lunedì 30 giugno 2014

#Italiastaiserena by Il Simplicissimus

renzi-killerjpgCerto è dura passare una domenica senza vedere il faccino di Renzi che fa lo sborone o discutere un suo imperdibile twitt, i fan si sono dovuti accontentare di un misterioso cartiglio in cui premier dice che “siamo della generazione Erasmus” un’esperienza che egli stesso ha fatto trasferendosi brevemente dall’università di Firenze alla Ruota della Fortuna. Molto poco per un Paese ormai così assuefatto che soffre senza la sua dose , anche se sa che il lider maximo è chiuso nella sua stanzetta a scrivere il discorso per il semestre italiano in Europa. Una bellissima cosa se l’alto incarico non si limitasse all’organizzazione e relativo pagamento dei lavori, convegni, incontri, ma il ragazzo si impegna perché è l’ultima buona occasione di far vedere quanto i valgono i suoi ghost writer.
In compenso però media e giornaloni non hanno lesinato sul metadone andando a scomodare tutto il cerchio magico del guappo per mettere insieme un benefico beverone di ottimismo che mette le ali. Mentre leggi anti corruzione e job act sono sprofondati nel nulla, il ministro Poletti fa sapere che manca un miliardo per finanziare la cassa integrazione in deroga, 50 mila lavoratori col culo per terra. Ma sono sciocchezze perché il sottosegretario Delrio, sgravato per un attimo dal concepimento industriale di marmocchi, dice che grazie alla flessibilità europea si sbloccano dieci miliardi e vaneggia di eurobond immobiliari Peccato che la flessibilità europea non esista e che Delrio farebbe bene a leggersi i documenti, invece di farseli riassumere da Matteo che li conosce per sentito dire. Purtroppo il sottosegretario all’economia Morando dice pure che non ci sono nemmeno i miliardi sperati della spending review, che forse bisognerà fare una manovrina a meno di non svendere selvaggiamente il patrimonio dello stato e le ultime aziende rimaste.
Insomma un bordello dentro il quale si intravede molto chiaramente il ritratto della Grecia. una sorta di manicomio nel quale non si ha una mezza idea strategica su cosa fare se non spremere ciò che si può con i pos obbligatori, con il ritorno dell’anatocismo bancario, con la folle idea di far pagare il canone Rai anche per Internet. Davvero una triste sceneggiata per ora nascosta dal can can sulla riforma del Senato come se fosse la panacea di tutti i mali e non invece un male aggiuntivo, un’ esercitazione di tracotante dilettantismo politico.
In compenso Berlusconi ha scoperto di essere fautore dei diritti civili, deprimendo la nota pasionaria dell’omofobia, Michaela Biancofiore. E il presidente Napolitano festeggiando il proprio innumerevole compleanno ha bonariamente risposto agli auguri, senza ringraziare ma, come si conviene a un monarca esprimendo “il suo caloroso e grato apprezzamento per queste espressioni di stima e personale vicinanza”.
Tutto molto divertente se non fosse che il “vero fico”, come lo chiama Scalfari non ha ottenuto un fico secco dall’Europa, né ammorbidimento del fiscal compact, né slittamento al 2016 del pareggio di bilancio (che peraltro sarebbe obbligatorio grazie ai demenziali rimaneggiamenti costituzionali), né scorporo degli investimenti o dei pagamenti della pubblica amministrazione dal deficit. Un flop completo che però si evita accuratamente di mettere in luce evitando di affrontare il disastroso panorama generale. Ma si, è chiaro che ci vorrà un’altra manovra per rimangiarsi con gli interessi quegli 80 euro pagati peraltro dall’Inps, che il marcio affiora a vista, che le riforme di cui si fa ambiguo spaccio consistono nello sbancamento del welfare e dei salari, ma tutti fanno finta di non vedere e al massimo citano piccoli graffi marginali. #Italiastaiserena,

"In Europa per ricostruire un blocco sociale su precarietà e democrazia". Intervista ad Eleonora Forenza


“Una delle prime vittime di Merkel è proprio la socialdemocrazia, solo che stentano a rendersene conto. Anzi, per quanto riguarda Renzi sembra proprio essere diventato l'alfiere di quel modello di governance”. Alla festa della Federazione del Prc di Roma è il turno di Eleonora Forenza, che ieri sera ha chiuso il programma degli interventi politici, nello spazio dibattiti del parco Caravaggio.
La prima domanda riguarda proprio il recente discorso programmatico della cancelliera tedesca in cui non sembra esserci traccia non solo del significato politico del voto di maggio alle europee ma della possibilità della trattativa sull'austerità, al contrario di quello che va dicendo il premier italiano Matteo Renzi.
Qual è stata la tua sensazione quando sei arrivata al Parlamento a Bruxelles?
Ho trovato un clima molto positivo nel gruppo della sinistra europea, dove aspettavano il ritorno degli italiani e tengono in gran conto la figura di Barbara Spinelli. E’ un gruppo composito quello della sinistra europea che è stato in grado però di capire la novità di alcune realtà come Podemos iniziando a stringere un immediato legame. Stiamo provvedendo ai preliminari ancora. Decidendo cioè la distribuzione dei parlamentari nelle varie commissioni. Personalmente andrò al Commercio estero, e quindi mi occuperò di Ttip, e all’Ambiente.
Il significato del voto non sembra sia stato recepito da chi ha la responsabilità del governo.
Il voto, tra alto tasso di astensione e ingresso della destra, è stato sostanzialmente eluso. Lo stesso balletto delle cariche tra Junker e Shultz non ha scandalizzato nessuno. L’asse delle larghe intese è saldo e prescinde dal nodo del consenso e di quale idea di Europa si sta facendo largo nel Vecchio Continente. Il 2 luglio verrà Renzi ad illustrare il profilo programmatico del semestre, ma è chiaro che per quel percorso non c’è alcuno spazio reale.
E per la sinistra europea quale percorso si prospetta?
Beh intanto c’è un importante lavoro fatto, non scontato, con il successo della lista Tsipras e con il ruolo dello stesso leader di Syriza nell’ambito europeo. Il lavoro da fare riguarda, a grandi linee, riuscire a sincronizzare il livello europeo con quanto accade a livello nazionale per quanto riguarda le mobilitazioni e la costruzione dei programmi politici e rivendicativi. Al di là dei modelli nazionali, da Syriza a Izquierda unida passando per la Linke, è chiaro che non va abbandonata una prospettiva europea nella costruzione della soggettività politica.
Con quali coordinate?
Il baricentro è la ricomposizione del blocco sociale intorno alle battaglia sul reddito minimo garantito e la precarietà. E poi mi sembra che vada consolidato il tema della democrazia. Semmai ce ne fosse stato bisogno, anche gli ultimi segnali, sia in Italia che in Europa, dicono che si sta andando verso un modello di governo autoritario.
Il famoso 4,03%, un numero piccolo ma dagli effetti forti, visto che a sinistra sta provocando molti movimenti tellurici.
Le terre di mezzo, come dicevo, sono finite. Come ha già sottolineato l’esperienza di Syriza, non si tratta di mettere insieme partiti e organizzazioni politiche; il punto è mettere insieme ciò che il liberismo ha diviso e continuerà a dividere. Penso per esempio, al prezioso lavoro della Linke che sul Ttip ha già costruito relazioni importanti con i movimenti.

domenica 29 giugno 2014

DALLA PARTE DELLE BANCHE


Renzi cambia verso all’anatocismo: lo reintroduce

Era stata una delle battaglie più lunghe e appassionate delle associazioni di consumatori, e in particolare dell’Adusbef, che l’aveva condotta con una perseveranza implacabile. Alla fine, dopo una ventina d’anni di reclami, cause e ricorsi, sembrava che la guerra contro l’anatocismo fosse stata vinta: una sentenza delle sezioni unite della Cassazione e poi addirittura della Corte Costituzionale avrebbero dovuto essere la pietra tombale per questa pratica delle banche, che consiste nel calcolare gli interessi sugli interessi a debito dei clienti. In altre parole, se si chiede un prestito, gli interessi sulla somma ottenuta venivano a loro volta sommati ogni tre mesi per calcolare i nuovi interessi che sarebbero decorsi da quel momento. In questo modo il tasso effettivo (e dunque i soldi da restituire) aumentava in modo esponenziale.
Alla fine i tribunali e la Cassazione (nel 2010) avevano dato ragione ai consumatori, ma l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva inserito nel consueto “decreto milleproroghe” di fine anno una norma che costituiva in pratica una sanatoria per quanto avvenuto fino a quel momento, bloccando i rimborsi richiesti dai clienti. Un nuovo ricorso, questa volta alla Consulta, cancellava anche questa norma con una sentenza del 2012. Al governo non restava che prenderne atto, cosa che fu fatta con la Legge di stabilità dell’anno successivo.
Sembrava dunque che in materia non ci fosse più nulla da dire e che quella lunghissima battaglia fosse stata vinta. Invece no, si ricomincia. Perché l’attuale governo, con un blitz di cui pochi si sono accorti, ha reintrodotto l’anatocismo con un decreto pubblicato il 25 giugno (il n. 91/14). Al danno si aggiunge la beffa, visto che il decreto è stato chiamato “Disposizioni urgenti per il rilancio e lo sviluppo delle imprese”.
Rispetto al passato cambia solo il fatto che il calcolo degli interessi sugli interessi non potrà più avvenire ogni tre mesi, ma solo ogni anno. Ci sono altri dettagli tecnici, che però non cambiano nulla della sostanza del provvedimento.
Naturalmente l’Adusbef ha già annunciato un nuovo ricorso. Che molto probabilmente avrà successo, visti i numerosi precedenti. Resta da capire perché il governo si sia imbarcato in questa avventura, reintroducendo un meccanismo odioso più volte giudicato illegale. Se è la contropartita per aver chiesto più tasse alle banche, si poteva scegliere un modo meno impopolare e soprattutto più furbo, data la quasi certezza di una prossima ennesima cancellazione.

La vera, unica riforma: torniamo prima del ’92


legge-elettorale-mattarellum-porcellum-2La riforma, le riforme. Singolare e plurale si intrecciano, a volte si scambiano nei discorsi e nelle esternazioni di Matteo Renzi e dei suoi ministri. Perché a volte sembra che la riforma debba essere quella per antonomasia e non possa che essere un insieme di cambiamenti radicali delle norme costituzionali; altre volte si fa cenno alla singolarità degli interventi che la maggioranza di governo vorrebbe adottare e far passare in sede parlamentare.
Fatto sta che c’è una logica molto sottile e precisa che lega le riforme renziane e che mira ad indebolire il Parlamento non tanto eliminandone il carattere bicamerale, quanto facendo dell’unica camera rimanente un luogo elettivo con una legge elettorale dove dominerebbe con una acquisizione assoluta di seggi il partito o la coalizione vincitrice da un ballottaggio finale. Berlusconi contro Renzi? Renzi contro Grillo? Grillo contro Berlusconi? In fondo gli scenari sono precostituibilmente immaginabili e calcolabili.
Ed ecco che ognuno propone, come di consueto, una legge elettorale pro domo sua: i grillini a collegi con sbarramenti variabili da loco a loco, Renzi con uno sbarramento nazionale, la reintroduzione delle preferenze a patto che i pentastellati accettino l’impianto sostanziale dell’Italicum.
Forza Italia recrimina, Brunetta guida la fronda contro la nuova prospettiva di accordo tra PD e Grillo e in verità di tutto si parla tranne che di una seria riforma dell’apparato statale.
Personalmente ho grandi e forti dubbi che serva una riforma di questa risma: l’abolizione del Senato (e non tanto perché un senato c’è sempre stato, fin dall’ “ab Urbe condita” di Livio) può anche avere motivo di essere, ma solo se si va verso un monocameralismo che rispetti comunque determinati passaggi parlamentari di garanzia circa i cambiamenti costituzionali e anche il processo di formazione delle leggi.
Se il bicameralismo perfetto ci ha protetto quanto meno negli anni più bui della Repubblica, quando i De Lorenzo, gli Junio Valerio Borghese, Gladio e stragi di stato e strategia della tensione erano all’ordine del giorno, e se ci ha anche protetto da molti tentativi fatti dal ventennio berlusconiano di sovvertire in chiave piduista l’impianto centrale della Carta del 1948, oggi potrebbe ancora svolgere questa funzione riparandoci dai tentativi di mettere in essere una repubblica di stampo presidenziale, dove il Parlamento, dimezzato e ridotto a mero esecutore delle volontà dell’esecutivo, non sarebbe altro che un luogo di mera rappresentanza privo di qualunque potere fondamentale.
La prima riforma da fare, vera, seria, sarebbe quella di mettere in pratica la Costituzione, ripristinandone anche ambiti che sono stati ampiamente inquinati: l’introduzione del pareggio di bilancio ne è un chiaro esempio.
Andrebbe invece ripristinata una serie di garanzie che esistevano e che garantivano non solo l’aspetto ma il concreto ruolo pubblico del parlamentare che, invece, col tempo è divenuto espressione privata delle segreterie di partito o di movimento che siano.

La settimana delle riforme di Renzi è, quindi, una settimana lontana dall’essere quello che dice di voler essere. E’ la ricerca di una tessitura di una tela che finirà per essere disfatta, un po’ come Penelope faceva per allontanare la minaccia del matrimonio con i proci.
Oggi il compito di una opposizione di sinistra a questo governo deve essere proprio il disfacimento di ogni intervento governativo in questo senso: la Costituzione e la legge elettorale per essere più democratiche devono riassumere i caratteri che avevano prima del 1992, rendendo la prima applicabile in ogni sua determinazione e la seconda nuovamente proporzionale pura. Senza sbarramenti. Un partito davvero forte non ha bisogno di premi di maggioranza per governare, ma deve confidare nel dettato della Carta, secondo cui i governi si formano in Parlamento secondo una maggioranza che lì deve crearsi col confronto e non antecedentemente la data delle elezioni, indicando ai cittadini chi sarà il presidente del Consiglio ancor prima che venga nominato dal Capo dello Stato con il mandato esplorativo.
Tutto è stato sovvertito in questi anni. E con il tacito beneplacito anche del Colle più alto della Repubblica.
Tutto è stato sovvertito in nome della governabilità che non è esistita mai e che è servita solo da paravento per nascondere le vere intenzioni di chi ha seduto a Palazzo Chigi: proteggere determinati interessi economici al di là della democrazia rappresentativa, delegata ed effettiva nelle sue istituzioni.
Non esiste altra riforma che questa: ritornare alla delega totale, piena e senza alcun trucchetto di giornata. E la delega piena, per quanto insufficiente sia (in quanto non governo diretto del popolo ma, appunto, delega), è sempre meglio di una delega data col valore diversificato a seconda del partito scelto: chi conta di più vale di più e chi conta di meno vale di meno.
Esattamente il contrario di quanto affermato dalla Costituzione, ancora una volta, che protegge invece le minoranze. Perché non sempre la maggioranza ha ragione. E se serve un controllo sulla maggioranza, questo non potrà che essere fatto da chi non è maggioranza. Ammesso che si accetti, tra Italicum, Democratellum e porcelli vari che una minoranza politica, sociale e civile in Italia possa ancora avere dei diritti, esistere e rappresentare una larga fetta di popolo.
MARCO SFERINI

La decrescita non è un'alternativa di Pierluigi Fagan

Tis the time’s plague when madmen lead the blind”.
W. Shakespeare King Lear (Atto IV°, scena prima)

dollLe opinioni ed il dibattito su quel composito mondo di stimoli ed idee che cade sotto il termine -decrescita-, partono da un assunto. Questo assunto risale al momento nel quale questo termine, ed il successivo movimento di idee che lo seguì, nacque.
Eravamo ai primi degli anni ’70 e a cominciare dall’economista franco-rumeno N. Georgescu Roegen, ma in contemporanea nel movimento dell’ecologismo scientifico e nelle analisi del Club of Rome, nonché in certa cultura sistemica, si prese coscienza del semplice fatto che una crescita infinita (modello economico dominante) in un ambito finito (pianeta), era impossibile. Prima che impossibile era assai dannoso per le retroazioni che si sarebbero innescate sia in termini ecologici, sia negli stessi termini economici termini che avrebbero portato con loro, pesanti conseguenze sociali, alimentari, sanitarie, culturali, geopolitiche, paventando la formazione di chiari presupposti catastrofici. L’intuizione della decrescita, una sorta di cassandrismo destinato come tutti i cassandrismi a risultare antipatico e sospetto di eccesso paranoide, nasceva quindi da uno sguardo in prospettiva e nasceva proprio nel momento in cui la società della crescita era al culmine dei suoi gloriosi trenta anni di galoppata.
Messa così, la questione si presentava come una opzione, la fatidica alternativa volontaria di una uscita ordinata da un sistema economico che non poteva esser inteso come un “pasto gratis”. Era un pasto, ma non era gratis poiché aveva appunto dei costi. Non solo quelli sociali ben noti all’analisi marxista, ma anche quelli bio-ambientali che rispetto ai primi, hanno l’urgenza primaria che gli deriva da essere della categoria a cui siamo tutti iscritti, al di là del genere, dell’anagrafe, dell’etnia e della classe: il biologico.
Bene o male, la questione è ancora così intesa. Dai detrattori che rimangono addirittura divertiti dall’impresentabilità concettuale di quella pattuglia eretica che annovera assieme a vegani-animalisti-abbracciatori di alberi anche anti-moderni con ex-marxisti, eco-olisti con natural-sofisti, sistemici non conformisti e qualche professore universitario eterodosso. Ma anche dalla stessa variegata pattuglia dei supporter che si riunisce politicamente a fatica solo intorno ad una specie di teologia negativa, lì dove è incerto di dire sì a cosa perché è chiaro solo l’accordo sul no.
Quella che vorremmo proporre è una riflessione che faccia il punto a più di quaranta anni dall’emersione dell’idea, sul suo statuto: la decrescita è davvero una alternativa? Secondo noi, no. Non crediamo sia una alternativa ma un fatto. Un fatto che non ci pone la domanda se ci piace o meno ma che ci pone la domanda su come viverci assieme, poiché siamo già in decrescita, da decenni.
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Nei primissimi anni ’70, accaddero quattro fatti:  
1) Uscì The Entropy Law and the Economic Process di Georgescu Roegen (1971);  
2) Uscì il Rapporto del Club of Rome curato degli studiosi del M.I.T. (1972); 
3) L’allora presidente degli Stati Uniti d’America R. Nixon comunicò la sera di un 15 Agosto (1971), ad un mondo distratto ed in vacanza, che non valeva più la precedente architettura di patti e trattati economico-monetari stipulati nel 1944 (Bretton Woods) e che dall’indomani, gli USA avrebbero stampato dollari decidendo liberamente il quando ed il quanto. Si trattava del fiat money, una specie di creazionismo sul modello vetero-testamentario. Lì Dio diceva “Luce!” e la luce fu, qui il presidente diceva “Dollaro!” e dollari furono. Tanti. Prima esisteva un restrittivo ilomorfismo per il quale va bene la forma, ma c’era anche bisogno della materia per cui per stampare 100 dollari erano necessari 100 dollari di oro nei forzieri di Fort Knox. Dopo l’invenzione ferragostana invece si passava alla metafisica del valore, si diceva denaro e compariva denaro, si diceva ricchezza e -oplà-, ecco la ricchezza. Per pura coincidenza, nel 1971 apre anche la slot machine di ogni futura speranza di crescita dell’economia post-industriale: 
4) il NASDAQ. 
Sembra dunque che le presa di coscienza dell’impossibilità della crescita infinita non sia stata solo in coloro che paventavano il collasso ecologico-sistemico, ma anche in coloro che il collasso economico-sistemico già lo vedevano in atto e non per motivi ecologici ma per impossibilità strutturale di continuare a produrre crescita economica tradizionale, a partire dagli USA.
Sappiamo poi come sono andate le cose. B. Bernanke regna per ben 19 anni a capo di una Fed che stampa tonnellate di denaro che presta a tassi prossimi allo zero creando un lungo intervallo verde (verde è il colore dei dollari, intervallo verde è la traduzione letterale di green-span). Dopo sessantasei anni (nel 1999) viene abrogato il Glass-Steagall act e tutta una pioggia di invenzioni banco-finanziarie creano l’effetto di moltiplicare a dismisura il volume dei foglietti verdi che Fed distribuiva ormai come la pubblicità degli acquapark cade dagli aeroplanini che sorvolano le spiagge. De-regulation, de-localizzazioni, privatizzazione, globalizzazione, debito a pioggia, per un lungo presente felice di ricchezza per tutti! Questa è stata la crescita occidentale degli ultimi 40 anni accompagnata dai  chierici della scolastica economica, alacremente intenti a produrre summae theologiae che inneggiavano alla new-economy, all’innovazione perpetua, alla schumpeterismo permanente, alla mistica della “creazione del valore”. Ancora oggi vi sono anche sette ispirate i cui medium invocano la parola di Smith per un mercato libero-libero, perché solo così può manifestarsi il fantasma della mano invisibile.
Quando questo precario sistema-tampone ebbe un primo collasso, prima si accusarono gli avidi, poi si invocarono le regole che per altro erano state scientemente abrogate dagli stessi invocanti. Poi si teorizzò che esistesse una teoria economica-monetaria responsabile ideologico del misfatto: il neoliberismo. Ancora oggi l’Fmi si affanna a dare consigli sulle modifiche strutturali necessarie a riprodurre le condizioni necessarie per nuovi miracoli, le economie post moderne riscoprono il valore industriale ormai perduto in favore degli emergenti, rialzano la testa i keynesiani ed un francese (T.Piketty) diventa best seller del ranking librario del NYT con le sue 696 pagine di argomentazioni contro l’ineguaglianza che destabilizza l’intero sistema. Ma tutti sembrano eludere il fatto.
Il fatto è che le economie occidentali non crescono più.
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Decresce l’occupazione poiché gli 1-2-3% di Pil in più che si mostravano non avevano nulla a che fare con l’economia di produzione e scambio (quella vigente dal XVIII° secolo). Decresce l’occupazione perché com’è noto dai tempi di Ricardo e poi a Keynes, cresce l’innovazione tecnologica, i servizi impiegano meno dell’industria, le produzioni si saturano progressivamente, la platea dei produttori si è allargata a dismisura molto di più di quella dei consumatori, le produzioni ad alto impiego di lavoro sono sempre più non occidentali.  
Decrescono i profitti d’impresa ed infatti la mortalità imprenditoriale è pari all’abnorme sviluppo degli impieghi finanziari, ormai totalmente slegati dal finanziamento della macchina produttivo-scambista.  I possessori di capitale impiegano il denaro nelle slot machine finanziarie perché molto più remunerative, più veloci, più agili nel permettere spostamenti di investimento continui in un mercato che continuamente cambia.   
Decresce l’innovazione (tranne quella banco-finanziaria) poiché la quantità-qualità della creazione anni ’50-’60 (per non dire di quella post macchina a vapore del XIX° secolo o seguente la rivoluzione elettrica) non ha nulla a che vedere con le anoressiche start up su qualche app per i devices della sempre più nevrotica distrazione di massa. Decrescono le utilità ed i rendimenti perché è nella natura di questo sistema avere grandi inizi e code sottili.
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Decresce il risparmio diffuso perché la ricchezza rinnovata è sempre minore e bisogna dar fondo all’accumulato, quindi crescono i debiti a seconda della culture nazionali, in alcuni casi privati, in altri, pubblici. Sopratutto decresce la classe media occidentale e cresce quella del resto del mondo. Tutto ciò che cresce, in Occidente, lo fa in virtù di denaro inventato dal nulla che non chiude più il suo ciclo di esistenza e quindi non richiedendosi il corrispettivo valore reale presente che ne estingue a materializza la promessa, rimane magicamente sospeso nella realtà, partecipando di questa e per emanazione, diventa “come se fosse reale”. Ma non lo è.  
Decresce la distribuzione di ricchezza concentrandosi nella mani di pochissimi sempre più esageratamente ricchi il che è non è solo sconveniente per noi comuni mortali, ma è esiziale per il sistema stesso perché come sapevano gli antichi (vedi H. Ford, ma è ben descritto del IV° capitolo della Ricchezza delle nazioni che forse qualcuno farebbe meglio a leggere invece che citare senza cognizione), se i produttori  non hanno soldi per comprare i prodotti, l’intero sistema circolatorio salta poiché essi sono anche i consumatori.
In Occidente, tra le altre cose, decresce anche la popolazione o meglio è cresciuta a ritmi davvero miseri e solo per merito dell’Europa dell’est. Il progressivo invecchiamento delle popolazioni occidentali con decremento delle nascite (transizione demografica), oltre a sbilanciare i conti delle assistenze (sanitarie e sociali), intasa il ricambio generazionale nell’occupazione e quindi fa crescere la disoccupazione giovanile.
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La decrescita delle economie occidentali, significa anche la perdita di leadership, peso e controllo generale dei processi su scala mondiale il che retroagirà in maniera ulteriormente negativa sulle stesse condizioni della crescita. Il ruolo degli USA e degli occidentali in genere, del dollaro, del WTO, dell’Fmi, della World Bank sono destinati a relativizzarsi e/o a veder ridimensionato decisa-mente il controllo totale ed esclusivo che storicamente gli occidentali vi hanno esercitato. Da ciò la perdita di possibilità di beneficiare di vaste posizioni di rendita e di favore nello sviluppo delle strategie, fatti che nulla hanno  che fare con la reale competitività delle economie nazionali che si mostrerà sempre più per quella che è.
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Questo grafico WB vale per la registrazione di ciò che è avvenuto.
Le previsioni a 15-30 anni sono del tutto infondate poiché infondabili
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Quanto più basse sarebbero state le medie decennali degli ’80-’90-’10, senza l’anfetamina banco-finanziaria?

In economia, le teorie sulla crescita (Solow-Swan, Romer-Lucas, Galor) hanno sempre sfarfallato intorno al punto ed il punto era che la popolazione occidentale, dalla metà del XIX° secolo, era costantemente cresciuta a ritmi geometrici, ceteris paribus (come piace ai dotti di quella presunta scienza che è l’economics. Una moderata ma ben lucida accusa all’economics di essere una pseudoscienza, la si trova qui sul Scientific American), aumentando il numero di produttori-consumatori, certo che cresceva il prodotto lordo. L’innovazione è un concetto assai generico per fondarci sopra una spiegazione efficiente della crescita, l’elettricità fu una innovazione senz’altro motore di crescita, la stampante laser con cui stamparsi una automobile 3D standosene seduti a casa non porta a comprare più automobili ed oltretutto crea diversi disoccupati nella precedente catena distributiva. Internet, che è stata l’innovazione recente più rilevante, è un sistematico distruttore di occupazione (postini, mobilità, giornali, stampa in generale, industria dell’intrattenimento, diritti d’autore, socialità “fisica” sostituita da quella a distanza, servizi prima resi di persona in luoghi fisici ed oggi automatizzati, etc.) ed a differenza della transizione agricoltura-industria, la gran parte della recente innovazione tecnologica non sembra generarne significativamente di nuova, anzi (si vedano le tesi dell’economista R. J. Gordon, questo contributo di J.Stiglitz). Sono inoltre discutibili molti dei suoi impatti culturali, sociali, politici (si veda E. Morozov, qui) Il capitale umano entro un certo limite è un fattore che aumenta la produttività, oltre un certo limite non lo è più e comunque competenze ed istruzione ad un certo punto divergono dall’impiego produttivo e comunque non sono incrementabili all’infinito. 
Di fatto, se non si stampa denaro senza ritegno alcuno come ha continuato a fare Fed, come hanno ripreso a fare i giapponesi e come ormai ritiene anche Fmi, il paziente deperisce velocemente e muore. Anche perché, a corto di crescita reale, le economie pubbliche e private sono tutte ampiamente indebitate e per evitare i fallimenti non c’è che incrementare la liquidità. Ma se lo si fa, si deve anche capire che si produce un nuovo sistema che nulla ha a che fare con il sistema conosciuto e le cui fondamenta funzionali sono del tutto infondate nel senso che è socialmente inconsistente. Un tale sistema non più economico ma fondamentalmente finanziario, non è più in grado di reggere ed ordinare società complesse come sono le nostre.
Parrebbe quindi non ardito ipotizzare che non si tratta del fatto che il capitalismo è entrato in chissà quale fase assoluta, non è che i cattivoni sono diventati più cattivoni, non è che i capitalisti si sono fatti traviare da una ideologia forgiata a Chicago, non è che la finanza chissà per quale strano motivo ha deciso di svincolarsi dall’economia perché affamata di “sempre più profitti” come disegnano novelli G. Grosz, come se la finanza fosse nata per scopi sociali. Si tratta dell’occultamento consapevole di un dato concreto, prevedibile ed assai preciso e pervicacemente rimosso da tutti: l’Occidente non si trova né  mai più si troverà nelle condizioni storiche che ne hanno determinato l’incredibile crescita economica, negli ultimi duecento anni.
Anche le feste più belle finiscono e quelle lunghe duecento anni, sono anche assai rare. Se togliamo il dollaro metafisico e l’Oktoberfest della finanza degli ultimi quaranta anni, se togliamo la crescita dei Trenta gloriosi determinata dalla ricostruzione dell’immane distruzione bellica, se togliamo la lunga depressione, la breve euforia della Belle Époque strettamente allacciata ad un Primo conflitto mondiale, ad un Impero che copriva il 25% del globo terracqueo ed ad una costellazione di colonie con le quali l’Occidente dominava l’intero pianeta, ci si può domandare: cosa sarebbe stato il nostro celebrato modo economico, cosa avrebbe prodotto in termini di ordine sociale e qualità di vita al netto di queste variabili? La domanda serve perché se facciamo l’esperimento mentale di immaginare il nostro sistema economico senza queste “fortunate” e decisive circostanze, capiremo che questo sistema osannato dai suoi aedi, deprecato dai suoi critici, in realtà è finito. Esso è stato la semplice risultante di circostanze storico-culturali, geopolitiche, di beneficio dell’innovazione del materialismo per tutti (beni, merci, lavoro, reddito, status, aspettative, sogni, progetti etc.) che ha ampiamente esaurito le sue possibilità in Occidente. Anche perché stante il previo controllo quasi totale di tutto il pianeta,  aveva un certo qual senso produrre e comprarsi una automobile, forse anche un televisore, ma francamente di un drone personale non sappiamo veramente cosa farcene oltreché essere oggi nella penosa situazione di non riuscire più a sbarcare il lunario dei beni necessari.
Per non parlare delle materie prime, delle energie, del collasso eco-sistemico, degli squilibri del commercio internazionale che chissà perché, viene analizzato al netto degli equilibri geopolitici come se il mondo fosse fatto da imprese e non da nazioni.
Eccoci allora al punto avanzato nella nostra tesi: il sistema non funziona più e non funziona più da tanto tempo. Lo si è artatamente tenuto in qualche modo in piedi per prorogare la sua vigenza ordinativa poiché non abbiamo la più pallida idea di cosa altro fare. Le élite che si determinano tali dall’esistenza del sistema stesso hanno armeggiato per farci avere altri decenni di vacanza col morto, ma il morto ora comincia a puzzare.
Credo sbaglino coloro che parlano degli ultimi quaranta anni  come di una deliberata scelta di un capitalismo cattivo contro quello buono, keynesiano, con le élite limitate da una semi-democrazia funzionante. Tutto quanto accade oggi dilazionato e dilatato, negato, rallentato, occultato, mistificato, rimosso, sarebbe successo di colpo negli anni ’70-’80 se gli USA, detentori della regia sistemica economica, finanziaria, politica, militare e culturale, non avessero messo un tampone fatto di nuove leggi ed abrogazione delle vecchie, dollari a pioggia, narrazioni epiche sull’infinita dilatabilità del moderno, controllo dei sistemi internazionali ed una dozzina di guerre per mettere a posto quello che ostinatamente andava fuori registro. Se non facciamo una altra guerra mondiale, non possiamo avere altri trenta gloriosi, ogni salita viene dopo una discesa, ogni creazione necessita di una precedente distruzione. L’alternativa alla  decrescita, oggi, è la guerra.
La decrescita dei nostri volumi economici non è una scelta, una opzione razionale e di buon senso, un moto di sensibilità verso Madre Natura che dobbiamo preservare dalla perversa condizione S/M alla F. Bacon (La natura è una prostituta; noi dobbiamo domarla, penetrare i suoi segreti e incatenarla secondo i nostri desideri). I limiti ecologici e le loro paurose retroazioni sono un peggiorativo ma nel mentre annunciamo i disastri ambientali ad esempio, già da tempo si vanno compiendo quelli sociali perché è l’intero sistema, il nostro modo di stare al mondo, che non funziona e non può più funzionare. 
La de-crescita, la contrazione del lavoro, del consumo, della produzione, della ricchezza reale diffusa, della stabilità, della speranza in un futuro migliore di quello che hanno avuto i padri secondo i canoni del benessere materiale, è già in atto. La decrescita non è una alternativa perché non esiste più l’opzione crescita, non esistono più le condizioni per un continuato e diffuso sviluppo, né materiale, né immateriale. La decrescita nel senso della contrazione dei nostri volumi economici, non è una opzione alternativa è il nostro destino
L’alternativa, ovvero la scelta tra due opzioni, si pone solo tra il subirla mantenendo società ed economia nelle forme che richiedono una crescita ipotetica che non ci sarà e quindi subire la contrazione sistemica con tutto il doloroso portato di prolungato collasso sociale o trasformare radicalmente economia, società e loro reciproci rapporti, dandoci la possibilità di trovare un nuovo modo di stare al mondo. Questa è la nostra precisa condizione attuale e futura. Si tratta solo di riconoscerla ed adeguarsi in uno sforzo adattativo che dimentichi due secoli che sono ahinoi passati non solo cronologicamente,  ma anche concettualmente.
E’ ora di svegliarci dal lungo sonno dogmatico. E’ ora di rivolgerci con sano e deciso tono realistico ad economisti e politici, tanto mainstream, che critici e dir loro di piantarla di parlare del caro estinto, di allagare il mondo con cascate di ricette senza senso su meno stato, più mercato, meno o più controlli, moneta così o moneta cosà, risveglio industriale ed altri impossibili Viagra per propiziare una disperata, ennesima, erezione economica. Dovremmo cominciare a spegnere quell’idiota sorrisino di commiserazione con il quale i teologi del massimo sistema reagiscono alle istanze sul cambio repentino di mentalità economica, perché l’economia reale è già cambiata da tempo ed è la sua teologia ad essere rimasta inchiodata ad irrealistici dogmi metafisici fissati più di un secolo fa.
Non siamo noi a dover sostenere il picco di Hubbert o ai dimostrare il cambiamento climatico, non siamo noi a dover mostrare le foto satellitari sul restringimento dei ghiacci o a dover commuovere con le foto di terrorizzati orsi bianchi che si lasciano affogare. Dovremmo forse cambiare atteggiamento ed imporre nel dibattito l’urgenza realista di rispondere alla domanda: come ci si adatta ad una società che è già da tempo in vistosa e progressiva decrescita economica? Segnalando agli utilitaristi che anche il tempo utile per le risposte decresce vistosamente e che ai fallimenti adattativi, conseguono le estinzioni di massa.
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Segnalo questo articolo di M. Badiale che giustamente tenta di dar la sveglia al moribondo mondo del pensiero marxisteggiante. I marxisti sembrano essere ontologicamente accoppiati al capitalismo ed alla Rivoluzione industriale. Per loro il problema è solo il capitale, la stesso modello economico ma non guidato dal capitale, andrebbe benissimo. Siamo ancora al potere dei soviet più l’elettrificazione. La loro mentalità rimane nostalgicamente aggrappata ai fasti ottocenteschi e sono rimasti gli ultimi a reclamare “più lavoro”, “più industria”, “più produzione”, come se questa fosse ancora e per sempre possibile. Sebbene di un’altra chiesa, essi non differiscono poi di molto da i più canonici adoratori del culto del cargo.

Renzi, Draghi e l’Italia che affonda di Luigi Pando


Italia-che-affondaSpentisi gli effetti euforici della droga mediatica propinata a piene mani nel corso della campagna elettorale da poco conclusasi, le criticità della situazione economica italiana stanno venendo vigorosamente a galla, in tutta la loro drammaticità.
Gli ultimi giorni sono stati caratterizzati da una girandola di notizie sull’evoluzione del quadro macroeconomico nazionale e sulle misure che il vero dominus delle politiche economiche europee, la Bce, ha annunciato per bocca del suo presidente Mario Draghi. Cerchiamo di fare il punto, partendo dai fondamentali, ovvero dallo stato di salute del nostro Paese.
Come ha confermato recentemente l’Istat[1], il Pil italiano è diminuito nel 2013 dell’1,9%, ma non in modo omogeneo da un capo all’altro della penisola. Si va da un -0,6% nel Nord-Ovest ad un secco 4% nel Mezzogiorno. Italia sempre più duale, insomma. E l’occupazione? Le cifre sono ormai da capogiro. Nel primo trimestre del 2014 il tasso di disoccupazione ha toccato il 13,9% (+ 0,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), con quella giovanile al 46%. Al Sud siamo più vicini alla Grecia che al resto del paese: tasso generale al 21,7%, che sale fino al 60,9% tra i giovani.
E le previsioni per il futuro? Per quanto riguarda il Pil, stante l’arretramento dello 0,1% registrato nel primo trimestre di quest’anno e le tiepidissime stime per il secondo (tra lo 0,1% e lo 0,4%), c’è da giurare che le previsioni del Governo (+0,8%), già ammorbidite rispetto a quelle di Letta, difficilmente potranno essere confermate. Peraltro su questo punto si va da una previsione di crescita zero da parte dell’Istat ad un misero 0,5% pronosticato dall’Ocse.
Ora un po’ di attenzione. Fino a qualche mese fa in molti (Istat, Bankitalia, Ue, Ocse) avevano parlato per il 2014 – 2015 di crescita senza occupazione (Jobless recovery). Lascio a voi immaginare cosa potrà accadere, altrimenti, se la crescita prevista non ci sarà o sarà del tutto insignificante!
Intanto il Fiscal compact incombe, sia per l’obiettivo del pareggio strutturale che per quello dell’abbattimento delle eccedenze di debito sopra il 60%. Si è molto dibattuto negli ultimi tempi sull’entità delle manovre atte a conseguire nei tempi stabiliti questi risultati. Certo, sia nell’uno che nell’altro caso ciò che farà la differenza sarà il dato della crescita, ovvero del denominatore nel rapporto deficit/Pil e debito/Pil. Proprio per questo, nondimeno, con i numeri che ci ha restituito il primo trimestre 2014 e le previsioni che circolano per l’intero anno, c’è poco da stare allegri: nelle condizioni date lo spettro di manovre da 40-50 miliardi all’anno, con effetti recessivi annessi, diventerebbe immediatamente realtà.
Ma Renzi che fa? Di nuovo in questi giorni è tornato sul tema dell’austerità, criticandola, ma non ha spiegato come si possa uscire da quest’ultima senza mettere in discussione gli impegni sottoscritti con l’Europa in materia di finanza pubblica, peraltro tutti riconfermati nel Documento di Economia e Finanza approvato nell’aprile scorso. Nel concreto, però, ha concesso il bonus Irpef (gli 80 euro) ad una platea di circa 10 milioni di lavoratori dipendenti ed ha varato una nuova riforma del mercato del lavoro.
Bonus Irpef. Quale doveva (dovrebbe) essere l’obiettivo di questa misura? Rilanciare i consumi, quindi stimolare la domanda interna, aiutare la crescita. Quali sono le stime più realistiche su questo punto? L’Istat ha previsto un impatto insignificante dell’intervento sull’economia, fissando ad un misero +0,2% la crescita dei consumi per l’anno in corso. Un dato che non è molto lontano da quello stimato da associazioni di consumatori come Federconsumatori e Adusbef, che parlano di un +0,5% a fronte di un calo dei consumi nel biennio 2012-2013 di oltre l’8%, pari a 70 miliardi di euro.
Decreto Poletti. Parliamo di un provvedimento che si basa sul seguente assioma: ad un più livello di deregolamentazione del mercato del lavoro dovrebbero corrispondere livelli meno elevati di disoccupazione. In questa direzione vanno le misure che hanno allungato la vita dei contratti a termine “acausali”  e portato da uno a cinque il numero delle proroghe degli stessi. E’ singolare che dopo oltre vent’anni di interventi in questo campo, che hanno largamente precarizzato e flessibilizzato i rapporti di lavoro, senza che ciò abbia determinato un incremento sostanziale dei livelli occupazionali (semmai è vero il contrario), si continui ancora a battere questa strada. L’Italia, da questo punto di vista è stato uno dei paesi in Europa che più di altri ha “investito” sulla flessibilità per creare nuova occupazione, ma i risultati sono stati evidentemente asimmetrici rispetto agli obiettivi dichiarati[2].
Ricapitolando, appare del tutto evidente che le strategie messe finora in campo del nuovo governo per favorire la crescita e l’occupazione sono del tutto insufficienti, perfino inutili e dannose se ci riferiamo alla nuova disciplina dei contratti a termine.
Intanto a Francoforte, sede della Banca centrale europea, c’è chi annuncia misure straordinarie per rilanciare l’economia nell’eurozona. Vediamo di che si tratta. Stando ai titoli di alcune testate giornalistiche, le parole di Mario Draghi, pronunciate a margine del Consiglio direttivo della Bce del 5 giugno scorso, sarebbero traducibili in questo modo: meno tassi, più liquidità, ovvero riduzione ulteriore del costo del denaro e tassi di interesse sotto zero sui depositi che le banche tengono sui conti della Banca centrale europea[3] da un lato e iniezione di nuova liquidità nel sistema bancario sul modello delle operazioni di rifinanziamento Ltro del 2011-2012 dall’altro. La differenza, rispetto a quest’ultime, risiederebbe nel carattere “mirato” (Targeted) dei finanziamenti, di cui dovrebbero beneficiare essenzialmente famiglie e imprese (con esclusione dei mutui immobiliari). Per la prima misura, invece, l’idea è che le banche, qualora dovessero pagare anziché essere remunerate per i propri depositi presso la Bce, avrebbero oggettivamente interesse a far circolare la liquidità in loro possesso.
Non prendiamoci in giro. Ma davvero si può pensare che le banche, nelle condizioni date, possano allegramente dispensare prestiti ad imprese e famiglie solamente per non pagare l’obolo del mantenimento dei propri depositi presso la Bce? Il gioco non varrebbe la candela, stante l’elevato rischio di insolvenza dei beneficiari dei finanziamenti[4]. Allo stesso modo appare del tutto irrealistico che le banche aderiscano massicciamente al nuovo programma Ltro, con obbligo di esposizione verso il settore privato per l’intero ammontare del denaro ricevuto (Ecco perché il nuovo programma assumerà la denominazione di Tltro, ovvero Targeted longer-term refinancing operations). Meglio finanziarsi sul mercato, senza impegni di sorta ed a tassi ormai ragionevoli. O no?
Da Roma a Francoforte, passando per Bruxelles, insomma, si continua a sottovalutare l’entità della crisi in atto. E tutte le misure che si adottano non fuoriescono dal binario ideologico dell’”austerità espansiva”. In Italia, quelle che vengono presentate come misure “straordinarie” per la crescita e l’occupazione altro non sono che mezze-misure adottate in un quadro di assoluta compatibilità con i vincoli rigoristi di finanza pubblica oggi operanti o all’insegna della continuità con le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni ed oltre. Per quanto riguarda le misure  “non convenzionali” di Draghi siamo a metà strada tra la strategia dell’annuncio e la sostanziale fedeltà alla mission della Bce.
Urge perciò un cambio di passo. Senza immaginare rotture traumatiche dell’Unione economica e monetaria, tre interventi, nell’immediato, potrebbero dare respiro all’economia europea: un ambizioso programma di quantitative easing, un piano straordinario per il lavoro finanziato direttamente dell’Unione, la sospensione dei vincoli derivanti dal Patto di bilancio (Fiscal compact).
Dalle elezioni del 25 maggio è venuto un monito molto chiaro: la fiducia dei cittadini verso le istituzioni europee è ai minimi storici. Non coglierne la portata significherebbe condannare l’Europa all’implosione.[5]
 
[1] Istat, Rapporto annuale 2014. La situazione del Paese.
[2] A proposito del decreto Poletti. “Vi dimostro perché la precarietà non produce lavoro”, intervista con Riccardo Realfonzo, di Emilio Carnevali, Pagina 99,  15 maggio 2014.
[3] Le banche dell’Eurozona conservano il proprio denaro su speciali della BCE (deposit facility e sul current account). L’ammontare dei fondi a disposizione su questi conti è attualmente pari a 376 miliardi di euro (dati maggio 2014).
[4] Si veda anche: Draghi’s Measures Will Need Market Believers, di Simon Nixon, online.wsj, 5 giugno 2014.
[5] Il monito degli economisti, Financial Times, 23 settembre 2013.

“L’austerità flessibile di Renzi è risibile”

maxresdefaultRigore. Intervista all’economista che denuncia la «precarietà espansiva»: «L’accordo con Merkel la peggiorerà». «Basterebbe guardare i dati dell’Ocse e del Fondo monetario internazionale per capire che non basta una debole mediazione sui parametri europei». Sul referendum no Fiscal Compact: «Sentiero impervio, ma può accelerare le contraddizioni in un quadro europeo insostenibile»
Fles­si­bi­lità nel rigore. A que­sto risul­tato è giunto l’accordo tra Renzi e Mer­kel a Bru­xel­les. In realtà riguarda i soli cofi­na­zia­menti nazio­nali ai fondi Ue esclusi dal con­teg­gio del defi­cit e poco altro. Nulla del fiscal com­pact, né dell’austerità, sem­bra essere stato toc­cato. All’economista Emi­liano Bran­cac­cio chie­diamo se Renzi è riu­scito a tra­sfor­mare il bastone del rigore nella carota dell’austerità fles­si­bile.
«Renzi sta solo cer­cando di rin­viare le sca­denze e non si azzarda a toc­care le regole — risponde Bran­cac­cio — Durante la cam­pa­gna delle pri­ma­rie aveva più volte evo­cato la pos­si­bi­lità di cam­biare i trat­tati. Ora si limita a chie­dere un’austerità un po’ più “fles­si­bile”. In sostanza, la trat­ta­tiva verte su un mero rin­vio di un anno o due degli obiet­tivi di pareg­gio del bilan­cio. Che la richie­sta venga accolta è da veri­fi­care, visto che Com­mis­sione Ue ed Eco­fin risul­tano tutt’ora ostili. Ma anche ammesso che Renzi rie­sca a spun­tarla, otter­rebbe solo un mar­gine in più per il defi­cit di 0,2 punti per­cen­tuali. Una con­qui­sta risi­bile rispetto alla gra­vità della situazione».
Il pre­mier allora torna da Bru­xel­les con un suc­cesso o con un’illusione?
Nel corso di que­sti anni abbiamo regi­strato una pro­gres­siva diva­ri­ca­zione tra le nar­ra­zioni poli­ti­che e la realtà dei fatti. Lo dimo­strano gli errori siste­ma­tici com­messi dalla stessa Com­mis­sione Ue sulle pre­vi­sioni dell’andamento del Pil nell’Eurozona: nel caso dell’Italia sono stati anche supe­riori ai tre punti per­cen­tuali. La mia sen­sa­zione è che Renzi stia addi­rit­tura accen­tuando que­sto iato, anzi­ché dare un con­tri­buto per ren­dere le parole della poli­tica un po’ piu in linea con i pro­cessi reali.
La cre­scita è una spe­ranza fon­data per il 2014?
Per dare un’idea di quanto sia impro­ba­bile, basta notare che gli obiet­tivi di bilan­cio dell’esecutivo sono stati fis­sati sulla base di una cre­scita dello 0,8% nel 2014. Que­sta pre­vi­sione è già smen­tita dagli ultimi dati. Nel momento in cui ci ren­de­remo conto che l’andamento effet­tivo del Pil è peg­giore del pre­vi­sto, anche quel po’ di mar­gine sul defi­cit chie­sto da Renzi verrà bruciato.
A Bru­xel­les sem­bra essere pas­sata l’idea che l’ammorbidimento del rigore fiscale avverrà man mano che la Com­mis­sione Ue riscon­trerà il grado di avan­za­mento delle «riforme». Di quali riforme si tratta e quale modello sociale ed eco­no­mico disegnano?
In realtà non è nem­meno detto che que­sta idea sia pas­sata. Al momento c’è solo una gene­rica dichia­ra­zione di aper­tura da parte della Mer­kel. Ma nero su bianco abbiamo due docu­menti della Com­mis­sione Ue e dell’Ecofin che si muo­vono in dire­zione oppo­sta rispetto a quanto auspi­cato da Renzi. Per quanto il pre­mier chieda bri­ciole, la trat­ta­tiva per otte­nerle si annun­cia comun­que dif­fi­cile. In cam­bio, oltre­tutto, il governo farà riforme che rispon­dono a due tipo­lo­gie. La prima è rela­tiva all’assetto isti­tu­zio­nale: accre­sci­mento ulte­riore del potere dell’esecutivo in nome della decan­tata gover­na­bi­lità. È un pro­cesso che implica un’erosione ulte­riore dei mar­gini di eser­ci­zio della democrazia.
E la seconda riforma?
È una vec­chia cono­scenza: fles­si­bi­lità del mer­cato del lavoro. Dopo il fal­li­mento della dot­trina della “auste­rità espan­siva”, cioè della idea per cui l’austerità avrebbe garan­tito la ripresa eco­no­mica, ora si punta su altre dosi di pre­ca­riz­za­zione dei con­tratti di lavoro.
Nel «monito degli eco­no­mi­sti» pub­bli­cato sul Finan­cial Times nel 2013, pro­mosso con Ric­cardo Real­fonzo, annun­cia­vate che l’Europa sarebbe pas­sata dall’austerità espan­siva alla pre­ca­rietà espan­siva. Di cosa si tratta?
La pre­vi­sione è con­fer­mata. Ci dicono che la nuova onda di pre­ca­riz­za­zione del lavoro por­terà cre­scita dell’occupazione. Ma per capire dav­vero dove por­terà la riforma Poletti basta guar­dare i dati dell’Ocse e dell’Fmi: non vi è nes­suna con­ferma della tesi per cui più pre­ca­rietà deter­mina più occu­pa­zione. Se è vero che i con­tratti fles­si­bili indu­cono le imprese ad assu­mere un po’ di più nelle fasi di espan­sione eco­no­mica, è altret­tanto vero che que­sti con­tratti per­met­tono alle imprese di distrug­gere que­gli stessi posti di lavoro nella reces­sione. L’effetto netto di que­ste poli­ti­che è zero. Eppure il mini­stro Padoan, che viene dall’Ocse e cono­sce que­sti risul­tati, insi­ste con la fan­ta­sia secondo cui la pre­ca­riz­za­zione accre­sce l’occupazione. Siamo di nuovo in pre­senza di uno scarto tra nar­ra­zione e realtà.
Se la cre­scita non c’è che cosa acca­drà nei pros­simi mille giorni del governo?
Quello che si è già veri­fi­cato negli ultimi anni. Ancora una volta, rile­ve­remo una distanza tra obiet­tivi e risul­tati, sia dal punto di vista del defi­cit pub­blico che da quello della cre­scita eco­no­mica e dell’occupazione. L’auspicio di Renzi, secondo il quale si può agire nell’attuale qua­dro isti­tu­zio­nale euro­peo per uscire dalla crisi, andrà a sbat­tere con­tro il muro dei fatti.
Sem­bra ormai escluso un pro­cesso di riscrit­tura dei trat­tati euro­pei, come anche una revi­sione del ruolo della Bce. Quale sarà il futuro eco­no­mico e sociale dell’Europa meri­dio­nale nei pros­simi cin­que anni?
Que­sti paesi hanno perso negli ultimi sei anni di crisi oltre 6 milioni di posti di lavoro. In Ger­ma­nia c’è stato invece un aumento di 1,5 milioni di unità. Que­ste diva­ri­ca­zioni deli­neano un pro­cesso di «mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione» euro­pea, che ripro­duce su scala con­ti­nen­tale il tre­mendo dua­li­smo eco­no­mico che ha con­di­zio­nato i rap­porti tra Nord e Sud Ita­lia. In que­sto sce­na­rio pre­vedo nuovi suc­cessi per i movi­menti rea­zio­nari e xeno­fobi. Temo che i risul­tati delle ele­zioni euro­pee siano solo l’inizio di un lungo ciclo poli­tico, in cui ci tro­ve­remo nella tena­glia di due tipo­lo­gie di destre: una euro­pei­sta e tec­no­cra­tica nella quale si inse­ri­sce anche l’attuale com­pa­gine che sostiene il governo ita­liano; l’altra ultra­na­zio­na­li­sta e poten­zial­mente neo-fascista, come il Fronte nazio­nale in Fran­cia. Quello che più spa­venta è che il lavoro e le sue resi­due rap­pre­sen­tanze sem­brano para­liz­zate e silenti, in modo ana­logo a quanto già acca­duto nei momenti più cupi della sto­ria europea.
Il 3 luglio parte la rac­colta firme sul refe­ren­dum con­tro il Fiscal Com­pact. Cosa ne pensa?
Sul piano tecnico-giuridico l’iniziativa si muove lungo un sen­tiero imper­vio. Sul piano poli­tico, se venisse inter­pre­tata con la neces­sa­ria radi­ca­lità, potrebbe aiu­tare ad acce­le­rare le con­trad­di­zioni di un qua­dro euro­peo che in pro­spet­tiva resta insostenibile.

 di Roberto Ciccarelli – il manifesto

Altra Europa in Sardegna, lavorare sul campo – di Simona Lobina, Elisabetta Pala ed Enrico Lobina

Insieme a Simona Lobina ed Elisabetta Pala proponiamo un percorso per chi si riconosce nellla sinistra europea in Sardegna.

Altra Europa in Sardegna, alle elezioni europee, ha avuto un risultato soddisfacente. Il risultato di Cagliari, e di altri centri più piccoli, ha trascinato la lista oltre il 4% e contribuito al superamento dello sbarramento. Abbiamo eletto dei parlamentari europei, che apparterranno all’unico gruppo parlamentare che fa gli interessi del popolo e della povera gente.
Il Pd di Renzi ha avuto un grande risultato, ma le tasse locali (Ius, Tasi, Tari e tante altre), in realtà governative, hanno fatto dimenticare velocemente le elezioni. Le riforme del mercato del lavoro e quelle istituzionali faranno il resto.
La verità è che non basta Renzi per uscire dalla crisi. Bisogna modificare il sistema economico, sardo ed europeo. Solamente in questo modo potremmo dare lavoro ai giovani e ai disoccupati, ed una pensione dignitosa a chi oggi, dopo anni di lavoro, ha difficoltà a vivere decentemente.
Le larghe intese di Bruxelles e di Roma non sono un caso. Siamo alternativi al Pd ed al suo modo di fare politica.
Vogliamo costruire una alternativa di comportamenti, di atteggiamenti, di proposte, di pratiche. Vogliamo la costruzione diretta e politica di una nuova società ed una nuova cultura. Vogliamo aprire un processo diverso rispetto al passato, un processo che guardi alla maggioranza della società.
In Sardegna abbiamo assunto, in passato, posizioni diverse alle elezioni. Ci siamo presentati con tanti simboli ed in coalizioni diverse. Se c’è la volontà ed un reale sforzo, nonché un mutuo riconoscimento del ruolo che si svolge, possiamo ripartire insieme. Ed insieme decideremo come comportarci, col principio di favorire la massima partecipazione e che “uno vale uno”.
In Sardegna abbiamo potenzialità maggioritarie. Altra Europa, sovranisti, comunisti, indipendentisti ed una parte degli elettori cinque stelle hanno, a livello popolare, lo stesso modello di sviluppo in testa: alternativo a quello esistente, auto centrato, senza basi militari, attento alla persona e non al profitto indiscriminato.
Possiamo e dobbiamo coagulare questa maggioranza sociale, sino a farla diventare maggioranza elettorale e politica. Apriamo un processo, ed insieme decidiamo come portarlo avanti. Diamo discontinuità nelle modalità e nei contenuti. Diamo avvio ad un processo che sia innanzitutto culturale, capace di dare nuova linfa alle coscienze, di risvegliarle dal torpore cui troppo spesso l’insoddisfazione e la disillusione dello scenario politico attuale le costringe
Vogliamo un progetto autonomo, che intavoli un dialogo ed una trattativa con la sinistra europea, che passi per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei popoli e per la consapevolezza che bisogna avere testa e piedi in Sardegna.
Nessuna delle organizzazioni politiche ed associative che hanno lavorato ad Altra Europa ha l’obbligo sciogliersi. Sogniamo un’organizzazione di secondo livello, che includa quei soggetti e molti altri, che utilizzi i moderni mezzi comunicativi, che riconosca ed incoraggi il ricambio generazionale e forme di democrazia diretta, per innescare nuovi legami con un popolo stanco, povero, disilluso e solo. I dati sull’astensionismo ce lo indicano chiaramente. Onestà e fiducia reciproca sono i presupposti. No alla guerra, al liberismo, nuovo modello di sviluppo ed un’effettiva sovranità sono i pilastri politici.
Non possiamo lasciar passare il tempo, così che tutto torni come prima. Ci assumiamo la nostra responsabilità, altrimenti sarà l’ennesima occasione persa.

sabato 28 giugno 2014

La Cgil è “no fiscal compact”

Europa. Il sindacato si impegna sul referendum contro l’austerity. Parla il segretario Danilo Barbi
28eco1fo1merkel-europaC’è anche la Cgil tra i soste­ni­tori del refe­ren­dum sul Fiscal com­pact e l’equilibrio di bilan­cio, anche se il sin­da­cato gui­dato da Susanna Camusso non è entrato uffi­cial­mente nel comi­tato che orga­nizza la con­sul­ta­zione e la rac­colta firme. Ma ci sono tanti sin­da­ca­li­sti, che hanno ade­rito a titolo per­so­nale, e tra loro c’è Danilo Barbi: è segre­ta­rio con­fe­de­rale, parte quindi del pic­colo ese­cu­tivo di otto per­sone che mano­vra il timone di Corso d’Italia. Barbi spiega che «è prassi per la Cgil non impe­gnare l’intera orga­niz­za­zione su que­siti che non abbiano stret­ta­mente un argo­mento di lavoro. Ma que­sto non vuol dire – aggiunge subito dopo – che tanti di noi, quelli che ci cre­dono e lo sosten­gono, non lavo­re­ranno per la rac­colta delle firme. Un esem­pio parla per tutti: il refe­ren­dum sull’acqua, che ci vide molto attivi e partecipi».
Con­sul­ta­zione di grande suc­cesso, in effetti. Ma prima di chie­derci se il refe­ren­dum potrà riu­scire o meno, siete certi che l’obiettivo delle 500 mila firme entro il 30 set­tem­bre sia realizzabile?
In effetti non è mai acca­duto che si rac­co­glies­sero firme in luglio, ago­sto e set­tem­bre, mesi certo non facili. Però chiu­dere entro il 30 set­tem­bre era l’unico modo per poter far svol­gere il refe­ren­dum tra aprile e giu­gno 2015, altri­menti saremmo sci­vo­lati al 2016. Quindi sì: faremo ini­zia­tive, par­te­ci­pe­remo ai dibat­titi, soprat­tutto met­te­remo su stand e tavo­lini per la rac­colta. Sono pru­dente ma fidu­cioso. E d’altronde la pri­ma­vera 2015 è il momento migliore per far cadere la nostra consultazione.
Sì? Per quale motivo?
Per­ché quello che si sta deci­dendo in que­sti giorni a Bru­xel­les, e che ha visto coin­volti il nostro pre­mier Mat­teo Renzi, Angela Mer­kel, e gli altri governi, è sicu­ra­mente un primo modo di inter­ve­nire sui trat­tati euro­pei, ma le deci­sioni vere e pro­prie sul Patto di sta­bi­lità – cioè se solo inter­pre­tarlo esten­si­va­mente o se invece modi­fi­carlo – arri­ve­ranno solo a par­tire dal 2015: quando comin­ce­ranno a lavo­rare sul serio la nuova Com­mis­sione e il nuovo Par­la­mento euro­peo. Oggi siamo ancora alle nomine.
Ma quello che ha otte­nuto Renzi a Bru­xel­les non è già un primo passo? O vi sem­bra poco?
È insuf­fi­ciente. La sem­plice «auste­rità fles­si­bile» non va bene, ci vuole una vera poli­tica espan­siva. E un nuovo modello di svi­luppo. Non nego che si stia modi­fi­cando qual­cosa, certo, ma tutto in una logica pura­mente emen­da­tiva di una poli­tica che resta di auste­rità. A Mer­kel è riu­scito un vero mira­colo: lei ha creato l’«austerità espan­siva», poi ne ha gestito il fal­li­mento, e adesso lavora sulle modi­fi­che. E la sini­stra euro­pea, agendo appunto solo in un’ottica emen­da­tiva e mai alter­na­tiva, ha favo­rito la recita di due parti in com­me­dia, per la can­cel­liera e il Ppe.
Quindi per que­sto vi affi­date a un refe­ren­dum? Cioè pen­sate che Renzi e il Pd, nono­stante le pres­sioni, in Europa più di tanto non pos­sono fare?
Non è tanto que­sto, quanto piut­to­sto il fatto che vogliamo far entrare in campo il popolo. Mi spiego: le deci­sioni euro­pee le pren­dono in genere la Com­mis­sione e il Con­si­glio, con i par­la­menti messi spesso con le spalle al muro. Noi vogliamo for­zare que­sto mec­ca­ni­smo, far par­lare e deci­dere diret­ta­mente i cit­ta­dini. Riflet­tiamo su un ele­mento che mi pare cen­trale: sarebbe la prima volta che sulle poli­ti­che eco­no­mi­che euro­pee si esprime senza media­zioni uno dei popoli fon­da­tori e più impor­tanti dell’euro. Lo trovo già di per sé un fatto demo­cra­tico straordinario.
Ci sarà anche un effetto poli­tico, se si andasse al voto?
Cer­ta­mente, anche se è dif­fi­cile pre­ve­dere quale. Fac­cio l’esempio della Gre­cia: il governo avrebbe voluto far votare i cit­ta­dini sull’accordo preso con la troika, ma non si è mai fatto per­ché hanno pra­ti­ca­mente “dimis­sio­nato” Papan­dreu, mutando l’intero qua­dro poli­tico greco.
Quindi su cosa si chie­dono le firme, e poi in caso il voto?
Due que­siti par­lano del rece­pi­mento del Fiscal com­pact, che come sap­piamo chiede un vero e pro­prio sve­na­mento all’Italia per rien­trare dal debito. Altri due que­siti riguar­dano l’«obiettivo di medio ter­mine», che fu con­cor­dato da Monti con la Com­mis­sione e di cui non si parla tanto in Ita­lia: invece è un tar­get ancora più strin­gente e depres­sivo per­fino del Fiscal com­pact. Nono­stante noi abbiamo un avanzo pri­ma­rio molto alto – 90 miliardi ante inte­ressi – si pre­tende che lo aumen­tiamo in modo secco di altri 10. Vogliamo abro­gare quat­tro parti della 243 del 2012, legge dura e reces­siva che ha rece­pito l’obiettivo di «equi­li­brio di bilan­cio» inse­rito nella Costituzione.
ANTONIO SCIOTTO
da il manifesto