mercoledì 30 dicembre 2015

L’Italia fermata dallo smog


download (1)Il mese di dicembre era servito a Matteo Renzi per rincorrere ogni inaugurazione. E ogni volta, dalla variante autostradale appenninica ai restauri di Pompei, il messaggio era sempre lo stesso: l’Italia è ripartita e corriamo più degli altri paesi europei. Non ha finito di pronunciare quelle frasi che – caso esemplare di autogufaggio — le città italiane si sono fermate. A causa dell’aria avvelenata il traffico automobilistico privato è bloccato da Milano a Napoli e molte importanti città della pianura padana fermano il loro cuore produttivo.
Insomma, nel momento del massimo sforzo, il castello di carte retorico è crollato sotto il peso della realtà vera: il paese è fermo perché il governo non ha una politica lungimirante per il sistema urbano.
L’avvio dell’offensiva propagandistica renziana era iniziato proprio con la cerimonia di chiusura dell’Expo milanese. Fiumi di retorica per convincerci che la capitale economica del paese era stata trasformata dal grande evento e che si trattava soltanto di cogliere i frutti del lavoro svolto. Quattordici miliardi di euro gettati al vento senza aver programmato nessuna innovazione nel sistema dei trasporti pubblici di Milano. Cento ettari di territorio agricolo coperti di cemento e asfalto ad alterare ulteriormente il bilancio ambientale della città. Questa essenza di una visione lungimirante dello stato delle città è la causa vera del blocco di Milano.
Lo stato delle città italiane era ben noto al primo ministro. Negli ultimi mesi in cui era sindaco di Firenze, per far cassa e non sforare i vincoli di indebitamento, aveva venduto –attraverso la fidata Cassa Depositi e Prestiti– il Teatro comunale. Renzi sapeva dunque perfettamente che la causa della crisi delle città stava nella politica dei tagli di bilancio imposti dalle politiche europee. Tutti i suoi atti da premier non hanno minimamente scalfito questo stato di fatto ed anche l’ultima legge di bilancio tra tante inutili mance ha dimenticato di sostenere le città. Non bastassero le mance, nell’ultimo provvedimento è stata anche ripristinata la possibilità per tutti i comuni di pagare la spesa corrente attraverso gli oneri di urbanizzazione: una mostruosità che era stata cancellata persino dal governo Monti. Renzi ha cambiato verso ripristinando il dominio della speculazione immobiliare.
Ecco perché non regge la linea difensiva della siccità eccezionale e delle avverse condizioni metereologiche. Sono anni che proprio per attenuare gli effetti del cambiamento climatico, la comunità degli specialisti e molti economisti chiedono di porre in essere una politica organica per le città. Per realizzare quei sistemi non inquinanti e innovativi di trasporto urbano che vengono invece realizzati in ogni parte d’Europa. Per finanziare la coibentazione degli edifici nati nel periodo del grande boom edilizio quando si costruiva senza alcuna considerazione della variabile energetica e del conseguente inquinamento. Con queste politiche si potrebbero creare centinaia di migliaia di posti di lavoro e favorire la nascita di aziende specializzate nell’innovazione di prodotto. Renzi ha invece preferito sperperare ingenti risorse pubbliche per finanziare le modestissime assunzioni del job act.
Un ultima osservazione riguarda anche il silenzio degli economisti liberisti di fronte al tracollo delle città italiane. Quando fa loro comodo ci inondano di calcoli del crollo del Pil a causa di rivendicazioni sociali. I casi più recenti riguardano la temporanea chiusura a manifestazioni sindacali annunciate per tempo del Colosseo o di Pompei. Il Pil crollava per la cecità dei lavoratori. Ora che le città sono crollate a causa delle loro insensate scelte neppure un gemito o un calcolo approssimato di quanto costa al sistema Italia non aver puntato nella riqualificazione ambientale delle città. Del resto, proprio quegli stessi teorici del pareggio di bilancio hanno imposto politiche tariffaria delle aziende di trasporto pubblico insostenibili. Oggi, a disastro avvenuto, le città corrono ai ripari offrendo pacchetti tariffari socialmente convenienti. Insieme alla inesistente ripartenza dell’Italia renziana siamo ancora prigionieri di questi ragionieri del declino.
Paolo Berdini - il manifesto

Un sindacalista rivoluzionario in musica di Alessandro Portelli, Il Manifesto

Un sindacalista rivoluzionario in musica

I nostri anniversari sono opposti rispetto a quelli del capitali. E i nostri caduti non li dimentichiamo.
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Cent'anni fa, i tribunali di Salt Lake City e lo stato uccisero Joe Hill, militante degli Industrial Workers of the World. Una rivolta la sua ritmata dalle canzoni

Era la fine del 1915, cent’anni fa. A Salt Lake City, Utah, i tribunali e lo stato uccisero Joe Hill, militante e bardo del sindacato rivoluzionario degli Industrial Workers of the World (Iww). Dal carcere, aveva scritto: «So che molti ribelli importanti dicono che la satira e la canzone sono fuori luogo in un’organizzazione di lavoratori, e ammetto che le canzoni non sono indispensabili alla causa; ma ogni volta che mi viene, continuerò a scrivere queste mie sciocchezze cantate, anche se so bene che la lotta di classe è una cosa seria».
Alle radici di Dylan
Scrive Tom Morello, musicista ribelle di oggi: «Senza Joe Hill, non ci sarebbero Woody Guthrie, Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Clash, i Public Enemy, Minor Threat, System of a Down, Rage against the Machine». Joe Hill spiegava: «Un opuscolo, per buono che sia, lo leggi una volta e basta, ma una canzone la impari a memoria e la canti e la canti; se prendi un po’ di nudi fatti e di senso comune, li rivesti con un po’ di umorismo per renderli meno aridi, e li metti in una canzone puoi raggiungere tanti lavoratori troppo poco istruiti o troppo indifferenti per leggere un opuscolo o un editoriale».
La base degli Iww erano lavoratori migranti e stagionali, e niente è più leggero, resistente e trasportabile di una canzone; come poi il movimento dei diritti civili, gli IWW saranno un singing movement , i cui militanti girano l’America portandosi in tasca due cose: la tessera che li fa riconoscere come compagni dovunque vanno, e il canzoniere rosso, The little red songbook, il cui fine dichiarato era di «fan the flames», alimentare le fiamme della rivolta.
Il sangue dell’agnello
Joe Hill era un genio della parodia. Prendeva canzonette di successo, canti popolari, brani gospel, e rovesciava il senso mantenendo il suono. Prende una canzone popolare, la storia dell’eroico ferroviere Casey Jones, e lo trasforma in Casey Jones il crumiro, che si ammazza per far correre i treni durante uno sciopero, arriva in paradiso dove gli angeli sono in lotta, fa il crumiro anche lì e finisce a spalare zolfo all’inferno. Dalle canzoni di chiesa riprende la capacità di creare comunità, di cantare e improvvisare tutti insieme, e le trasforma in inni all’unità operaia. «There is power in the blood of the lamb», c’è potere nel sangue dell’Agnello, diventa «there is power in a band of working man», c’è potere in una schiera di lavoratori, quando sono uniti, mano nella mano.
A forza di sentire le bande dell’Esercito della Salvezza annunciare la beatitudine futura nella dolcezza del cielo («in the sweet bye and bye»), si inventa una frase diventata familiare anche da noi: «mangia e prega, campa di niente, e avrai latorta in cielo (pie in the sky). Senza Joe Hill, anche un po’ di Gianni Rodari (La torta in cielo, 1966) non ci sarebbe.
Scrive Tom Morello: «Joe Hill non si limitava a scrivere canzoni contro l’ingiustizia. Era in prima linea, a rischio della vita, per creare un mondo migliore e più giusto. Per questo il potere aveva paura di lui. Per questo l’hanno ucciso». Le sue canzoni hanno avuto un impatto così straordinario e duraturo perché nascono da dentro il proletariato ribelle, intrise del linguaggio che Joe Hill, immigrato proletario, aveva assorbito sui moli del porto di San Diego, fra i boscaioli dell’Oregon, nelle miniere di rame, nei saloon della Bowery, in tutti i posti dove aveva lavorato e lottato.
Joe Hill rimane un’icona della sinistra (c’è anche un film di Bo Widerberg, Joe Hill, 1971. Peccato che nella versione italiana le canzoni siano cantate in pedestri traduzioni italiane) sia per le sue canzoni, sia per l’ ingiustizia simbolica della sua morte.
Tra le pagine e su schermo
L’accusa di omicidio per rapina fu sostenuta solo da vaghi indizi; i testimoni cambiarono versione in vista del processo; gli atti del processo scomparvero dagli archivi; il governo dello Utah rifiutò di ascoltare le proteste di tutto il mondo e il messaggio del presidente Wilson che chiedeva una revisione del processo. Ogni somiglianza con la storia di Sacco e Vanzetti è storicamente fondata.
Nel 1938, Alfred Hayes ed Earl Robinson lo ricordavano in una canzone subito resa classica dall’interpretazione di Paul Robeson: «Ho sognato di vedere Joe Hill stanotte, vivo come e te. Gli dissi, ma Joe, sei morto da anni; e lui: non sono morto mai. Dovunque i lavoratori sono in sciopero, in ogni fabbrica e miniera, dove i lavoratori lottano per i loro diritti, è lì che troverai Joe Hill».
C’è traccia di questa canzone nel discorso di Tom Joad in Furore di Steinbeck (e nel film John Ford): «Dove si lotta per dar da mangiare a chi fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì…». Dal romanzo e dal film, queste parole arrivano a Woody Guthrie e poi a Bruce Springsteen: «Dove c’è un poliziotto che picchia qualcuno, dove c’è una lotta contro il sangue e l’odio nell’aria, cercami e sarò lì…».
Muschio e vento
«Il mio testamento — scrisse Joe Hill il giorno prima dell’esecuzione — è facile da fare: non c’è niente da spartirsi, perché il muschio non si attacca a una pietra che rotola ( già: a rolling stone). Se potessi decidere, vorrei che il mio corpo fosse fatto cenere e la cenere sparsa al vento, che la porterà dove crescono i fiori, e forse aiuterà un fiore appassito a rinascere».
Al suo funerale, marciarono in trentamila. Ma forse avevano ragione Hayes e Robinson: Joe Hill non è morto, il suo fantasma è qui insieme a quello di Tom Joad. Chissà che ricordarlo e cantarlo non aiuti a far rifiorire quel movimento operaio per cui è vissuto ed è stato ucciso cento anni fa.

Una riforma costituzionale piduista di Dante Barontini, Contropiano.org

Una riforma costituzionale piduista
I discorsi di fine anno contano poco, in genere. Si fanno perché sono obbligatori, sono vaghi quanto basta perché vengano dimenticati presto, non incidono né sui sondaggi né sull'umore dei futuri elettori.
L'unica eccezione del soliloquio renziano di ieri riguarda la data e il tema “spartiacque” della sua avventura politica. Che non sono ovviamente le amministrative di primavera, ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza” (tra virgolette non perché non sia stato vero, ma perché troppe volte questa formula ha fatto velo a pratiche di segno opposto, concertativo, antipopolare).
Tutto il resto era fuffa scontata, a partire dalle “realizzazioni” compiute dal suo governo (sembrava di sentire gli slogan berlusconiani con un bel “fatto!” alla fine di ogni frase), e dall'esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio, sarebbe stato difficile fare peggio).
Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall'abolizione dell'art. 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al capriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali. Inutile anche insistere sulla nauseante vicenda delle quattro banche “salvate” sacrificando i correntisti più ingenui, truffati allo sportello con l'offerta di obbligazioni-carta-straccia. Per chi vuole farsi sommergere dal gossip da basso impero non ha che da seguire le centinaia di fonti – giornalistiche e non – che si affannano a ricostruire rapporti economici quanto meno oscuri tra le famiglie Renzi e Boschi, con in più quel Rosi ultimo presidente di Banca Etruria.
Ma Renzi era stato scelto - “lo abbiamo messo lì noi”, rivendicò allegramente Sergio Marchionne quasi agli inizi – per distruggere definitivamente il patto costituzionale del dopoguerra, già duramente sfibrato dal ventennio berlusconiano e dalla lenta scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica “di sinistra” (la cui azione, insomma, fosse coerente con le parole).
E quindi ha perfettamente senso che leghi al referendum d'autunno il suo destino politico (anche se non giureremmo sulle sue effettive dimissioni in caso di sconfitta).
Ma non c'è solo la nefasta grandezza del legare il proprio nome a una svolta reazionaria di portata storica, che manda in soffitta il “patto tra i produttori” (con tutti i compromessi del dopoguerra) e disegna una Terza Repubblica piduista e repubblichina (in combinazione con l'Italicum), in cui soltanto i ceti dominanti possono disporre di rappresentanza e accedere ai palazzi del potere (o quel che ne è rimasto, dopo i molti trasferimenti di sovranità all'Unione Europea).
C'è anche la certezza di una catastrofe del Pd alle elezioni amministrative di primavera. Soprattutto in quelle città dove, per motivi diversi, il partito del premier è quasi scomparso dalla scena politica: Roma e Napoli. Due città opposte, con la prima che ha visto il Pd gestire l'amministrazione all'interno del sistema chiamato Mafia Capitale, e la seconda che lo aveva espulso già quattro anni fa, scegliendo De Magistris anziché uno dei tanti maneggioni del circo barnum “democratico”.
Il rottamatore quindi lascia che siano i suoi uomini a gestire e perdere la partita di primavera, svalutandone il significato politico generale già cinque mesi prima delle elezioni. E cerchia in rosso la data del referendum per stabilire se la reazione – con lui al balcone – avrà davvero vinto o no.
Sarà una partita complicata, certamente, perché la retorica del “nuovo” (le riforme, i giovani ministri sempre sorridenti, le facce ignote – più che nuove – che ammoniscono il popolo ogni giorno dallo schermo, ecc) ha in genere facile gioco contro tutto quel che – per le ragioni più diverse, dalle nobili alle ignobili – viene comunque racchiuso sotto l'etichetta del “vecchio”.
Se non si vuol essere solo spettatori passivi e rancorosi bisognerebbe saper rovesciare questi termini – nel rapporto concreto con il blocco sociale “de-costituzionalizzato” - perché non c'è nulla di più “vecchio” di una società in cui chi non possiede un'impresa non ha nemmeno diritto di parola. Non c'è nulla di più “preistorico” di un rapporto di lavoro in cui il “prestatore d'opera” deve essere sempre flessibile e muto, “liquido” e sostituibile in ogni istante.
È il mondo disegnato dal capitale multinazionale e dall'Unione Europea, cui Renzi presta temporaneamente la faccia e le battutine. Contro questo mondo la mobilitazione politica parte ora. Ci vediamo in piazza il 16 gennaio.

I numeri non sono un’opinione di Alfonso Gianni, Il Manifesto

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Com’era prevedibile Matteo Renzi si è affidato alla guerra dei decimali per cercare di dimostrare che in Italia spira aria di ripresa. Ma si tratta di uno striminzito 0,8% in più, persino meno di quanto era nelle previsioni del ministro dell’Economia.
D’altro canto l’Istat aveva già segnalato ai primi di dicembre che la tendenza è quella al rallentamento dell’economia italiana. Quindi c’è da dubitare sul raggiungimento degli obiettivi già modesti di fine 2016. Sarà per recuperare credibilità dopo gli scandali bancari tuttora in pieno svolgimento, sarà perché ormai è evidente anche ai ciechi, nella conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio ha mostrato una certa aggressività verbale verso le politiche europee.
«Di sola austerità il Continente muore» ha affermato, mentre l’Italia avrebbe puntato più sullo sviluppo, solo che le autorità europee non vogliono riconoscerle la flessibilità desiderata sui conti.
Quando gli fa comodo Renzi è pronto a giocare la carta dell’europeista incompreso. Ma è una coperta troppo corta. Sia perché fin dal suo sorgere la renzeconomics si è dimostrata una semplice articolazione delle politiche europee; sia perché l’attuale performance del nostro paese è nettamente inferiore a quella media dell’Eurozona; soprattutto perché l’irresponsabilità di fronte alla gravità della situazione è totale. Tecnicamente la recessione finisce nel primo semestre del 2015, tuttavia la vantata ripresa è non solo lenta, ma inadeguata a colmare l’abisso che abbiamo alle spalle. Alla fine del 2014 gli investimenti erano del 35% più bassi che nel 2007. Altro che sviluppo italiano. Nel solo periodo 2012–2014 il Pil si è ridotto del 5%, più o meno come nel lontano 1929!
Certo, la crisi italiana viene da più lontano. Tra il 1995 e il 2007 la nostra crescita media annua è stata del 1,6% contro il 2,4 della media dell’Eurozona. Nello stesso periodo abbiamo accumulato uno svantaggio di 19,3 punti di Pil rispetto a quest’ultima. Anche quando l’occupazione è cresciuta è avvenuto in misura inferiore che negli altri paesi europei. E i salari? Tra il 1990 e il 2014 il salario medio di un dipendente privato italiano ha perso tre punti percentuali al netto dell’inflazione, mentre nella media dell’Eurozona è cresciuto del 15%. Proprio quest’ultimo dato spiega la bassissima crescita di produttività italiana messa al confronto con quella nella Ue. Infatti sono gli aumenti salariali che trascinano in alto la produttività e non il contrario, come invece si vorrebbe condizionando gli aumenti dei primi all’innalzamento della seconda. Solo la frusta salariale – ce lo ricordano i più attenti economisti — spinge anche il più pigro imprenditore all’innovazione, fattore decisivo per lo sviluppo della produttività di sistema.
 
Renzi sembra non avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Anzi spara cifre, come l’aumento di 300mila posti di lavoro, a seguito del Job Act, peraltro nello stesso giorno in cui l’organo della Confindustria ne stima 200mila. In ogni caso nella attuale lunga crisi abbiamo perso un milione di posti di lavoro. Se guardiamo al tasso di occupazione dovremmo crearne almeno 7 milioni per metterci al passo. In realtà da quando è stata introdotta la decontribuzione, cioè dal 1° gennaio i posti di lavoro, secondo Il Sole24Ore, sono cresciuti di 185mila unità fino al settembre 2015. Se si confronta il periodo analogo del 2014, in assenza degli attuali incentivi, risultano solo 26mila posti in più, pagati a carissimo prezzo.
L’Istat ci dice che le assunzioni a termine hanno avuto una impennata proprio dopo l’entrata in vigore del cosiddetto contratto a tutele crescenti del Job Act, raggiungendo il loro massimo storico nel terzo trimestre del 2015: 2 milioni e 560mila. Benché sia stato cancellato l’Articolo 18 i padroni non si fidano. A fronte delle incertezze della crisi economica, preferiscono il classico contratto a termine. Tanto più che grazie al precedente decreto del ministro Poletti possono stipularlo del tutto arbitrariamente, senza alcuna motivazione o causale. Si ripete in sostanza quando già avvenne con la cosiddetta legge Biagi. Tra tutte le nuove forme di contratto precario previste – più di 40 — la preferita restava sempre quella del semplice contratto a termine.
D’altro canto la fidelizzazione del dipendente non è necessaria quando la produttività è bassa, la qualità del lavoro scarsa, i settori in cui si assume sono quelli meno innovativi. E viceversa.
Questo dovrebbe suggerire a chi, dopo le recenti decisioni del direttivo Cgil e la prevista consultazione dei lavoratori, dovrà formulare i quesiti per un referendum abrogativo in materia di lavoro, di non dimenticare il decreto Poletti. Non avrebbe senso ed efficacia cancellare le norme più odiose del Job Act e lasciare in piedi un contratto a termine a totale discrezionalità padronale.

martedì 29 dicembre 2015

Non si costruisce il futuro cancellando le identità di Eleonora Forenza


Non si costruisce il futuro cancellando le identità
Sarebbe bastata una rimozione meno eclatante di qualche decennio di pensiero femminista sulla necessità di svelare le mistificazioni del neutro, di nominare le differenze, di mettere al centro i corpi sessuati e parlare a partire da sé e dalla propria parzialità, per sconsigliare «ai ragazzi» di autoproclamare un appello non firmato come una «proposta credibile» per «la sinistra di tutti». Un testo «non proprietario» il cui lancio pubblicitario è avvenuto però alla stessa ora, con messaggi sponsorizzati (non aprirò questioni di stile: sono old-fashioned), sulle pagine Facebook di autorevoli (e meno autorevoli) dirigenti di Act e Sinistra Italiana.
Per la verità, sarebbe bastata anche un vaga reminiscenza delle pagine del barbuto di Treviri sulla falsa neutralità del citoyen (quella vecchia storia della società divisa in classi) per evitare quel «di tutti», che suona, nel suo furore interclassista, così subalterno al cittadinismo grillino, all’ «uno vale uno», ll’incontriamoci e decidiamo in rete che prospettiva abbiamo sull’Europa, se poi andiamo coi Verdi o con Farage.
E, ancora più semplicemente, sarebbe bastata la lettura di qualche opuscolo sull’altro consumo, su etichettatura e tracciabilità, per evitare di pensare che qualcuno compri un prodotto di cui non si dice l’origine solo perché è pubblicizzato all’ora giusta (il giorno dopo le elezioni spagnole) e messo in una confezione accattivante.
Provando a dare un nome alle cose (ve li ricordate, il nome e la cosa?), Sel, che già dalla scorsa estate discute del proprio autoscioglimento e ha investito persone e risorse sul progetto di una piattaforma digitale («non proprietaria», ma di fatto volutamente tenuta fuori dalla discussione comune del “tavolo” unitario, dopo un seminario a Cecina dello scorso settembre), ha deciso con il movimento di Fassina di fondare un nuovo partito, che ha già un gruppo parlamentare, Sinistra Italiana. Per brevità (solo per brevità) chiameremo questa cosa Piattaforma Digitale della Sinistra, Pds 2.0. I Pds 2.0 concordano, quindi, di sostenere un testo di Act che parla di partecipazione. Concordano la data. Sulla città e la sala faranno sapere. Insomma, venite. Casa nostra, il Pds 2.0, è aperto. Speriamo non pensino ad aprire anche il televoto per risolvere la competizione sul leder tra i giovani maschi in campo.
Ma il Pds 2.0 è il contrario di una sinistra di tutti anche perché volutamente non unitario. Nasce sulla rimozione del documento sottoscritto da tutti (compresi gli anonimi estensori dell’appello) Noi ci siamo, che, pur coi suoi limiti (a partire dal suo carattere monosessuato), convocava un appuntamento unitario a metà gennaio. Su questo appello aveva lavorato molto l’Altra Europa, proprio nella direzione unitaria. Evidentemente però, dopo la fondazione di Sinistra Italiana il terreno unitario è diventato un inciampo alla fondazione di un nuovo partito (basti vedere le recenti dichiarazioni di Vendola a Repubblica).
Si dirà, ma è un appuntamento (al buio) aperto: aperto a chi è alternativo al Pd e a chi vuole sostenere Sala (come dice una giovane assessora milanese di Sel), a chi vuole stare nel Gue e a chi non vuole uscire dai Socialisti, a chi ha votato il pareggio di bilancio in Costituzione e a chi si accinge alla campagna referendaria.
Su tutte queste quisquiglie, come la prospettiva europea e l’alternatività al Pd, sarebbe stato evidentemente retrò avanzare una proposta da sottoporre alla discussione.
C’è solo una condizione già decisa e sottratta alla discussione di tutti (e che disvela carattere fintamente non proprietario dell’appello): bisogna essere disponibili allo scioglimento. Tradotto: per costruire la sinistra vanno bene tutti, tranne quelli che non si convincono che il comunismo sia solo una tendenza culturale, un fatto privato, un elemento di nostalgia. Quelle e quelli sono palle al piede che minano la qualità del processo, anche se da anni propongono una sinistra unitaria e basata sul principio una testa un voto (dunque, «non un cartello, né una federazione»).
Ora, «i ragazzi» a cui Cofferati vuole passare il testimone (verrebbe spontaneo chiamarli Coffy boys, ma è doveroso non farlo) sostengono virilmente che i processi politici «si aprono a spinta». Anche a spinta fuori di qualcuno. Che dire? No grazie.
Questo è un gioco che non mi piace, preferisco la sottrazione.
La storia della sinistra italiana è già stata avvelenata abbastanza (mescolo tragedie e farse degli ultimi trent’anni) dall’idea che per costruire la sinistra le comuniste e i comunisti dovessero rinunciare a un proprio nome e cognome. Così come la retorica generazionale del passaggio del testimone e della “discontinuità” ha già prodotto dirigenti che poi hanno confuso i social forum e la Leopolda.
Personalmente continuerò a battermi da compagna, femminista e comunista, affinché anche in Italia ci sia una forza politica che cambi i rapporti di forza, affinché la costruzione di una sinistra unita sia in primo luogo un lavoro socialmente utile: una sinistra europea, interna al Gue, alternativa al Socialismo europeo e al Pd; una casa comune della sinistra e tante agorà in cui si riavvii un processo di politicizzazione di massa e una ripresa del conflitto sociale (grandi assenti del contesto italiano); una sinistra che riconosca e connetta la molteplicità delle forme del fare politica, del fare società, del fare cultura oggi; che costruisca pratiche mutualistiche e forme di autogoverno. Non sono abituata ad arrendermi, né a nascondermi. A lottare, sì.
* parlamentare europea Altra Europa, segreteria nazionale PRC-SE
 Fonte: il manifesto

Lo stile di Rifondazione di Francesco Saccomanno


Lo stile di Rifondazione
Segnaliamo un commento del compagno Saccomanno a un articolo   (vedi fondo pagina) sulla consultazione degli iscritti che abbiamo svolto nel corso del mese di dicembre. Si tratta di un commento scritto di getto sul sito del Manifesto non di un articolo ma ci sembra che renda giustizia al lavoro militante di tante compagne e compagni di Rifondazione Comunista.
 
Sono immeritatamente segretario della Federazione di Cosenza del Prc e vorrei fornire alla Preziosi alcuni elementi che, considerato il tono complessivo dell’articolo velatamente (scusatemi per l’eufemismo) irridente, potrebbero ritornarle utili per comprendere meglio le terribili ed arcaiche dinamiche di Rifondazione. Il sottoscritto, iscritto al Prc dopo Genova e proveniente da esperienze di movimento, in cui continua comunque a stare, proprio durante le consultazioni “molto old style” ha partecipato alla apertura di un nuovo circolo di Rifondazione nel comune di Trebisacce (Cs), con un nucleo di compagni iper-nostalgici che da tempo lavorano materialmente addirittura alla costruzione della Sinistra dal basso, curando con altri volontari un centro di supporto linguistico e di doposcuola popolare per i fratelli migranti adulti e giovani e per i ragazzi del posto in difficoltà (con il documento del Cpn votato da tutti i novelli bolscevichi!). Inoltre, proprio durante le consultazioni “molto old style”, nel comune di Rogliano (Cs), in un circolo ricostituito da 14 compagni giovani (si, incredibilmente oltre che in Act ci sono pure i giovani nel Prc!) e 4 cosacchi meno giovani, abbiamo fatto il punto sulla raccolta dei libri per avviare in questi giorni una biblioteca popolare (tutti favorevoli al documento tranne un compagno astenuto non su posizioni mensceviche!). Per giunta, proprio durante le consultazioni “molto old style”, nell’incontro dei circoli del Tirreno cosentino (tutti favorevoli al documento, votazione bulgara!) abbiamo anche fatto il punto sulla nostra partecipazione alla manifestazione antifascista che il Prc, insieme all’Anpi ed ai movimenti della rete antirazzista ed antifascista calabrese, ha indetto per impedire la partecipazione del delinquente stragista Roberto Fiore all’inaugurazione di un circolo di Forza Nuova a Verbicaro (Cs). Per di più, proprio durante le consultazioni sempre “molto old style”, nell’incontro del circolo di Colosimi (Cs) abbiamo fatto il punto sull’azione che stiamo conducendo con il consigliere comunale de “L’Altra Colosimi” per impedire la svendita di un terreno pubblico voluto da una Giunta del Pd e per proporre un progetto alternativo di utilizzo di quel bene comune (qui tutti favorevoli al documento ed un comp. contrario che, chiaramente, manderemo in un campo di rieducazione che abbiamo attrezzato in Sila!). Mi chiedo e chiedo alla Preziosi ed ai compagni de “il Manifesto – quotidiano comunista”: attraverso il telefono o la rete si potrebbero fare queste cose? E poi: perché è così disdicevole cercare di lavorare per unire ciò che il liberismo divide, per cui di fronte alle dilaganti solitudini si rimettono in piedi dei luoghi fisici di discussione e di confronto, in cui si avviano pratiche di socialità e di solidarietà e ci si organizza per ricostruire la Sinistra anche dal basso ed al contempo per dare forza a quel movimento quanto mai necessario per abolire “lo stato di cose presente”?
 
Sì all’unità, anche se l’unità non c’è
Il Prc consulta gli iscritti, tutti (o quasi) contro lo scioglimento e per il nuovo soggetto. Che però è già saltato. Ferrero: «Raddoppiati i militanti al voto». La giovane Forenza: «Il quesito non aveva attinenza con la realtà»
rifondazione-bandiera-formato-grande1Oltre 5mila partecipanti al voto su circa 20mila iscritti dichiarati, oltre il 70 per cento dei sì al quesito proposto dal «comitato politico nazionale» e rimasto graniticamente lo stesso anche mentre a sinistra tutto, o quasi, cambiava. Il referendum interno molto old style di Rifondazione comunista — voto espresso fisicamente in sezione, non ammesso quello telefonico giammai quello attraverso la rete — ha consegnato un regalo di Natale al segretario Paolo Ferrero. Che infatti è contento: «È la seconda volta che facciamo una consultazione. La prima era sulla partecipazione alla lista L’Altra Europa con Tsipras alle scorse europee. Stavolta abbiamo raddoppiato i partecipanti e abbiamo ribadito a larghissima maggioranza che siamo favorevoli al soggetto unitario della sinistra e contrari allo scioglimento del nostro partito». L’oggetto della consultazione, che è durata le prime due settimane di dicembre e si è chiusa lo scorso 19, era il no allo scioglimento del Prc e il sì alla «costruzione attraverso un processo unitario, partecipato e democratico, del nuovo soggetto della sinistra» che «vedrà una prima tappa positiva nella convocazione dell’assemblea del 15/17 gennaio 2016 convocata sulla base del documento “Noi ci siamo, lanciamo la sfida”». Ma qui arriva il primo guaio: mentre il Prc organizza il suo referendum, salta il tavolo unitario a cui siedono Sel, ex Pd, Prc, Altra Europa, Act, più alcune personalità come Sergio Cofferati. Non basta aver raggiunto un accordo sulla fine della coalizione con il Pd quasi ovunque (non a Cagliari, resta aperto il caso delle primarie milanesi). La rottura avviene sulla morte dei partiti di provenienza: Sel ed ex Pd la pretendono, il Prc è contrario. L’assemblea di gennaio viene cancellata. E il documento finisce nell’archivio delle occasioni perse.
Ma la segreteria del Prc non fa una piega: mantiene la consultazione e il testo del quesito così com’è — peraltro per statuto non ha il potere di cambiarlo — facendolo accompagnare dall’avvertenza che se anche l’accordo con le altre forze politiche è saltato, quella resta la linea del partito.
E così va, secondo i dati comunicati in queste ore dal responsabile organizzazione Ezio Locatelli: 462 circoli riuniti finora, 12mila militanti coinvolti, 5185 votanti di cui 3700 sì (il 71,4 per cento) e 1175 no (il 22,7). Mancano all’appello alcune regioni ritardatarie, come Abruzzo e Sardegna, ma il dado è tratto. Il fatto che gli iscritti si siano espressi su un «processo politico» nel frattempo deragliato non preoccupa Ferrero: «L’indirizzo politico del corpo militante del partito è chiaro. Il tema del processo unitario per noi si svolge così. E consiglio di studiare bene il voto spagnolo, per capire che se Podemos avesse accettato ovunque la proposta di fronte popolare di Izquierda Unida, la sinistra spagnola ne avrebbe guadagnato ancora di più. Qui da noi chi vuole farsi un partito per i fatti suoi, se lo faccia».
Per capire quest’affermazione bisogna addentrarsi nel ginepraio della sinistra (politica) italiana, con tutte le cautele del caso: Ferrero non lo dice ma ce l’ha con chi, secondo la versione del Prc, ha fatto saltare il «tavolo» della «cosa unitaria» pretendendo lo scioglimento dei partiti: leggasi vendoliani ed ex Pd. E ce l’ha anche con i giovani che in seguito hanno promosso un nuovo appello e un nuovo appuntamento, stavolta per febbraio: di nuovo chiedendo ai partiti di «scrivere una nuova storia»: leggasi ’sciogliersi’. Per il Prc il tema non è e non può essere all’ordine del giorno, spiega il presidente del collegio dei garanti Gianluca Schiavon: «La battuta d’arresto nel processo unitario non deve farci desistere dall’obiettivo di un sinistra unita e ampia. Lo scioglimento del Prc non è a disposizione del gruppo dirigente ma, eventualmente, di una larghissima maggioranza congressuale».
Alla consultazione del Prc c’è anche chi ha detto no. E non per dire sì allo scioglimento del partito ma ’da sinistra’ per diffidenza sul percorso unitario, poi in effetti andato a sbattere. È il caso, fra gli altri, di Eleonora Forenza, giovane ricercatrice e eurodeputata dell’Altra Europa, lista che dopo un anno ha perso la capolista Barbara Spinelli, uscita dal gruppetto italiano per restare nei banchi della sinistra europea. Spiega Forenza: «Dopo che è saltato il tavolo del soggetto unitario ho chiesto che la consultazione fosse sospesa perché a quel punto il quesito non aveva più attinenza con la realtà. Non sono stata ascoltata. Per questo ho votato no». E comunque avrebbe votato no in ogni caso: «Non avrei avallato un processo che lasciava aperti troppi nodi e dubbi».
Daniela Preziosi - il manifesto

Supportare la resistenza, preparare l’offensiva di Collettivo Clash City Workers

Incontro-dibattito sul libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, Clash City Workers (La casa Usher, 2014) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 13 novembre 2015
 
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Il progetto Clash City Workers nasce a Napoli nel 2009 e si diffonde a Roma, Firenze e Padova, in piccolo anche a Milano, Torino e Verona, dove si sono sviluppati dei nodi del collettivo Clash. Di base è nato dall’esigenza di trovarsi, dal fatto di essere sempre stati legati a livello ideologico a una visione della società che vede il lavoro al centro quantomeno del ragionamento politico, una visione che però non aveva gli strumenti adeguati per leggere la realtà che si trovava di fronte: andavamo davanti ai luoghi di lavoro a distribuire il volantino ma non riuscivamo a parlare con i lavoratori, ad avere con loro una relazione, proprio perché il nostro approccio era puramente ideologico. In più si aggiungeva la constatazione che quel lavoro che i media raccontavano non esistere più, o perlomeno essere confinato a una parte marginale delle nostre vite, di fatto lo vivevamo direttamente, o anche indirettamente perché disoccupati e studenti che si andavano a formare per poi inserirsi nel mercato del lavoro.
 
Eravamo di fronte quindi a una mancata considerazione di quel campo che è al centro sia della nostra esperienza individuale e collettiva sia, anche se in modo rovesciato, del discorso pubblico – se pensiamo a qual è il centro dell’operato del governo Renzi, iniziato con una riforma che, a parole, doveva garantire una maggiore occupazione e risolvere il problema del dualismo del mercato del lavoro, e si è tradotta in un un abbassamento generalizzato delle condizioni complessive, con i due passaggi del Jobs Act che prima ha peggiorato il dualismo con la semplificazione dei contratti a termine e poi ha messo in atto l’attacco più violento con l’abolizione dell’articolo 18.
Per anni si è anche detto che non esisteva più la possibilità di lottare nei luoghi di lavoro, che non c’era più conflitto, che era diventato difficile farlo; per cui si pensava che il posto di lavoro non fosse più lo spazio dove poter fare politica, e poter organizzarsi per migliorare anche quell’aspetto della nostra vita. Se questa lettura in parte coglieva alcune verità, quelle di una trasformazione, quantomeno in Italia, dei rapporti produttivi e del tipo di organizzazione aziendale, e della conseguente possibilità di fare sindacato, dall’altro era una visione molto schiacciata sulle percezioni individuali di chi aveva la possibilità di scrivere, o di chi ha avuto un ruolo intellettuale sia all’interno di quello che possiamo chiamare Movimento sia all’interno di ciò che rappresenta l’arco della sinistra istituzionale. Eppure a noi questa idea che fossimo tutti pizzaioli o lavoratori della conoscenza suonava un po’ strana. E, soprattutto dopo lo scoppio della crisi nel 2007/2008, bastava leggere le pagine locali di un quotidiano per scoprire che c’erano tante fabbriche che chiudevano, oppure lavoratori in vertenza contro un abbassamento salariale. Quindi ci siamo detti che forse questo mondo che si racconta non esistere più, non esiste più nel nostro discorso ma nella realtà esiste eccome.
Volevamo inoltre cercare di capire quegli elementi storici, anche recenti come le Primavere arabe, che ci hanno mostrato come non sia tanto la dimensione della piazza a determinare le trasformazioni sociali quanto piuttosto la capacità di incidere nella sfera di produzione, nei rapporti economici: in passato in Italia i movimenti della lotta per la casa hanno assunto centralità e ottenuto un passaggio significativo quando anche il movimento dei lavoratori ha assunto la questione della casa come centrale e rilevante, e l’ha quindi posta all’ordine del giorno e si è mobilitato; allo stesso modo nelle Primavere arabe, soprattutto in Tunisia e in Egitto – sebbene ora la situazione sia pessima – ci sono stati momenti importanti, che sono riusciti a trasformare una situazione immobile da almeno trent’anni, proprio quando in piazza sono scesi i lavoratori.
Quindi, per non avere un approccio ideologico e riuscire a capire veramente com’è oggi il mondo del lavoro e quali sono le forme di organizzazione, abbiamo deciso di iniziare a fare inchiesta. Significa cercare di capire effettivamente quali sono le lotte che si muovono, come sono organizzate, quali sono i loro problemi, quali possono essere gli strumenti di intervento, come possiamo muoverci, noi che vogliamo di fatto fare un lavoro politico, nella direzione di trasformare questa società nella sua generalità; come possiamo incidere veramente e come facciamo a diventare strumento nelle mani di chi già si mobilita, e non essere grillo parlante, merlo indiano sulla spalla del lavoratore; come possiamo promuovere questa mobilitazione.
Il lavoro che dunque facciamo quotidianamente, che spesso non è un lavoro particolarmente avvincente perché non ha delle ricadute immediate, è quello di mappare il territorio dove siamo, ossia andare a vedere che cosa succede; quindi apriamo il giornale e facciamo la rassegna stampa, per avere un’idea di quello che si muove – chiaramente è un lavoro filtrato dalla linea editoriale dei quotidiani, ma mano a mano si costruiscono delle relazioni che tentano di avere una presa maggiore su ciò che accade, scavalcando anche questo strumento. Poi andiamo dove ci sono le vertenze, facciamo delle video interviste, cerchiamo di dare voce e usiamo il nostro sito e i social network, in particolare facebook, per dare voce alle singole lotte, con articoli e interviste. Facendo questo cerchiamo di mettere quei lavoratori con cui abbiamo una relazione, in contatto con una dimensione più grande: in questo modo si trovano sul sito affiancati a lavoratori di altri settori, o dello stesso settore ma in un’altra parte di Italia o del mondo (anche se questo lo facciamo in maniera molto più indiretta), e ciò fa emergere alcune questioni comuni che ci possono essere tra settori completamente differenti e in luoghi geografici diversi. È importante fare emergere questa omogeneità di fatto, che esiste in gran parte delle condizioni di lavoro e di vita, e quindi creare delle connessioni materiali.
Quello che cerchiamo di fare è costruire relazioni.
A Padova, per esempio, in questo momento stiamo promuovendo un coordinamento di lavoratori in lotta dove ci sono i lavoratori di Ikea, gli insegnanti contro la Buona Scuola di Renzi e i lavoratori di una fabbrica che produce frigoriferi, a capitale cinese, che vuole chiudere gli stabilimenti. Qualche settimana fa abbiamo presentato il libro in val Brembana, in provincia di Bergamo, e lì c’erano dei lavoratori della Fiber che nel 2012 si sono trovati davanti una situazione simile, e hanno reagito impedendo la delocalizzazione della fabbrica, autogestendola per sei mesi, e riuscendo a continuare la produzione finché non è arrivata un’azienda tedesca che ha acquistato l’impresa – e dopo due anni ha proposto nuovi esuberi, quindi da ottobre dell’anno scorso i lavoratori sono di nuovo in presidio permanente con un camper davanti all’azienda. È stata una vicenda significativa che non è emersa e di cui si sa molto poco, e ha dei punti comuni con la situazione di Padova, punti che possono essere da esempio e stimolo. Quindi abbiamo chiesto a questi lavoratori se volevano mandarci un contributo, un video messaggio, e lo hanno fatto, raccontando la loro storia e spingendo i lavoratori di Padova a tenere duro e lottare. Abbiamo proiettato il video durante un’assemblea al presidio ed è stato accolto con entusiasmo, e con la richiesta di avere i contatti per potersi parlare.
Abbiamo costruito relazioni anche in realtà più grosse come l’Electrolux, relazioni con le Rsu e i lavoratori dei vari stabilimenti, che sono andati a dare la propria solidarietà ai presidi delle lavoratrici di una casa di riposo che dovevano essere licenziate e sostituite con una cooperativa. Un’azione che ha dato maggiore visibilità alla lotta, e ha contribuito a sviluppare una percezione comune della propria situazione dentro i rapporti sociali.
Da queste esperienze, e quindi dalla necessità di sganciarci dalla nostra visione personale e individuale e di approfondire la conoscenza, che è teorica ma anche pratica, della realtà, è nato il libro Dove sono i nostri, dove per ‘nostri’ si intende la classe lavoratrice. Alle manifestazioni del 18/19 ottobre 2013, che hanno segnato un momento importante e visto in piazza soprattutto i movimenti di lotta per la casa, ci siamo detti: qui manca quel grande insieme di persone, molto più grande, che noi vediamo lottare e organizzarsi quotidianamente, anche in maniera scomposta e senza riuscire a creare delle forme organizzative stabili. Quindi abbiamo deciso che dovevamo far capire a chi c’era in quella piazza perché per noi è importante lavorare su questa dimensione, e siamo partiti con l’idea di scrivere un commento, un documento, che poi si è trasformato in questo libro.
Per scriverlo siamo partiti da alcune indagini statistiche e ricerche economiche fatte dall’altra parte, per esempio da Intesa San Paolo, e andando a spulciare il sito dell’Istat, che pur essendo costruito per esigenze che non coincidono con le nostre contiene molti dati interessanti che possono essere utilizzati. Abbiamo quindi affiancato un’indagine di dati, statistica, che è una parte consistente del libro, alla nostra esperienza.
Sinteticamente, da una introduzione in cui cerchiamo di capire quali sono i temi da mettere in discussione, siamo andati a vedere qual è la struttura produttiva dell’Italia, ossia come si produce la ricchezza, quali sono i settori, che cosa è cambiato nel corso del tempo, chi la produce, quindi com’è composta la popolazione italiana, chi sono gli studenti, i lavoratori, i disoccupati; poi siamo entrati nel dettaglio, seguendo una divisione dei settori produttivi secondo le caratteristiche da un punto di vista statistico – genere, provenienza geografica, età, tipo di istruzione – affiancando i dati a quelli che sono i risultati delle nostre inchieste, indagini e relazioni sul campo, di modo da far emergere i punti di forza, le possibilità di organizzazione, quello su cui ci sembra maggiormente importante puntare e spingere; poi siamo entrati anche dentro le categorie del lavoratore autonomo, cercando di capire cosa c’è dei nostri dentro quel settore e cosa invece non c’è, e anche la categoria dei Neet, che critichiamo proprio per come è costruita, perché fondamentalmente in questa categoria ci sono dei disoccupati, o comunque l’incremento dei Neet è dovuto all’incremento della disoccupazione; infine abbiamo tirato le conclusioni politiche, cercando di collocare le trasformazioni dal lato sindacale e dal lato politico, seguendo quello che sono stati gli accordi a partire dall’abolizione della scala mobile fino a quello sulla rappresentanza – il Jobs Act ancora non c’era – e cogliendo quindi anche il ruolo neocorporativo verso cui stiamo andando, sebbene con delle trasformazioni negli ultimi mesi, e proponendo in chiusura la nostra progettualità.
Per tutto il libro abbiamo cercato di mantenere due prospettive temporali, facendo un confronto di lungo periodo, prendendo gli ultimi dati disponibili del Censimento Industria e servizi, del 2011, e confrontandoli con quelli del 1971, un anno che nell’immaginario è visto come simbolo di una società scandita dal ritmo della fabbrica, lo Statuto dei lavoratori è da poco stato approvato e siamo tutti operai; una lettura che per un certo senso è vera, ma dall’altra è una rappresentazione un po’ mitologica.
Se andiamo quindi a vedere com’era prodotta la ricchezza, il Pil, nei macrosettori di agricoltura, industria, servizi e commercio, nel 1971 l’industria in senso stretto produceva il 29,5% del Pil, nel 2011 il 18,6%; se andiamo a vedere il numero degli occupati, nel 1971 nell’industria in senso stretto erano quasi il 29%, oggi sono il 20,5%. Guardando questi dati un po’ superficialmente si può dunque pensare che l’Italia stia andando effettivamente verso una deindustrializzazione, ma non è così. Andando dentro i dati infatti, scomponendo queste categorie, si scopre che a essere aumentati non sono tanto i servizi in genere, bensì i servizi legati all’industria, e per due ordini di motivi, che hanno a che fare con la classificazione statistica. Da un lato c’è una correzione, dall’altro un errore.
Dalla metà degli anni Settanta in poi è avvenuta una scomposizione dell’organizzazione aziendale. La Benetton, per citare un nome e fare un esempio, è passata da una grande fabbrica concentrata, dove avveniva tutta la produzione, a una fabbrica diffusa nel territorio: sono stati presi diversi reparti, trasformati in piccole aziende e dati in mano ai caporeparto, che sono così diventati piccoli padroncini. Una fetta della forza lavoro che stava nella fabbrica è stata quindi espulsa e spezzettata in varie piccole aziende. Ma la scomposizione non è avvenuta solo sul territorio, anche all’interno del luogo di lavoro. Un tempo erano tutti dipendenti di Benetton, gli operai che lavoravano in mensa, quelli che facevano le pulizie ecc., mentre ora queste attività sono state esternalizzate e le statistiche, correttamente, le leggono come ‘servizi’. Eppure quelle persone svolgono la stessa attività di quarant’anni fa. Quindi abbiamo avuto una correzione statistica.
Ma abbiamo anche un errore. I lavoratori, come a Pomigliano, per esempio, all’epoca Alfa Romeo oggi Fiat, o Fca che dir si voglia, che svolgevano una funzione fondamentale del processo produttivo, quella di spostare i pezzi da una linea all’altra, da un capannone all’altro, si sono trovati non più dipendenti dell’Alfa Romeo ma di una azienda di logistica interna; quindi oggi la statistica li colloca nei servizi, e questo è un errore perché la loro mansione è produttiva, non ha niente a che fare con i servizi.
Queste due variazioni di classificazione spiegano una parte significativa del cambiamento dei dati tra il 1971 e il 2011, anche se non del tutto, ovviamente. Perché di fatto c’è stata una crescita di altri servizi, legati all’informatizzazione, al design, alla progettazione, che hanno integrato nuovi tipologie di lavoro all’interno della produzione. Ma ciò che è rilevante è il fatto che il manifatturiero è centrale nell’organizzazione economica e produttiva a livello europeo, o forse si può dire a livello generale per una economia capitalistica.
Quindi c’è stata una trasformazione formale dell’organizzazione del lavoro, che però ha avuto e ha degli effetti sostanziali perché spezzetta, rende più difficile l’organizzazione della lotta, perché se mi ritrovo in una piccola azienda della provincia avrò più difficoltà ad andare a parlare con i miei colleghi che lavorano nella grande azienda, quella che ha esternalizzato e per cui io produco un pezzo che poi i miei colleghi continueranno a lavorare.
È una trasformazione anche globale, degli investimenti. Basti pensare alla Cina, alla crescita che ha avuto. Quindi la costruzione di filiere globali crea uno spezzettamento che è anche verticale, affiancato però da una sempre maggiore coesione con i servizi legati all’industria, in cui è sempre più difficile distinguere tra cosa è produttivo e cosa non lo è.
È chiaro che questa trasformazione del sistema produttivo è stata anche una reazione alle lotte che negli anni Sessanta e Settanta hanno segnato la conquista di diritti collettivi, in Italia l’applicazione, in parte, della Costituzione, e un miglioramento generale: l’Italia più egualitaria è stata quella degli anni Settanta, proprio come esito di quel ciclo di lotte. Come reazione quindi alla perdita di profittabilità degli investimenti, a livello anche globale, si sono sviluppate tutta una serie di riorganizzazioni produttive, le delocalizzazioni ecc. Sicuramente questo ha indebolito l’organizzazione operaia, ma offre anche nuove possibilità di lotta.
Filiere così integrate danno la possibilità di interrompere il flusso. Quella del tessile, per esempio, che va dalla coltivazione fino al Bangladesh, dove avviene la confezione dei capi, e poi arriva in Italia dove si realizza la vendita, ma che parte anche dall’Italia perché qui ci sono i piccoli stabilimenti che producono i campioni; oppure la filiera agricola, che parte dai campi della raccolta, nelle condizioni disastrose che conosciamo, dei pomodori e della arance pugliesi e calabresi, sale lungo i magazzini e i camion della logistica e arriva nei centri della grande distribuzione. Capire come sono organizzate queste filiere è necessario per comprendere quali sono gli strumenti più efficaci per incidere nelle lotte.
Un esempio l’hanno dato i lavoratori del magazzino centrale di Ikea, che tra il 2012/2013 e poi nell’estate scorsa del 2014 hanno organizzato una dura lotta, sebbene in questo momento si può dire che abbiamo perso, anche se non completamente. Tutti i lavoratori della logistica sono formalmente dipendenti di cooperative ma di fatto svolgono una mansione per Auchan, Bennet, Ikea ecc., ossia il committente finale; quando hanno iniziato a mobilitarsi, questi lavoratori hanno scelto come propria controparte non la cooperativa, anche quella, certo, ma prima di tutto l’Ikea, la Bennet ecc., cioè l’impresa che effettivamente tiene le redini della filiera, il grande gruppo multinazionale capace di condizionare le situazioni di lavoro lungo tutta la filiera. Sceglierlo come controparte offre anche la possibilità di organizzarsi al di là della propria singola condizione specifica, e quindi andare a parlare con i dipendenti di Ikea, Auchan ecc.
Questa frammentazione, quindi, se rende più difficoltosa l’organizzazione crea anche spazi di conflitto che non sono ancora stati indagati e studiati, forse perché, come si diceva, si è creduto che non esistesse più la possibilità di organizzarsi; dunque c’è tutto un sapere da costruire ex novo, o quantomeno da recuperare.
Esiste un’altra questione legata al confronto temporale tra il 1971 e il 2011. Quando si crede che tutti i lavoratori stavano in fabbrica, mentre si legge nelle statistiche che erano il 28%, vuol dire che la capacità di determinare la direzione politica, ossia di mettere al centro della discussione politica la questione del lavoro – che non è solo la questione del lavoro in fabbrica ma delle condizioni di lavoro in generale – non derivava tanto dalla consistenza numerica bensì dalla coscienza e dall’organizzazione: dal riconoscersi come classe, e poter essere in grado di muoversi in una direzione comune, anche se magari non studiata, però percepita.
La nostra paura è che non moriremo di inedia, disoccupati, ma torneremo in una situazione di super sfruttamento. Le politiche europee del lavoro, i desideri di Confindustria, che si stanno realizzando in gran parte nel governo Renzi, non sono quelli di eliminare la produzione dall’Italia o dall’Europa, vivendo di turismo e chissà cos’altro; ci sono studi in Francia, Italia e soprattutto negli Usa, che mostrano come ci sia stato e ci sarà un ritorno dell’industrializzazione. Al posto della delocalizzazione, dell’offshoring, potremmo entrare in una fase di reshoring, che significa riportare la produzione e gli investimenti produttivi in Europa e in Occidente, ma sarà attuato solo quando le condizioni di sfruttamento saranno ripristinate e il Capitale potrà ottenere dei profitti adeguatamente alti secondo i suoi desideri. Quindi ridurre i salari, andare a smantellare le garanzie sui luoghi di lavoro, indebolire la possibilità di fare sciopero ecc. sono operazioni che vanno in questa direzione. Perché la Germania starebbe meglio nella rappresentazione che abbiamo? È vero, ci sono i lavoratori della Volkswagen che hanno buoni salari, ma c’è anche un grande esercito di sottoccupati, persone che lavorano con i cosiddetti Mini Jobs, lavori pagati pochissimo che costringono a una precarietà di vita molto alta, che legano a doppio filo con i sussidi, come quello che la Naspi cerca di emulare, ossia il fatto di dover accettare per forza un’offerta di lavoro perché se la si rifiuta per la terza volta si riduce o si perde il sussidio, e la si deve accettare anche se il lavoro offerto è pagato meno del sussidio stesso. La Germania ha fatto questo processo di attacco al salario nel 2003, con le riforme del Piano Hartz, e se si osserva un semplice grafico appare evidente che dal 2003 la quota di reddito nazionale che va ai salari inizia a scendere, mentre quella che va ai profitti inizia a salire; quello che è accaduto in Italia dopo l’abolizione della scala mobile e gli accordi del ‘92/93 sulle rappresentanze sindacali. Il Piano Hartz ha avuto un tale effetto da porre, anche a partire da condizioni specifiche della stessa Germania, le basi per mantenere gli investimenti e la profittabilità. Quindi quello che di fatto si va a cercare è la possibilità di tornare a fare investimenti redditizi anche in Europa, e lo si fa abbassando i salari, aumentando i ritmi, peggiorando le condizioni di lavoro in tutti i settori. Certo è più evidente su una linea di montaggio, come all’Elec-trolux, dove si passa da 60 a 82 pezzi all’ora; poi magari viene attivato un contratto di solidarietà in cui si lavora sei ore ed è ancora sopportabile, però intanto la proprietà ottiene la stessa produzione che aveva prima nelle otto ore; e poi quando si registra il picco produttivo e si torna a otto ore, il lavoro diventa assolutamente insostenibile.
Noi non diciamo che si può fare politica solo nel lavoro, anzi, facciamola ovunque esista la possibilità di farla, però scegliamo delle priorità, che non dipendono tanto da noi e dalla nostra convinzione ma dalla possibilità di generalizzarle, di incidere su dei piani che abbiano una dimensione di massa, che siano recepibili, comprensibili, attaccabili, a livello generale nella società, dai nostri, tutti. È vero che c’è una grande frammentazione che è figlia di questi processi e che in parte è sempre esistita, ma è vero anche che c’è una tendenza alla omogeneizzazione; ed emerge dai dati, a livello dei salari, al ribasso, e questo dobbiamo essere in grado di usarlo a nostro vantaggio. Il fatto che i bancari facciano saltare il contratto collettivo non li fa sembrare più dei privilegiati, e ciò vuol dire che saranno più facilmente con noi a lottare.
Esiste una omogeneizzazione anche a livello globale. Non dobbiamo pensare che tutto dipenda da noi, che siamo gli unici protagonisti di questa storia, perché se andiamo a vedere qual è l’andamento dei salari in Cina ci accorgiamo che i lavoratori cinesi scioperano, pur avendo un unico sindacato, governativo, e con tutte le difficoltà della situazione, ottenendo dei miglioramenti salariali del 30% l’anno nel distretto del Guang-dong del sud est cinese, dove sono localizzate le più grandi concentrazioni industriali. È chiaro che questo risponde anche a una politica del governo che cerca di stimolare i consumi interni, ma è anche frutto di quelle lotte. Quindi se là i salari crescono, esiste la possibilità di vedere una omogeneizzazione che può essere utilizzata per individuare delle rivendicazioni collettive. Per esempio si deve ragionare su una dimensione europea, sulla differenza salariale importante esistente tra la Germania e la Polonia e la Repubblica Ceca, Paesi confinanti che hanno salari pari alla metà, a un terzo, di quelli tedeschi, e che quindi funzionano anche da bilanciamento sul piano delle rivendicazioni salariali in Germania; pensare una rivendicazione di incremento salariale uguale è un’azione di cui non sappiamo niente nella pratica. Nella pratica conosciamo solo quelle che sono le risposte dall’alto, che spingono sempre più in una direzione neocorporativa tra proprietà e sindacati, quindi i nostri devono riuscire a creare qualcosa di più omogeneo e trovare gli strumenti per guidarlo.
In Italia in questo momento, probabilmente la realtà più significativa sul piano della partecipazione, mobilitazione e della capacità di incidere anche nella politica cittadina, di fare proprio quel lavoro di rimessa al centro del discorso pubblico della questione lavoro, è il Coordinamento dei lavoratori e delle lavoratrici livornesi. È nato circa un anno fa sulla spinta di alcuni compagni che si occupavano di lotta per il diritto alla casa e di un lavoratore Rsu molto capace, che ha deciso di costruire una rete di relazioni. È un coordinamento che va al di là dell’appartenenza sindacale e cerca di essere proprio quello strumento nelle mani dei lavoratori. Ha subito dato sostegno a una lotta molto improvvisa e accesa di alcuni lavoratori di una fabbrica che produceva pezzi per la Fiat, che hanno scoperto nel corso di una notte che lo stabilimento sarebbe stato chiuso da lì a poco; 400 lavoratori che hanno iniziato subito una mobilitazione con sciopero e sono andati a occupare la sede di Confindustria. Il coordinamento è cresciuto intorno a loro, rafforzandoli, dandogli visibilità, ed è riuscito ad aggregare intorno a sé più di trenta realtà lavorative diverse in pochissimo tempo, tant’è che il primo corteo a fine di ottobre dell’anno scorso ha visto 3.000 lavoratori in piazza, dai call center ai lavoratori del porto, e sta proseguendo nell’azione ed è riuscito a spostare il dibattito cittadino su queste questioni.
E chiaro che bisogna fare dei passi in avanti, perché il conflitto resta tuttora schiacciato sulla dimensione vertenziale e resistenziale, rimane sulla difesa, sul mantenimento di uno spazio di agibilità, di condizioni di vita che verrebbero meno, e non riesce a porre, o lo fa poco, delle questioni di avanzamento. Ma ci sono anche realtà in cui si va all’attacco, come nelle lotte del mondo della logistica, che vanno anch’esse nella direzione di costruire una omogeneità; perché è vero che tutti lavorano nella logistica, ma è vero anche che sono una miriade di cooperative diverse. Tutto è iniziato nel 2008/2009, nella provincia di Milano, a partire da alcune lotte piccole ma significative, che poi si sono estese soprattutto a Piacenza, a Bologna, lungo gli snodi della logistica; i lavoratori sono riusciti a portare un esempio di possibilità di andare all’attacco, ossia di ottenere cose che prima non avevano. È vero che si partiva da situazioni molto pesanti, in cui il contratto nazionale non era assolutamente applicato e c’era un forte dispotismo nell’ambiente di lavoro, ma adesso i lavoratori sono organizzati in due principali sindacati di base, Si Cobas e Adl Cobas, e sono riusciti a ottenere quantomeno l’applicazione del contratto collettivo nazionale e la riduzione netta del livello di dispotismo. E ora stanno portando avanti una piattaforma che chiede un nuovo contratto collettivo nazionale che preveda di fatto il superamento del sistema delle cooperative, utilizzate unicamente per ottenere sgravi fiscali, evadere la contribuzione e poter fare i cambi appalto ogni due anni, che significa eliminare scatti di anzianità e poter lasciare a casa con una grande facilità chi diviene troppo fastidioso. Riuscire ad abolire questa organizzazione del lavoro all’interno della logistica ha delle ricadute molto positive anche negli altri settori in cui si lavora all’interno di cooperative; è una questione comune che pone il tema di come si possano generalizzare le forme di lotta e di rivendicazione.
C’è anche la Camera popolare del lavoro di Napoli, che abbiamo sviluppato come Clash City Workers dentro uno spazio occupato a marzo di quest’anno, un vecchio ospedale psichiatrico giudiziario. Questa realtà è stata costruita rifacendosi al ruolo originario che dovevano avere le Camere del lavoro – quindi fine Ottocento, inizi Novecento – ossia quello di mettere in relazione i lavoratori, creare capacità di organizzazione al di là del proprio luogo di lavoro e al di là della propria appartenenza alla singola lega sindacale, creare informazione e istruzione suoi propri diritti, e mobilitare i lavoratori sulle questioni degli altri lavoratori: io che sto alla Fiat vado a supportare i lavoratori della cooperativa che fa le pulizie alla Auchan .
Di fatto questa Camera popolare del lavoro è un embrione di una forma organizzativa che va nella direzione di costruire, anche dal punto di vista della coscienza, una omogeneità che esiste già nella materialità dei fatti. Siamo connessi dal Capitale a livello globale, siamo connessi lungo le filiere e siamo omogeneizzati nell’attacco che ci viene rivolto, ma di fatto siamo scomposti dal punto di vista soggettivo, nella nostra percezione, da quanto ci sentiamo diversi, separati, non capiamo; quindi fondamentale prerequisito per qualsiasi possibilità, anche di sviluppo politico, è il presentarsi dei nostri, della nostra classe, nel dibattito pubblico, in una forma organizzata.
Parlare del conflitto capitale/lavoro non è una questione ideologica ma uno strumento per trasformare anche la rappresentazione che c’è fra i nostri. Lavorare occupa dalle otto alle dieci ore al giorno, ore fondamentali, e in più esiste tutto il corredo del lavoro che occupa buona parte del resto del tempo: quando vado a casa mi trascino dietro alcuni di questi aspetti, le conseguenze, i pensieri, le preoccupazioni. Bisogna recuperare l’ambito del lavoro anche nella quotidianità, che non è vero che non c’è, c’è eccome, solo che le persone tendono a trasformarlo nella preoccupazione del dover pagare la bolletta, l’assicurazione dell’auto, senza pensare che devono pagarla, semplificando estremamente, perché non ci sono più mezzi di trasporto pubblico e quindi tutto è a carico del lavoratore. Aspetti che non sono immediatamente il salario ma elementi all’interno della quotidianità del lavoratore, in quanto lavoratore o disoccupato, che è la stessa cosa, che appartiene alla classe; aspetti su cui si possono fare rivendicazioni secondarie ma che, in un determinato momento, sono più immediatamente alla portata, più politicamente attuabili, e permettono di fare un passaggio politico più rapido e raggiungibile. Da questo punto di vista può quindi essere utile dare sponda a chi altro lo fa, oppure utilizzare anche questi ambiti su cui agire.
Certo avere una dimensione nazionale dà la forza e la capacità di leggere la realtà, di costruire quelle relazioni che si muovono sul territorio nazionale, così come si muovono sul territorio globale. L’unico modo per avere un peso a livello nazionale è essere in grado, sul livello nazionale, di agire diffusamente nel territorio, avere la capacità di essere incisivi rispetto al quotidiano dei lavoratori. Costruirla è difficile. In questo momento abbiamo bisogno di creare gli strumenti che ci permettono di presentarci alla nostra classe, però dobbiamo farlo a partire dall’esperienza concreta, dalle forme organizzative che si danno le lotte. E a partire da quel conflitto che esiste, costruire le forme organizzative che ci saranno utili nel momento in cui tornerà il Capitale. Se saremo come siamo adesso, sarà un massacro; se utilizziamo le lotte di oggi, che sono certamente difensive e non offensive, per costruire relazioni e organizzazioni, magari saremo capaci di contrattaccare e ottenere.

lunedì 28 dicembre 2015

Possibile/Prc: “Il regalo di Renzi all’Umbria? Un inceneritore nuovo di zecca”


Non c’è stato niente da fare, ammesso che i tentativi ci siano stati: lo “Sblocca Italia” conferma anche per l’Umbria la costruzione di un inceneritore nuovo di zecca, probabilmente in provincia di Perugia. Ecco il regalo di Renzi all’Umbria dopo i disastri ambientali che si stanno consumando a Terni.
 
Altro che raccolta differenziata, per Renzi e il Pd rimane strategico bruciare i rifiuti, in questo caso in barba alle direttive europee e alla già compromessa situazione di inquinamento da polveri sottili che si è abbattuta sul paese. A niente sono serviti i dati della Regione sulla differenziata, a niente sono servite le rassicurazioni dell’assessore Cecchini. Prendersela con i comuni è del tutto fuorviante, visti gli sforzi economici ed organizzativi di alcune amministrazioni che in questi anni hanno messo in campo interventi per una gestione virtuosa dei rifiuti e per cui i cittadini hanno contributo con importanti sacrifici per rendere centrali le politiche ed indifferibili gli obiettivi per la raccolta differenziata spinta, la riduzione, il recupero e il riutilizzo dei rifiuti, anche al fine di promuovere iniziative industriali per il recupero e il riutilizzo dei materali, creando nuova occupazione. La Giunta regionale non è stata in grado nemmeno su questo tema di programmare dimostrandosi subalterna e affidabile proconsole dei voleri di Renzi sulla pelle degli umbri. Per parte nostra dichiariamo che promuoveremo e appoggeremo tutte le mobilitazioni contro questa ennesima sciagura e contro quelle gia’ in essere per la nostra regione, per la salute dei cittadini, per l’ambiente e per la possibilità di favorire un nuovo modello di sviluppo.
 
Comitati “Possibile” Umbria
Rifondazione comunista dell’Umbria

Governo d'evasione di Marco Travaglio



Un anno fa due quotidiani - il Fatto e Libero - scoprivano che una gelida manina aveva infilato nel decreto fiscale di Natale un bel pacco dono per evasori e frodatori fiscali: un codicillo che depenalizzava i due reati sotto il 3% del fatturato dichiarato. Un mega-colpo di spugna che, fra l'altro, avrebbe consentito a B. l'annullamento postdatato della sua condanna per la frode Mediaset, il trionfale rientro in Senato, la restituzione del maltolto e magari pure il risarcimento dello Stato per l'ingiusta detenzione ai servizi sociali.
Il regaluccio ovviamente non era solo per lui, ma per tutti i grandi gruppi nei guai con il fisco: ma fu proprio il sospetto di favorire B. che costrinse Renzi a fare marcia indietro, congelando il decreto delegato fino all'estate. Il governo poi lo sostituì con una raffica di altre "soglie" di impunità che escludevano B. ma includevano tutti gli altri grandi evasori, e perciò passarono nel silenzio generale. Siccome ora, sui giornali del centrodestra e non solo, riesplode la polemica sul doppiopesismo degli antiberlusconiani che non dicono nulla ora che Renzi fa le stesse cose di B., è il caso di intendersi una volta per tutte: noi del Fatto non siamo pregiudizialmente né col centrodestra né col centrosinistra né con nessuno. Stiamo con la Costituzione. E critichiamo chiunque ne violi lo spirito e la lettera, si tratti di B., Monti, Letta, Renzi, Napolitano o Mattarella. Piuttosto: sono i berlusconiani che, sulle vere porcate di Renzi, tacciono e acconsentono. Tipo sull'evasione. Léggere sul sito del Fatto l'inchiesta di Chiara Brusini, per credere.
Ricordate le assoluzioni di B. nei processi per falso in bilancio "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato"? Quel "più" significava che il reato c'era quando B. l'aveva commesso, ma era stato depenalizzato durante il processo dallo stesso imputato. Si pensava e sperava che quello scandalo a cielo aperto finisse per sempre dopo la dipartita di B. da Palazzo Chigi. Invece quest'anno le assoluzioni perché il fatto non è più reato sono ricominciate nei processi per evasione: il reato c'era quando fu commesso, ma è stato depenalizzato durante i processi da Renzi. Ragion per cui, come ha detto sconsolato il procuratore di Udine, migliaia di fascicoli (1 su 3 in materia tributaria) vanno al macero e i pm non inseguono più gli evasori per processarli, ma per restituire loro la refurtiva sequestrata. Dal 1° ottobre, giorno dell'entrata in vigore del decreto Renzi, non è più reato la dichiarazione infedele sotto i 150 mila euro (prima lo era dai 50 mila in su).
E pure di quella fraudolenta "mediante altri artifici" sotto 1,5 milioni (prima la soglia era 1 milione). Il tutto in un Paese che evade ogni anno almeno 122 miliardi sui circa 1.000 dell'intera Ue e conta meno di 200 condannati definitivi per reati fiscali. La legge di Stabilità fa un altro regalone a evasori e riciclatori con l'innalzamento del tetto all'uso del contante da mille a 3 mila euro. Poi c'è la nuova norma sull'abuso del diritto, cioè sull'elusione, soavemente ribattezzata "operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti": depenalizzata tout court. Risultato: Alessandro Mocali, ex patron del gruppo Emmelunga fallito nel 2011, condannato a 1 anno di reclusione in primo e secondo grado a Milano per aver dichiarato "elementi passivi fittizi" per ottenere "un risparmio di imposta superiore alla soglia prevista", è stato assolto in Cassazione "alla luce della nuova disciplina" grazie a cui "le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie". Stesso copione per Emilio Petrone, Ad della Sisal, imputato per aver nascosto al fisco redditi per 18,8 milioni in tre anni e assolto dal Tribunale di Milano perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". E per il defunto Emilio Riva (Ilva) e quattro manager del gruppo, indagati per un'evasione di 52 milioni nel 2008 "mediante l'utilizzazione di elementi passivi fittizi" per quasi 160 milioni e ora assolti perché è tutto lecito.
Il presentatore tv Luca Laurenti era accusato di non aver versato al fisco 237 mila euro di Iva: fino a pochi mesi fa era reato, poi Renzi ha quintuplicato la soglia di impunità per l'omesso versamento Iva (da 50 mila a 250 mila euro) e pure Laurenti è stato assolto. Infine c'è il nuovo falso in bilancio, che doveva ripenalizzare il reato ridotto al lumicino da B.: Renzi è riuscito addirittura a fare peggio di lui. E Luigi Crespi, l'ex sondaggista berlusconiano condannato in appello a 6 anni e 9 mesi, s'è visto annullare la parte di pena relativa alle false valutazioni messe a bilancio: Renzi ha depenalizzato pure quelle. Ora, last but not least, ha pure cancellato il raddoppio dei termini di accertamento per l'Agenzia delle Entrate. I gufi del Financial Times hanno commentato: "L'immensa economia sommersa dell'Italia rimane uno dei fardelli più pesanti per il Paese e nulla di buono potrà arrivare da una misura (quella sui 3 mila euro in contanti, ndr) che serve solo a peggiorare il problema". E quelli dell'Economist hanno aggiunto: "Un governo coraggioso proverebbe a risolvere l'eccessiva pressione fiscale abbassando le aliquote, migliorando i controlli e ampliando la base fiscale. Invece, rendendo più facile imbrogliare, Renzi farà ricadere il peso dello Stato sulle spalle di meno italiani". Cioè di quei coglioni che continuano a pagare le tasse, fra i quali ci iscriviamo volentieri. Quindi, per favore, nessuno venga più a chiederci perché ce l'abbiamo tanto con Renzi: se no gli sputiamo in faccia.

Pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 27 dicembre 2015.