domenica 16 ottobre 2016

Calo della domanda: la realtà si insinua? - di Immanuel Wallerstein -

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Nei primi quindici anni del secolo, in termini globali, l'ideologia neoliberista ha dominato il discorso politico. Il mantra era: l'unica politica praticabile da parte dei governi e dei movimenti sociali è dare priorità a qualcosa chiamato "il mercato". La resistenza ad una simile credenza è stata minima, in quanto anche i partiti e i movimenti che si consideravano di sinistra - o almeno di centrosinistra - hanno abbandonato la loro tradizionale enfasi relativamente alle misure di welfare ed hanno accettato la validità di questa posizione orientata al mercato. Hanno sostenuto che tutt'al più era solamente possibile mitigare il suo impatto, mantenendo una piccola parte delle reti storiche di sicurezza che gli Stati hanno costruito nel corso di oltre 150 anni.
Le politiche da ciò risultanti hanno ridotto radicalmente la tassazione sui settori più ricchi della popolazione. In tal modo, hanno aumentato il divario fra i molto ricchi e tutti gli altri. Le imprese - soprattutto quelle di grandi dimensioni - hanno potuto aumentare i loro profitti riducendo il numero di posti di lavoro oppure dislocando il lavoro.
La giustificazione offerta da chi aveva proposto tutto questo era che tale politica avrebbe, nel corso del tempo, ricreato i posti di lavoro che erano andati persi; e che il valore addizionale creato, permettendo che il "mercato" prevalesse, avrebbe finito per diffondersi in qualche modo nella società. È chiaro che, per permettere la prevalenza è stata necessaria molta azione politica negli Stati. Il cosiddetto "mercato" non è mai stato una forza indipendente dalla politica. Ma questa verità elementare è stata solennemente ignorata o, quando è stata discussa, recisamente negata.

Tutto questo è finito? Di fatto esiste quello che un recente articolo di Le Monde ha definito un "timido" ritorno. da parte delle istituzioni dell'Establishment, a preoccuparsi di sostenere la domanda? Ci sono almeno due segnali in tal senso, entrambi di notevole effetto. Il Fondo Monetario Internazionale è da tempo il più forte pilastro dell'ideologia neoliberista, e impone i suoi obblighi a tutti i governi che gli richiedono prestiti. Tuttavia, in un memorandum del 24 febbraio, l'FMI ha reso pubbliche le sue preoccupazioni per il fatto che la domanda mondiale è diventata anemica. Ha esortato i ministri delle Finanze del G-20 ad abbandonare le politiche monetariste e a stimolare gli investimenti - anziché il risparmio - per sostenere la domanda attraverso la creazione di posti di lavoro. È stata quasi una svolta a 180 gradi.
Ma allo stesso tempo (il 18 febbraio), l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE), un secondo importante pilastro dell'ideologia neoliberista, ha pubblicato un memorandum in cui si annuncia una svolta simile. Ha affermato che era urgente promuovere "collettivamente" azioni che sostengono la domanda globale.

Perciò, la mia domanda è: la realtà si sta insinuando? Sembra di sì, seppure timidamente. Il fatto è che, in tutto il mondo, la "crescita" promessa, sotto forma di produzione con maggior valore aggiunto, non si è mai realizzata. È chiaro che il declino è disuguale. La Cina continua a crescere - ad un ritmo assai più lento, che minaccia di portare ad un declino ulteriore. Gli Stati Uniti sembrano che stiano ancora "crescendo", in gran parte perché il dollaro appare ancora, in termini relativi, come il luogo più sicuro dove i governi e i super-ricchi possono mettere il loro denaro. Ma la deflazione sembra stia ridiventando la realtà dominante nella maggior parte dell'Europa e delle cosiddette "economie emergenti" del Sud del mondo.
Ci troviamo ora in un gioco di attesa. Le timide modifiche raccomandate dal FMI e dall'OCSE affrontano la realtà di una domanda globale declinante? Il dollaro sarà in grado di resistere alla perdita crescente di fiducia nella sua capacità di essere deposito stabile di valore? Oppure ci stiamo muovendo verso una nuova, e molto più severa, mutazione nel cosiddetto "mercato", con tutte le conseguenze politiche che ne derivano?
La caduta della domanda globale è la conseguenza diretta della caduta dell'occupazione globale. Nei 200, o forse 500 anni, ogni volta che un cambiamento tecnologico ha eliminato posti di lavoro in qualche settore produttivo, c'è stata resistenza da parte dei lavoratori colpiti. Quelli che resistevano si impegnavano nelle cosiddette rivendicazioni "luddiste", volte a mantenere le tecnologie precedenti.
Dal punto di vista politico, la resistenza luddista è stata sempre un fallimento. Le forze istituzionali hanno sempre detto che sarebbero stati creati nuovi posti di lavoro, e che ci sarebbe stata nuova crescita. Avevano ragione. Di fatto, vennero creato nuovi posti di lavoro - ma non fra i lavoratori industriali. Venivano creati nelle professioni legate ai servizi, i "colletti bianchi". Di conseguenza, sul lungo periodo, l'economia mondiale ha assistito ad una riduzione degli occupati industriali e ad un significativo aumento nella percentuale dei lavoratori dal "colletto bianco".
Si è sempre pensato che i posti di lavoro dei "colletti bianchi" non fossero soggetti ad essere eliminati. Si presumeva che, a causa dell'interazione fra gli esseri umani, non ci sarebbero state macchine in grado di sostituire lavoratori in carne ed ossa. Non è più così.
Un grande avanzamento tecnologico permette ora che le macchine possano elaborare immense quantità di dati, una funzione questa finora esercitata, ad esempio, da consulenti finanziari di base. Le nuove macchine ormai possono processare dati che un individuo impiegherebbe diverse vite a calcolare. Il risultato è che tali macchine hanno già cominciato ad eliminare i posti di questi lavoratori dal colletto bianco. È vero che questo ancora non interessa i posti di alto livello o le posizioni di supervisione. Ma è possibile vedere verso dove soffia il vento.
Prima, quando i posti di lavoro nell'industria venivano eliminati o ridotti, potevano essere sostituiti da posti di lavoro da colletto bianco. Ma oggi, se le posizioni da colletto bianco spariscono, dove verranno creati i nuovi posti di lavoro? E se non verranno creati, l'effetto generale sarà quello di ridurre severamente la domanda effettiva.
Ma, la domanda effettiva è la conditio sine qua non per il capitalismo, in quanto sistema storico. Senza domanda effettiva, non ci può essere accumulazione del capitale. Sembra esser questa la realtà che si sta insinuando. Perciò, non sorprende il fatto che emergano le preoccupazioni. Non è probabile, tuttavia, che i "timidi" tentativi per far fronte a questa nuova realtà possano fare qualche differenza reale. La crisi strutturale del sistema sta venendo apertamente a galla. La grande questione non è come si ripara il capitalismo - ma che cosa lo sostituirà.

Ancora cinquanta giorni di lotta per dire NO ai nemici della Costituzione più bella del mondo

di Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Tomaso Montanari, Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky

Tra cinquanta giorni, il prossimo 4 dicembre, il Governo Renzi chiederà agli italiani: «volete contare di meno, volete meno democrazia, volete darci mano libera?».

Noi risponderemo di No. Perché non vogliamo contare di meno, non vogliamo meno democrazia, non vogliamo dare mano libera a questo, come a qualunque altro governo.
Una classe politica incapace e spesso corrotta prova a convincerci che la colpa è della Costituzione: ma non è così. A chi ci dice che per far funzionare l’Italia bisogna cambiare le regole, rispondiamo: noi, invece, vogliamo cambiare i giocatori.

Questa riforma non abbatte i costi della politica: fa risparmiare 50 milioni l’anno (non 500 come dice il Presidente del Consiglio, mentendo), che è quanto gettiamo ogni giorno in spesa militare. Come possiamo credere alla buona fede di un governo che sottrae somme enormi al bilancio pubblico permettendo alla Fiat (ma anche all’Eni, controllata dallo Stato) di pagare le tasse in altri paesi, e poi viene a chiederci di fare a brandelli le garanzie costituzionali per risparmiare un pugno di soldi?

Questa riforma non abolisce il Senato: che continuerà a fare le leggi seguendo numerosi e tortuosi percorsi. Quella che viene abolita è la sua elezione democratica diretta: il Senato farà la fine delle attuali provincie, che esistono ancora, spendono denaro pubblico, ma sono in mano ad un personale nominato dalla politica, e non eletto dal popolo.

Questa riforma consentirà a una maggioranza gonfiata in modo truffaldino dalla legge elettorale su cui il governo Renzi ha chiesto per ben tre volte la fiducia di scegliersi il Presidente della Repubblica e di condizionare la composizione della Corte Costituzionale e del CSM.

Questa riforma attua in modo servile le indicazioni esplicite della più importante banca d’affari americana, la JP Morgan, che in un documento del 2013 ha scritto che l’Italia avrebbe dovuto liberarsi di alcuni ‘problemi’ dovuti al fatto che la sua Costituzione è troppo «socialista». Quei ‘problemi’ sono – nelle parole di JP Morgan –: «governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo». Matteo Renzi dice che il suo modello politico è Tony Blair, il quale oggi percepisce due milioni e mezzo di sterline all’anno come consulente di JP Morgan. E la domanda è: a chi giova questa riforma costituzionale, ai cittadini italiani o agli speculatori internazionali?

Ma negli ultimi giorni anche osservatori legati alla finanza internazionale stanno iniziando a farsi qualche domanda. Il «Financial Times» ha definito la riforma Napolitano-Renzi-Boschi «un ponte che non porta da nessuna parte». La metafora è particolarmente felice, visto che la campagna referendaria di Renzi è partita con la resurrezione del Ponte sullo Stretto, di berlusconiana memoria.

E in effetti c’è un forte nesso tra la riforma e le Grandi Opere inutili e devastanti: il nuovo Titolo V della Carta è scritto per eliminare ogni competenza delle Regioni in fatto di porti, aeroporti, autostrade e infrastrutture per l’energia di interesse nazionale: e spetta ai governi stabilire quali lo siano.

Così il disegno si chiarisce perfettamente: lo scopo ultimo della riforma è umiliare e depotenziare la partecipazione democratica. Sarà il Presidente del Consiglio e il suo Governo, quali che essi siano oggi e domani, a decidere dove fare un inceneritore o un aeroporto: senza possibilità di appello. È la filosofia brutale dello Sblocca Italia: mani libere per il cemento e bavaglio alle comunità locali. Il motto dello Sblocca Italia è lo stesso della Legge Obiettivo di Berlusconi: «Padroni in casa propria». Un motto dalla genealogia dirigistica che ben riassumeva l’idea di poter disporre del territorio come padroni.

Ebbene, nel Mulino del Po di Riccardo Bacchelli un personaggio dice che la sua idea di buongoverno è che «tutti siano padroni in casa propria e uno solo comandi in piazza». Non è questa la nostra idea di democrazia: è a tutto questo che, il 4 dicembre, diremo NO.

Povertà, l’Italia ha rinunciato a combatterla

di Giuseppe De Marzo

Stato sociale. Nella giornata mondiale per l’eliminazione della miseria, gli ultimi dati registrano nel Paese una situazione in netto peggioramento. Dopo 8 anni di tagli al welfare, un ddl che stanzia poco più di 1 mld invece dei 18 necessari
Domani, 17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre peggio. Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una vera e propria emergenza sociale e democratica. «Un sistema di protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà», queste le parole pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016 sulla situazione del Paese.
Disuguaglianze e povertà aumentano, nonostante la crescita economica. I dati sono drammatici ed al tempo stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna, in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a rischio povertà, in particolar modo al sud; altissimo il numero della povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342, a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce verso l’alto. Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già residenti. Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne.
Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi.
Questo spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non studiano ed hanno smesso di cercare lavoro. Nel 2015 erano oltre 2,3 milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto al 2014 (-2,7%). A conferma di una situazione che vede i giovani del nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per chi ha condizioni di partenza migliori.
Il nostro sistema di protezione sociale è sottofinanziato ed inadeguato. L’Istat fa l’esempio di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in grado di evitare o contenere l’aumento della povertà. Il rapporto dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di risorse, ma di priorità scelte dalla politica. Dal rapporto emerge infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. L’Irlanda è il Paese europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano.
Questo stato di cose spiega perché anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà, anzi il divario come abbiamo visto aumenta. Così come è stato ampiamente dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito pubblico e spesa pubblica. La nostra spesa sociale è tra le più basse d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che non possiamo più permetterci. Universalismo selettivo, darwinismo sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della Dignità.
L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel), assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un reddito di Dignità. Per ultimo il Ddl povertà, che stanzia la miseria di poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità.
* Campagna Miseria Ladra, Libera-Gruppo Abele

mercoledì 12 ottobre 2016

Combinando

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Nel 1274, alla fine di un lungo eremitaggio sul Picco di Rana, nell’isola di Maiorca, Ramon Llull concepisce — per rivelazione divina, dice — l’idea di una grande opera che diventa cuore e obiettivo della sua vita: la creazione di un complesso sistema che chiama la sua «Arte», ovvero la Ars Magna. L’«Arte Grande» di Llull è uno strano e complesso sistema in bilico fra metafisica e logica, espresso in forma di tavole, grafici e cerchi mobili di carta che si possono ruotare e sovrapporre per generare combinazioni arbitrarie di concetti elementari fondamentali. Con questo sistema, Ramon Llull intendeva mettere ordine nel mondo e convertire ebrei e musulmani al cristianesimo.
Questi obiettivi, direi, non li ha raggiunti. Ma l’influenza del suo strano sistema è stata vastissima. Giordano Bruno e Montaigne, due fra i pensatori alle radici della modernità, hanno preso ispirazione da lui. Ma è stato sopratutto Leibniz a cogliere il nocciolo dell’Arte Grande di Llull, ripulirla da aspetti medievali e
cercare di trarne una lingua razionale universale, ribattezzandola «arte combinatoria», con l’obiettivo di tradurre l’intera razionalità in calcolo. Un’applicazione
diretta di questa idea è la prima macchina per calcolare ideata da Gottfried Wilhelm Leibniz, progenitrice riconosciuta di tutti i computer odierni. Ma la stessa idea è alla base degli sviluppi moderni della logica, da Friedrich Ludwig Gottlob Frege al positivismo logico, pensata come grammatica universale della razionalità.
L’Arte di Llull è radice profonda di non piccola parte del pensiero e della tecnologia moderna, e fa del grande intellettuale catalano una delle voci più originali e influenti del Medioevo europeo. Uno strumento tecnico centrale nella fisica di cui mi occupo, solo per fare un esempio marginale, è dato dai grafi: immagini che codificano il modo in cui un certo numero di elementi sono connessi fra loro; i grafi sono stati inventati da Ramon Llull.
Alla radice della strana potenza dell’arte combinatoria c’è un fatto semplice. Lo racconta bene una famosa leggenda nell’epica Il libro dei Re di Ferdowsi, il massimo poeta persiano. Il sapiente che inventò il gioco degli scacchi, un uomo chiamato Sissa ibn Dahir, ne fece dono a un grande re indiano. Il re, ammirato e grato, chiede al sapiente come può ricompensarlo, e il sapiente risponde: «Dammi un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza, e così via raddoppiando fino all’ultima casella della scacchiera».
Il re è stupito da tanta modestia e ordina subito di esaudire la richiesta. Ma qual è il suo stupore quando i suoi attendenti vengono a riferirgli che tutti i granai del regno non bastano a soddisfare quello che chiede il sapiente! Il conto è presto fatto: solo per l’ultima casella, che è la sessantaquattresima, serve un numero di chicchi pari a due moltiplicato 64 volte per se stesso, e questo fa 18 miliardi di miliardi di chicchi. Se un chicco pesa un grammo, sono diecimila miliardi di tonnellate di grano. E solo per l’ultima casella! Dante, nel XXVIII canto del Paradiso usa proprio questa leggenda per dire «molti molti»: «Ed eran tante, che ’l numero loro/ più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla».
Che cosa significa il fatto che da cose tanto piccole possa nascere un numero tanto grande? Significa una cosa semplice: il numero di combinazioni è generalmente molto più grande di quanto immaginiamo istintivamente. Combinando poche cose semplici, si può ottenere un’inaspettata vastità di cose, e queste possono essere arbitrariamente varie e complicate. Non è solo il numero delle combinazioni a stupirci: è anche la loro varietà.
Pensate alla natura intorno a noi. La fisica ci ha fatto comprendere che tutto ciò che vediamo non è generato che da una ventina scarsa di particelle che interagiscono attraverso poche forze elementari. I pochi tasselli di questo semplice Lego producono foreste e montagne, cieli stellati e gli occhi delle ragazze.
Ma lo spazio di ciò che può esistere è ancora più grande del già sterminato spazio di ciò che esiste. Pensate alle proteine che formano la struttura di tutti gli
esseri viventi terrestri. Una proteina è più o meno una sequenza di alcune decine di aminoacidi. Gli aminoacidi sono una ventina. Ci viene subito in mente di produrre tutte le possibili proteine e studiarle: questo ci permetterebbe di capire tutte le possibili strutture della materia vivente, perfino di anticipare l’evoluzione della vita terrestre... Ma c’è un problema: il conto è presto fatto e le combinazioni possibili di una ventina di aminoacidi in catene di qualche decina di elementi sono talmente numerose che anche se riuscissimo a produrre una proteina diversa ogni secondo, l’intera vita dell’universo non sarebbe sufficiente per produrre che una piccolissima parte di tutte le proteine possibili... In altre parole, lo spazio delle possibili strutture della vita è ancora quasi del tutto inesplorato: non solo da noi ma anche dalla natura.
La prima intuizione sull’immensità dello spazio aperto dalla complessità l’aveva già avuta Democrito, 24 secoli fa. Democrito aveva compreso che l’intera natura poteva essere costituita solo da atomi e, scriveva, sono le combinazioni degli atomi a generare la complessità della natura «così come le combinazioni delle poche lettere dell’alfabeto possono generare commedie o tragedie, poemi epici o storie buffe».
La nostra intuizione arretra di fronte agli immensi numeri e alla sterminata varietà generati dalle combinazioni. Come il re della storia persiana, ci sembra
impossibile che combinando cose semplici possano nascere tante cose e tanto complesse. Per questo, io credo, ci sembra così inconcepibile che cose complesse come la vita o il nostro stesso pensiero possano emergere da cose semplici: perché istintivamente sottovalutiamo le cose semplici. Non le crediamo capaci di tanto. Numeri generati da chicchi di grano e una scacchiera non possono certo svuotare i granai del regno! E invece sì.
Il nostro cervello contiene circa cento miliardi di neuroni, ciascuno di questi è legato ad altri neuroni da congiunzioni, le sinapsi. Ogni neurone ha alcune migliaia di sinapsi. Quindi ciascuno di noi ha in testa centinaia di migliaia di miliardi di sinapsi. Ma non è questo il numero che determina lo spazio possibile dei nostri pensieri. Lo spazio dei nostri pensieri è (almeno) lo spazio delle combinazioni possibili in cui ciascuna sinapsi è attiva o no. E questo numero è due moltiplicato per se stesso non 64 volte come nella fiaba del sapiente persiano, bensì centinaia di migliaia di miliardi di volte. Il numero risultante è un numero stratosferico, per scriverlo servirebbero migliaia di miliardi di cifre «tante, che ’l numero loro,/ molto più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla»! Neanche la cosmologia più scatenata tratta con numeri così grandi.
Questo numero quantifica l’immenso spazio del pensabile, di cui noi non abbiamo esplorato che un angolino infinitesimo. È lo spazio sterminato aperto dalle combinazioni, dall’arte del combinare, l’Ars Magna, l’Arte Grande, di Ramon Llull.

- Carlo Rovelli - Pubblicato su La Lettura/Corriere del 9 Ottobre 2016 -