase ha riempito un vuoto, ha fatto sperare tanta gente che si riaprisse una efficacia della politica. Oggi comincia a non essere più così. Nel momento più buio, dove la demagogia e la teatralizzazione della politica la fanno da padrona, dal punto più disperato, dove una fabbrica simbolo chiude senza grandi conflitti ma lasciando una enorme disperazione, si riapre un terreno per la sinistra e per i comunisti, cioè per chi non chiede deleghe per l'uomo della provvidenza ma lavora a ricostruire una soggettività e una consapevolezza di ognuno e ognuna, cioè di tutti, di massa si sarebbe detto un tempo. Non vi è nessuna scintilla che può far divampare un incendio ma un segnale di un lavoro possibile, di cui anche il successo della lista Tsipras può essere un tassello.
di Paolo Ferrero

«Il lavoro si può anche perdere ma non si può perdere il reddito». Beppe Grillo spera così, giocando la carta del reddito di cittadinanza, di conquistare la piazza di operai della Lucchini di Piombino, che giovedì ha spento l’altoforno. Una città di 36 mila abitanti cresciuta nel culto dell’etica del lavoro identificato in questa fabbrica e che ora rischia di perdere la dignità, anzitutto.
Perché il reddito viene dopo. Sono duemila i lavoratori, tra diretti e indiretti, da ieri senza più la certezza del futuro. Venir qui a barattare il reddito di cittadinanza con l’orgoglio della professionalità operaia è un errore che crea un gelo abissale tra il comico e un pubblico che non era il suo e di sicuro non lo è diventato ieri. Nei viali della fabbrica davanti alla Direzione saranno in millecinquecento a sentire Beppe Grillo. È una bella giornata, di quelle che da queste parti si dedicano al mare qualsiasi cosa debba o possa accadere. Le quattro sono un orario compatibile.
Un rigido servizio d’ordine divide, stranamente, gli ingressi tra pubblico e stampa. Il palco è davanti agli uffici. Lì sopra e intorno si stanno scaldando alcune senatrici Cinquestelle, Nunzia Catalfo, Sara Paglini, Laura Bottici, che spiegano a modo loro perché l’accordo di programma siglato l’altro giorno da governo e regione è «una bufula», il trionfo del «solito cinismo delle parole».
 
Per questa gente, queste parole puzzano di propaganda. I cittadini parlamentari mostrano di non aver compreso. Quando la misura è colma, nella prima metà del vialetti compare un cartello esplicito: «Troppo comodo fassi vedé per i nostro funerale». Grillo sta per salire sul palco. Una manciata di secondi che impedisce di dire che la contestazione fosse diretta proprio a lui. Il servizio d’ordine passa comunque all’azione: il cartello viene strappato dalle mani del signore che si definisce «un quadro della fabbrica», e finisce in brandelli.
Qualcuno nelle prime file comincia a urlare «comunisti, comunisti» mentre il civilissimo candidato sindaco Cinquestelle di Piombino Daniele Pasquinelli chiede maggiore rispetto per le opinioni diverse. Il dissidente se ne va. Il servizio d’ordine trattiene i giornalisti che lo vorrebbero raggiungere. Così van le cose nella democrazia grillina. Il gelo a questo punto si mescola con la tensione. Grillo è sul palco. Animale da palcoscenico, capisce che questo non è il suo pubblico e cerca di blandirlo come può: «Abbassate le bandiere, perché questo è veramente un funerale». Poi attacca a testa bassa: «È il funerale del sindacato, però, che ha continuato a mettervelo in culo con la speranza».
Durissimo contro il Pd e «il regno schifoso della peste rossa tipico di questa zona». (Nel 2013 il Pd ha tenuto con il 44,7% (57,4 nel 2008) nonostante M5S fosse arrivato al 23,9). C’è poco da fare: la prima volta di Grillo in una piazza non grillina non è un bello spettacolo. Non è un bagno di folla, non è un tripudio di invettive sommerse dagli applausi, non è un vaffanculo in cinquantamila. Attacca tutti, «il nano», «l’ebetino», il governatore Rossi, l’Europa «che tiene bloccati due miliardi per la siderurgia e noi dobbiamo andare a prenderceli». Inevitabile il solito, scontato attacco al presidente Napolitano.
Parla poco Grillo, neppure venti minuti anche perché ammette di «non sapere dove va la siderurgia». Non è il suo pubblico. Lo sa anche lui. La gente non applaude. Non si esalta. Tace. Qualcuno comincia a mugugnare e a uscire dal recinto della manifestazione. Prende forma in un attimo l’orgoglio della tuta blu con su scritto Lucchini. «Io non voglio il reddito di cittadinanza», alza la voce Graziano Martinelli. «Io voglio lavorare, non voglio fare il parassita ma per chi ci hanno scambiato, ohhh». È furioso, Martinelli. Vuole un Paese «con le idee chiare sulle politiche industriali e che si metta al tavolo con gli operai per decidere quale sia la soluzione migliore».
di Claudia Fusani, L'Unità