venerdì 30 dicembre 2016

Da un giorno all'altro di Andrea Baranes, Sbilanciamoci

       


di Andrea Baranes
 
"Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell'affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand". Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, a Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016. Quindi il problema era la speculazione. Era esterno. La banca in sé era solida. E parliamo non di decenni fa, ma dell'inizio di quest'anno. Una banca risanata, che dopo pochi mesi si trova sull'orlo dell'abisso. Incredibile che in così poco tempo la situazione sia precipitata in questo modo, vero? Le cose devono essere completamente cambiate nel "bel brand" di Monte Paschi se il Parlamento autorizza il governo a stanziare fino a 20 miliardi di scudo. Cambiate da un giorno all'altro.
Autorizzazione arrivata in un attimo. Prima dalla Camera, e subito dopo dal Senato. Ma non ci hanno ripetuto fino alla nausea che bisognava cambiare la Costituzione per renderla più "efficiente ed efficace"? Che il bicameralismo perfetto rallentava troppo i processi? Che nel 2016 non siamo più negli anni '40 del secolo scorso, che i tempi sono cambiati, e oggi i tempi sono quelli dei mercati, non della democrazia? Strano però che, quando serva, ecco che il governo chiede l'autorizzazione in Parlamento, il Parlamento autorizza, il governo procede. Così. Da un giorno all'altro.
 
E cosa viene autorizzata? La possibilità di contrarre un maggiore debito fino a 20 miliardi di euro per correre al capezzale delle banche. Ma come? Ma non sono anni che ossessivamente ci viene ripetuto, ogni giorno, che dobbiamo accettare sacrifici, che c'è l'austerità, che dobbiamo tagliare la spesa pubblica, che "è l'Europa che ce lo chiede", che i vincoli di bilancio ci obbligano a tagliare ovunque, che abbiamo il pareggio di bilancio in Costituzione, che...? E hop, se serve il Parlamento autorizza il governo a fare 20 miliardi di debito in più. Cambia tutto. Da un giorno all'altro.
 
Come mostra l'ultimo rapporto di Sbilanciamoci!, investire seriamente in politiche culturali significherebbe una maggiore spesa di 500 milioni. Ma non ci sono 500 milioni per la cultura.
Integrare il fondo nazionale per le politiche sociali e fornire risorse per il sistema di servizi pubblici per l'infanzia si potrebbe fare con meno di un miliardo l'anno. Ma non c'è un miliardo per i servizi pubblici per l'infanzia o per le politiche sociali.
Un investimento di tre miliardi l'anno nella scuola, l'università e la ricerca permetterebbe di cambiare radicalmente l'offerta formativa in Italia. Ma non ci sono tre miliardi per l'istruzione e la ricerca.
Interventi di prevenzione dei rischi sismico e idrogeologico significherebbero maggiori investimenti per circa tre miliardi. Ma non ci sono tre miliardi per la tutela del territorio. Però 20 miliardi di scudo per salvare le banche si trovano senza problemi. Da un giorno all'altro.
 
Il nuovo scudo salva-banche potrebbe intervenire anche per rafforzamento patrimoniale, ovvero intervento diretto nelle ricapitalizzazioni. Ma non sono anni che ci ripetono che un tale intervento è un tabù assoluto? Che la strada verso un futuro radioso passa inevitabilmente dalle privatizzazioni? Poco importa se in passato è stato privatizzato il 100% delle banche italiane - una cosa che nemmeno la Thatcher in Gran Bretagna aveva fatto - e i risultati sono oggi questi. Poco importa se le privatizzazioni non hanno mai portato a una diminuzione del debito pubblico. Poco importa se le privatizzazioni in Italia si chiamano Telecom, Alitalia o Ilva, e sono finite con (s)vendita a gruppi stranieri o disastri industriali. Non si può fare. Però quando la situazione è disperata le cose cambiano, e la toppa pubblica che arriva a chiudere le perdite private diventa fattibilissima. Anni di mantra sulle privatizzazioni spazzati via in un attimo. Da un giorno all'altro.
 
Evidentemente le verità assolute non sono cosi assolute, ma si possono rimettere in discussione. Meccanismi che da anni ci sono presentati come oggettivi e immutabili, a partire dal funzionamento dei mercati e dell'economia, sono in realtà frutto di precise scelte e decisioni politiche, se non ideologiche, e come tali possono essere rimesse in discussione. Visti i disastri sociali, ambientali ed economici che stiamo vivendo, forse sarebbe proprio il caso di rimetterle in discussione. I media riportano che la somma per mettere al sicuro le banche sarebbe superiore ai 50 miliardi, ben lontana dai 20 stanziati mercoledì. Ma il punto non è quanti accantonamenti servano per coprire le svalutazioni sui crediti nei bilanci delle banche. Il punto è non aspettare la prossima tempesta, ma iniziare a cambiare rotta. Da subito. Da un giorno all'altro.

sabato 24 dicembre 2016

L’ultimo Marx, di Alfio Neri, Carmillaonline

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Marcello Musto, L’ultimo Marx. 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, 2016.

Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava.
Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti.
La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera.
La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare.
Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste certezza dogmatica dei suoi peggiori seguaci.
Diffidò sempre delle dottrine tascabili sfornate dai suoi seguaci più ottusi.
Non recitò mai la parte del profeta barbuto che indica il sol dell’avvenire.
Dalle lettere si vede molto bene che non si fidava di parecchia gente; spesso gli stessi che, più avanti, avrebbero fatto del marxismo il loro mestiere.
Di Kautsky pensava che fosse una “mediocrità”1. Il suo giudizio sul futuro massimo dirigente della socialdemocrazia tedesca mostra il suo enorme intuito.
La leggenda che, alla fine della sua vita, il vecchio ex-tabagista avesse soddisfatto la propria curiosità intellettuale è falsa. Marx continuò a studiare e a proporre soluzioni nuove fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle opere complete stanno per essere pubblicati gli ultimi duecento quaderni.
Il lavoro filologico ha riportato alla luce gli appunti personali di questi anni. Da questi materiali emerge un autore diverso da quello consueto. Il profilo intellettuale appare completamente nuovo.
I nuovi documenti e l’implosione dell’URSS hanno liberato Marx dalla necessità di interpretarlo alla luce della ragion di stato e del dogmatismo dottrinario.
Il rinnovato interesse sulla sua figura e il nuovo materiale fanno pensare che la reinterpretazione della sua opera sia destinata a continuare. Il punto di svolta ermeneutico, per Marcello Musto, inizia con la rilettura della parte terminale della sua opera.
In questa sede non bisogna adagiarsi sull’elegia.
La dignità della sua morte ricorda le trame di un racconto ottocentesco in cui le tragedie personali si intrecciano nelle grandi tempeste della storia moderna.
Tuttavia, al di là della questione umana, leggere la storia dell’ultimo Marx come il racconto storico di un uomo dalla vita romanzesca, non ha molto senso.
Per quanto si possa perdonare chi legge l’ultimo Marx con le lenti dell’analitica della finitudine umana, non è lecito proporre la vicenda intellettuale del vecchio Marx nell’ottica di un’estetica del tramonto. Il materiale mostra che il vecchio scorbutico (era davvero molto scorbutico) continua a combattere e studiare.
detesto-dirveloNei suoi ultimi due anni, Marx studia antropologia, non passa il tempo a leggere romanzetti rosa.
La nascita di un movimento socialista in Russia lo pone di fronte a nuove importanti questioni. Vera Zasulič (fuggita dopo aver tentato di assassinare lo Zar) gli chiede se, nella sua opinione, sia possibile arrivare al socialismo senza passare per una fase di egemonia borghese.
Per dare una risposta alla questione inizia a studiare in profondità l’argomento ed entra in campi di studio che fino ad allora aveva trascurato.
I manoscritti inediti e le bozze delle lettere (inviate e non inviate) indicano che non era per niente soddisfatto delle risposte teoriche che aveva già formulato. Si accorge che la comunità rurale slava poteva essere lo strumento adeguato per passare dal feudalesimo al socialismo senza passare per il capitalismo2.
 
Marx non pubblica nulla di rilevante ma lo svolgimento dei materiali che elabora è antitetico a quello del marxismo storico.
Il percorso dialettico del suo pensiero gli evita di avvicinarsi alla questione in modo dottrinario e gli fa vedere subito cose che i suoi futuri seguaci non sarebbero mai stati capaci di comprendere.
Del resto è evidente che non si fidava di quelli che dicevano di ispirarsi ai suoi scritti. Sconfessa Hyndman perché era riformista3, ma le sue parole per i sedicenti discepoli ‘ortodossi’ non erano poi tanto diverse.
Di fronte a chi si dichiarava suo seguace, rispondeva con ironia “quel che è certo è che io non sono marxista”4.
Il punto di partenza per rileggere Marx sono queste sue ultime parole.
Adesso è finalmente possibile fare un bilancio perché tutta la sua opera sta diventando finalmente accessibile5.
Le nuove interpretazioni di Marx non possono che iniziare da qui, dalle sue ultime ricerche.
Nessuna elegia funebre, nessun interesse antiquario, nessuna estetica del tramonto, la posta in gioco è sempre la trasformazione del mondo.

  1. Cfr. p. 46. Nell’epistolario Marx definisce Kautsky saccente, sputasentenze e di vedute ristrette; per quanto diligente per Marx rimane un mediocre. Engels definisce Kautsky un pedante, un dottrinario e un cavillatore nato. Come lato positivo trova che abbia un gran talento nel bere. 
  2. Cfr. pp. 49-75. 
  3. Cfr. pp. 84-87. 
  4. Cfr. p. 25. 
  5. Fra le opere che possono essere un nuovo punto di partenza critico segnalo il notevole E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, 2009 (dimostra come l’opera di Marx sia costitutivamente aperta) e il pionieristico M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981

venerdì 23 dicembre 2016

Perché è tutto nelle mani di ex Dc e margheritini di Michele Prospero, Left

sergio-mattarella-de-mita-300x214Quando Rutelli uscì dal Pd, perché da lui percepito come un soggetto ormai troppo sbilanciato a sinistra, non sospettava l’inversione di rotta radicale che ben presto avrebbe trasformato il Nazareno in un luogo adatto per il raduno dei vecchi esemplari del moderatismo (non solo) cattolico. Con un Rutelli allarmato sulle insostenibili derive neo-socialdemocratiche del Pd, erano schierati Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, Ermete Realacci, Roberto Giachetti e Filippo Sensi, l’uomo comunicazione di Renzi. Non seguirono però, come invece fece Linda Lanzillotta, il loro capo nella scissione che, del resto, si è sgonfiata subito, senza lasciare traccia alcuna. Rimasero nel partito, un po’ in solitudine e confidando in tempi migliori. Lo fecero senza prevedere il ribaltamento repentino che si è poi verificato. C’è un proverbio arabo che dice che, quando la carovana svolta, il cammello zoppo passa in testa. E così è accaduto per il Pd. Con la brusca giravolta, imposta dalla “non-vittoria” del 2013, a guidare la carovana sono passate proprio le antiche retrovie sopravvissute alla fuga. Da sparuti leader di contorno della vecchia corrente rutelliana data in ritirata, Renzi prima e Gentiloni dopo si sono tramutati in politici resuscitati, calati in un ruolo di prima grandezza. E se molti sono stati i transfughi moderati usciti con gran clamore dal Pd (tipo Ichino, con ragioni simili a quelle di Rutelli), molti, a questo punto, sono quelli rientrati, tornati a missione compiuta: l’azzoppamento elettorale del segretario, di Bersani. Una sorte analoga ha benedetto anche le carriere di sodali personali di Montezemolo, candidati alle elezioni in aperta polemica contro il Pd bersaniano, e poi chiamati, dal nuovo Pd, alla conduzione dell’Unità.
Se il Pd appare oggi come un grigio arcipelago a dominanza post-democristiana lo si deve anche all’abilità di manovra di Franceschini, capace di stare in maggioranza con tutti i segretari – naturalmente dopo essere stato protagonista di congiure o di esemplari esecuzioni di ciascuno dei capi andati alla rovina. Alla guida dei gruppi parlamentari di camera e senato ha piazzato due suoi colonnelli, come Luigi Zanda e Ettore Rosato. E tra i parlamentari, quelli ad elevata fedeltà verso il capo cordata Franceschini, si contano a decine. Sono la fazione più numerosa a Montecitorio e a Palazzo Madama. La sua potenza di fuoco straordinaria è stata conquistata non tanto in virtù della presenza reale nei territori, e contata quindi nell’effettivo seguito di massa, ma lucrata soprattutto grazie alle laute ricompense piovute sui petali della Margherita dopo gli spostamenti, i trabocchetti, i soccorsi e i tradimenti. Nessuno tra i democratici, più di Franceschini, è abile nel farsi ben remunerare sia per aver favorito le scalate al potere sia per aver contribuito alle decapitazioni di teste cadute in disgrazia. Quelli che, dal ceppo post-comunista, hanno cercato di emularlo, rinunciando a un pensiero autonomo e inseguendo incarichi e spazi, hanno accumulato solo briciole di potere – che peraltro pare arduo conservare nelle prossime spartizioni per la definizione delle candidature. Molti dei parlamentari in origine bersaniana hanno trovato rifugio nelle schiere troppo affollate dei giovani turchi che hanno offerto ospitalità a tutti i cambi veloci di collocazione tra le correnti. Il loro tentativo di gestire una sorta di doroteismo in salsa post-comunista non ha dato però i frutti sperati. E i giovani turchi, che esibivano in pubblico il plastico di Botteghe Oscure, hanno smarrito idealità senza acquisire la mano sicura di chi sa come comportarsi con il capo incorso nel suo primo incidente di percorso.
Se i post-democristiani giunti ai vertici del Pd e alla guida di tutte le istituzioni, nelle loro manovre e infinite lotte di potenza, mostrano la spregiudicatezza dei veri polli di combattimento, che colpiscono duro e sono disposti a tutto per emergere, i dirigenti di provenienza post-comunista spesso si rivelano dei polli e basta. Senza alcuna propensione al risolutivo corpo a corpo, si sono lasciati sfilare il controllo del partito. Al mite Cuperlo erano affidate le residue speranze di non vedere naufragare per sempre quel lontano mondo colorato di rosso. E invece, spinto dal cattivo vento del nord, è stato attratto nell’orbita del capo proprio alla vigilia di una clamorosa valanga popolare antirenziana. Che non turba i sopravvissuti militanti delle zone rosse, pronti, in nome del carisma del partito, a rimanere agli ordini di qualsiasi capo, anche di colui il quale strapazza identità, storia e persino il ricordo di Partito. Molti dei dirigenti di scuola post-comunista sembrano essere passati troppo in fretta dalla sindrome di Mosca alla sindrome di Stoccolma. E così, agli ordini del loro aguzzino, si inchinano proprio Anna Finocchiaro, il cui carrello della spesa con scorta all’Ikea è stato a lungo il simbolo del negativo sbandierato da Renzi (che lei chiamò «un miserabile che mai diventerà statista») in lotta contro la vecchia politica, o Luciano Violante che fu impallinato proprio dalle truppe gigliate nella sua corsa per un posto alla Consulta.
Già ridotti all’obbedienza quasi completa gli ex segretari Fassino o Veltroni, da sempre inquadrati come militanti organici del renzismo, anche quando aggredisce il lavoro e la Costituzione, i post-democristiani ottengo i servigi dei politici alla Padoan, alla Poletti, alla Minniti o De Vincentis, promossi alla conduzione di dicasteri solo perché non sfiorati da alcuna velleità di richiamare il senso mobilitante di una grande storia. E così tutti quelli che vengono dal Pci, e hanno rifiutato di prender parte all’ultima battaglia simbolica dichiarata da D’Alema e Bersani nel referendum di dicembre, navigano assopiti nell’onda tranquilla della nuova balena bianca. Riveriscono il comando assoluto di Boschi, Lotti, Carrai, Carbone, Righetti, Delrio, Guerini, Fioroni. Tutti di scuola democristiana e qualcuno peraltro con provenienza delle correnti di destra. Aspettavano di incrociare i seguaci di Dossetti e hanno incontrato i nipotini di Andreotti. Che la sensazione di disagio non sia loro troppo lieve per chi ha contribuito alla rimozione di una nobile tradizione di lotta.

martedì 20 dicembre 2016

SE QUESTO E' UN LEADER di Ciuenlai

 
Un uomo politico si dovrebbe giudicare dai risultati. Prendiamone uno a caso ; Renzi e facciamogli un piccolo bilancio di tre anni di strapotere:
1) Il piatto forte del programma, la ragione per cui è nato, le Controriforme Costituzionali, sono state sonoramente bocciate dagli elettori;
2) Il principale contorno, la più bella e invidiata legge elettorale del mondo “l'Italicum”, sarà bocciata dalla Consulta per evidenti motivi di incostituzionalità. Legge che è stata immediatamente ripudiata, a proposito di facce di bronzo;
3) La controriforma della Pubblica Amministrazione, nonostante sia stata scopiazzata dalle norme delle leggi Brunetta e Bassanini, è stata bocciata dalla Consulta perchè presentava 8 (leggasi otto) vizi di costituzionalità:
4) La legge sul riordino delle banche popolari è stata bocciata dal Consiglio di Stato;
5) Ha perso tre elezioni su 4 con un trend sempre più in discesa. (vinto bene le europee, perso poco le Regionali, perso male le comunali, tracollo al referendum):
6) il famoso job act è sotto attacco per effetto dei 3 milioni di firme della Cgil che portano dritta la legge al referendum;
7) Gli indici di gradimento sono crollati dal 64 al 25% è il pd sta ormai stabilmente sotto il 30%;
8) I grandi amici del sud (De Luca) e del nord (Sala) sono in grande difficoltà;
9) Il partito è ridotto ad una sigla elettorale e nei territori comandano i capi bastone;
10) I poteri forti e i media lo stanno piano, piano scaricando,;
E mi fermo qui. Domanda Cosa deve ancora fare Renzi per fare quello che aveva promesso di fare e cioè abbandonare la scena politica? Diventare un comunista che mangia I bambini?
P.S. La relazione di ieri all'assemblea nazionale è stata, come ha detto qualcuno, un altro esempio da mettere in bacheca per dimostrare com'è ridotta la politica. Nessuna analisi. Un'ora di slogan, battutine e citazioncine suggerite per dire che bisogna ripristinare il Mattarellum. insomma,Il Pd ha perso, ma non sa perchè. Vuole saperlo? Cambi segretario!

Caro ministro, sicuramente lei non soffrirà a non averci più tra i piedi. Il nostro Paese, di certo sì, di Elisa Marchetti

POLETTI
Caro ministro Poletti, nel corso degli ultimi anni i giovani di questo Paese si sono sentiti dire davvero di tutto: da bamboccioni a choosy la lista è lunga e deprimente. Lei stesso, appena un anno fa, ha detto a noi universitari che i presunti tempi lunghi per il conseguimento delle nostre lauree sono il vero problema del nostro sistema. 
Ma la delusione è una fase che abbiamo ampiamente superato. Questa ha fatto spazio alla disillusione di chi se ne va e non torna più, alla rabbia di chi resta e non può studiare quello che vorrebbe o addirittura non può permettersi di studiare, di chi non trova un'occupazione e di chi trova un lavoro che niente ha a che fare con gli studi che tanto gli sono costati.
Sì, la rabbia. Quella che si è espressa anche nel sonoro No al Referendum sulla riforma costituzionale. In quel sonoro No che ha bocciato la riforma, ma che soprattutto ha bocciato una retorica che voleva la riforma costituzionale come lo strumento per risolvere i problemi del nostro Paese.
Caro ministro, questo segnale avrebbe dovuto far capire qualcosa a chi governa, se non nelle politiche, almeno nell'atteggiamento. Per esempio, avrebbe potuto fare a meno di auspicare le elezioni anticipate per evitare i referendum sul Jobs Act promossi dalla Cgil.
Immagino sappia benissimo che molti giovani e studenti voterebbero Sì, perché gli stessi giovani e studenti sono gli stessi che il 25 ottobre di due anni fa sono scesi in piazza contro questa legge e sono gli stessi che di questa legge stanno subendo gli effetti negativi. Eppure lei, pur di non affrontare il nostro giudizio, preferirebbe non farci esprimere.
Lei dice di conoscere "gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". Una delle tante esternazioni fuori luogo che ci siamo abituati a sentire negli ultimi tempi. Se non fosse che lei ricopre la carica di Ministro della Repubblica. Uno degli incarichi pubblici più importanti del nostro paese.
E uno dei dicasteri più importanti, almeno stando, per rimanere in tema, all'articolo 1 della Costituzione: quello del Lavoro. Il Lavoro, quello che manca ai giovani, specie nel Mezzogiorno. Il Lavoro, quel miraggio che veicola sempre più le scelte dei nostri studi. Il Lavoro, quello sempre più precario, considerati gli ultimi dati Inps sull'aumento dei voucher e dei licenziamenti disciplinari e sul calo dei contratti a tempo indeterminato.
Per questo non dovrebbe stupirla questa lettera: il peso della crisi lo stiamo pagando e lo pagheremo noi con una spending review che nell'ultimo decennio si è tradotta in tagli a scuola e università, con la disoccupazione, con il lavoretto in nero necessario per mantenerci gli studi, con quei voucher su cui vorrebbe impedirci di votare, con l'insicurezza sociale.
Questa lettera è una richiesta di rispetto. Finché nel nostro Paese non troveremo le opportunità all'altezza delle nostre aspirazioni, nessuno potrà permettersi di giudicare chi andrà a realizzarle altrove. Non siamo noi ad aver creato le condizioni di questo esodo, non siamo noi a dover trovare le risposte. Chi cerca la felicità fuori dall'Italia e vorrebbe tornare; chi resiste qui e chiede un Paese migliore; chi non riesce neanche più ad immaginarsi un futuro.
Tutti loro, tutti noi, abbiamo bisogno di risposte che che partano dal contrasto alle disuguaglianze: dalla lotta all'abbandono scolastico, all'affermazione del diritto allo studio scolastico e universitario, a un mondo del lavoro che sappia valorizzare conoscenze e competenze, in cui la parola "diritti" prenda il posto di "sfruttamento". Caro ministro, sicuramente lei non soffrirà a non averci più tra i piedi. Il nostro Paese, di certo sì.

Poletti non può rimanere ministro: facciamolo sloggiare noi di Stefano Feltri

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Lo so che occuparsi di politica è una fatica, che a vedere Giuliano Poletti ancora ministro dopo un referendum che – come gradito effetto collaterale – doveva abbattere il governo Renzi si ha l’ennesima conferma che siamo nel Paese del Gattopardo.
E so anche che molti di noi non hanno davvero più la forza di indignarsi per le parole perché l’indignazione è già consumata dai fatti, da governi che pensano ai pensionati invece che ai giovani, che liberalizzano i voucher togliendo persino la prospettiva di un contratto a tempo indeterminato. Indebolire l’articolo 18 era anche lecito, ma solo in una prospettiva di contratto unico per tutti. Invece la precarietà è rimasta e il governo ha speso miliardi per fingere un boom dell’occupazione pagato carissimo dai contribuenti: 60.000 euro per ogni nuovo posto di lavoro aggiuntivo rispetto all’anno precedente, secondo i calcoli della Cgil.
Lo so che c’è Natale e che molti di voi hanno di meglio da fare. Però Giuliano Poletti non può rimanere ministro del Lavoro di questo Paese. Se ne deve andare. Non domani, oggi. E se non lo caccia Matteo Renzi, perché deve simulare distanza da questo esecutivo teleguidato, o il nuovo premier Paolo Gentiloni, dobbiamo farlo sloggiare noi.
Smettiamola con questa idea che tocca sempre ad altri prendere l’iniziativa. Nel caso ve la foste persa, vi ricordo che cosa ha detto Giuliano Poletti ieri: “Bisogna correggere l’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei pistola. Permettetemi di contestare questa tesi”. E poi ha argomentato, da par suo, in questo modo: “Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”.
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Si è giustificato, ha detto di essersi espresso male. Io non credo. Si è espresso benissimo, con tutta la chiarezza che il suo livello culturale e il suo curriculum gli consentono. Ha detto quello che pensa. “Esprimersi male”, in casa Poletti, significa evitare l’ipocrisia di mascherare le proprie idee. Il ministro, invece, si è “espresso male” perché pensa male. E chi pensa come lui non può e non deve fare il ministro in questo Paese. Chi è convinto che i ragazzi che emigrano – per fare i ricercatori o i pizzaioli – lo facciano perché sono inquieti, troppo ambiziosi o irresponsabili non ha il diritto di incidere sulle politiche di occupazione in Italia.
In assenza di elezioni competitive, non ci sono molti modi per fermare Poletti o il partito che lo appoggia, il Pd. L’unico è farsi sentire. Già in altre fasi della storia repubblicana forti ondate di indignazione hanno spinto la politica a correggersi, penso per esempio al decreto “salvaladri” e al popolo dei Fax. Siamo pur sempre una democrazia, se centinaia di migliaia o milioni di persone considerano (con buoni argomenti) Poletti inadeguato a fare il ministro, qualcuno dovrà ascoltarci.
Scrivetelo nei vostri profili Faceboook, su Twitter: #PolettiVattene.
E mandate una mail al Ministero del Lavoro e a palazzo Chigi, mettendo in copia il Fatto Quotidiano (segreteria@ilfattoquotidiano.it). Potere usare questi indirizzi: ufficiostampa@lavoro.gov.it ; presidente@pec.governo.it o altri che trovate sul web. Noi pubblicheremo i vostri messaggi sul giornale.
Bisogna insistere. Finché Poletti non si dimette.

venerdì 16 dicembre 2016

Le macerie e la cartapesta di Alfredo Morganti


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I quotidiani oggi raccontano un disastro. Il PD renziano è in briciole, e nemmeno un congresso lo salverà. La maggioranza non gode nemmeno della fiducia reale di chi ne fa parte. Il clima è da fine impero, da barbari antisistema alle porte. Alle porte c’è pure il referendum sul jobs act, che potrebbe essere il colpo di maglio finale sul renzismo. La legge elettorale, pessima e mai usata pur essendo, diceva Lui, la “più bella del mondo”, dovrà essere cancellata prima del 24 gennaio, perché nel caso ci penserà la Consulta. È il degno e coerente finale di tre anni tutti giocati sulla cartapesta. Perché non è vero che le macerie le ha prodotte il No al referendum boschiano. Le macerie già c’erano, e si accumulavano, ed erano solo nascoste da scenari e sfondi finti, abborracciati, tirati su in fretta e furia da una cooperativa di geni assoluti della comunicazione asserragliati a Palazzo Chigi e guidati, recentemente, da un guru americano costosissimo.
Le macerie sono testimoniate da un Paese diviso, privo di coesione, diseguale, che viene da dieci anni di crisi e da altri dieci almeno di politiche che hanno depotenziato l’apparato amministrativo, ridotto se non cancellato i servizi pubblici, peggiorato scuola e sanità, e rincorso il mito del ‘privato è bello’. Oggi si distribuiscono milioni di voucher e si ingrassa la precarietà non per caso, ma per ragioni storiche, genetiche, ventennali. Dinanzi a questo sfacelo sociale, invece di porre concreto rimedio, abbiamo alzato scenari finti e realizzato aiuole coprenti di piante ornamentali, come fece Berlusconi a Pratica di Mare ai suoi esordi. Negli ultimi tre anni c’è stata persino una recrudescenza, con una pioggia di bonus e scarpe destre a creare uno spettacolo pirotecnico per distrarre gli elettori. Le ricerche statistiche parlano tutte di un Paese che, in ampia maggioranza, teme il proprio futuro, lo vede nero. Se l’intento dell’ex premier fosse stato davvero quello di riconsegnare un’Italia migliore, be’, ha fallito sonoramente. Senza attenuanti.
Oggi è chiarissimo come le disuguaglianze non sono soltanto un danno per chi le subisce e si impoverisce, ma una catastrofe per l’intero Paese, le cui divisioni, i cui baratri, le cui ingiustizie sono la vera zavorra, altro che la Costituzione o l’articolo 18. In questo ventennio abbiamo lavorato a ingigantire l’abisso, sostenendo persino che fosse la strada giusta per diventare più moderni e più ‘competivi’. Ma è stato come dire che gli eserciti sono più forti se i generali e gli stati maggiori assistono alla battaglia da una terrazza dove si distribuiscono apericene e olivette a bordo piscina, mentre la truppa viene mandata alla carneficina armata di mazzafionde o a mani nude. È chiaro che i nemici prima o poi sfonderanno la linea e arriveranno anche sulla terrazza dei generali. È chiaro che così si perde. È chiaro che al massimo si arricchiscono in pochi, gli stessi che vanno a depositare i soldi all’estero, gli stessi che portano il lavoro dove lo sfruttamento è quasi schiavistico, gli stessi che poi ci fanno pure la morale, dicendo che siamo fannulloni e bamboccioni. Sta finendo per tutti, mi pare, anche per loro. Forse la sinistra, ovunque essa sia, qualunque volto abbia, deve fare qualcosa. Come minimo rimettersi in marcia

Ecco dove sono finiti i soldi del quantitative easing della BCE di Andrea Baranes


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Scoppia un incendio. Per fortuna arrivano i pompieri. Che però si mettono a versare sempre più acqua in una piscina piena, mentre la casa a fianco sta bruciando.
A giugno 2016 la BCE lancia l’ennesimo piano per provare a rilanciare l’economia del vecchio continente. Visto che anni passati a “stampare soldi” tramite il quantitative easing (www.nonconimieisoldi.org) non hanno dato i risultati sperati, ecco il passo ulteriore: con questi soldi acquistare non solo titoli di Stato, ma anche obbligazioni di imprese private. Corporate Europe Observatory – CEO, l’organizzazione che da anni studia e denuncia il peso delle lobby nelle decisioni europee, è andata a vedere quali siano le imprese e i settori che hanno beneficiato di tali acquisti. La ricerca appena pubblicata (corporateeurope.org) non lascia spazio a dubbi: “il risultato è inquietante, a meno che non pensiate che petrolio, auto di lusso, champagne e gioco d’azzardo siano il posto migliore in cui mettere soldi pubblici”.
In ultima analisi l’intervento della BCE è un sostegno ad alcune delle più grandi multinazionali. Le obbligazioni sono una forma di finanziamento, il cui costo segue la legge della domanda e dell’offerta: se sono in molti a volere i titoli di una determinata impresa, questa potrà offrire tassi di interesse minori. Se al contrario nessuno o quasi le vuole comprare, gli interessi che dovrà garantire l’impresa per finanziarsi salgono. Se la BCE interviene acquistando determinate obbligazioni, il soggetto corrispondente si trova quindi avvantaggiato rispetto ai concorrenti. Non parliamo di spiccioli. La BCE avrebbe investito 46 miliardi di euro a fine novembre 2016 e prevederebbe di arrivare a 125 miliardi per settembre 2017.
Dalla Shell alla Repsol, dalla Volkswagen alla BMW, troviamo alcune delle più grandi imprese dei combustibili fossili e dell’automobile. Anche dimenticandoci dello scandalo che solo pochi mesi fa ha investito la Volkswagen, nel momento in cui l’Europa sbandiera la sua politica “verde” e i suoi obiettivi contro i cambiamenti climatici, siamo certi che sostenere tali settori con decine di miliardi sia la strategia migliore per rispettare gli impegni presi? E poi multinazionali del calibro di Nestlè, Coca Cola, Unilever, Novartis, Vivendi, Veolia, Danone, Renault e chi più ne ha più ne metta.
E l’Italia? Eni, Enel, Terna, Hera, Snam, ACEA, Assicurazioni Generali, Exor (la società di casa Agnelli che controlla Fiat e Ferrari), A2A, Telecom Italia, Autostrade per l’Italia e poche altre. Non sembra esattamente l’elenco delle imprese che hanno le maggiori difficoltà ad avere accesso al credito. All’esatto opposto, sono con ogni probabilità quelle che indipendentemente dal sostegno della BCE (che nella scelta dei titoli si appoggia alle banche centrali nazionali, quindi anche a Banca d’Italia) possono già finanziarsi alle migliori condizioni.
Per l’ennesima volta regole e procedure europee cucite su misura per i gruppi industriali e finanziari di maggiore dimensione, a scapito di piccole imprese e settori più innovativi. In Italia la stretta sull’erogazione di credito – o credit crunch – per anni ha colpito pesantemente piccole imprese, famiglie, artigiani. Così come il quantitative easing ha gonfiato i mercati finanziari senza rilanciare l’economia, così il nuovo piano della BCE sembra inefficace se non controproducente. Che si guardi alla finanza pubblica o a quella privata, ciò a cui assistiamo è un gigantesco eccesso di soldi per i più forti, mentre mancano risorse per un vero rilancio di economia e occupazione e per enormi bisogni che non trovano un finanziamento. La casa europea sta bruciando, ma i pompieri gettano acqua in una piscina piena mentre lasciano divampare l’incendio.
Se come ripetono i libri di testo il compito principale della finanza, anzi il suo stesso motivo di esistere, è “l’allocazione ottimale” delle risorse nell’economia reale, stiamo quindi parlando del più macroscopico fallimento dell’era moderna. Non solo provoca crisi a ripetizione, aumenta le diseguaglianze, pretende di piegare l’intera società ai propri diktat, ma al culmine del paradosso questo sistema finanziario semplicemente non funziona e non fa l’unica cosa che dovrebbe fare. Alla faccia dei “mercati efficienti”, vero pilastro su cui poggiano le teorie economiche che hanno dominato gli ultimi decenni e dominano ancora le istituzioni europee.
Cosa sarebbe accaduto con politiche monetarie ed economiche differenti? Cosa sarebbe accaduto se le centinaia di miliardi della BCE che oggi gonfiano i mercati finanziari e sussidiano le multinazionali, fossero invece stati destinati a un piano di investimenti pubblici, alla ricerca, l’occupazione, la riconversione ecologica dell’economia? Tecnicamente non ci sarebbero problemi a farlo: invece di acquistare obbligazioni della Coca Cola o della Shell, la BCE compra titoli della Banca Europea per gli Investimenti – BEI, una banca pubblica alla quale le istituzioni europee potrebbero dare un mandato chiaro per impiegare le risorse per gli obiettivi che la stessa Europa si è data in materia di inclusione sociale, lotta alle diseguaglianze e ai cambiamenti climatici. Farlo o non farlo non è quindi questione di trattati europei – ammesso che per qualche misterioso motivo non sia possibile cambiarli – è questione di volontà politica.
Una volontà totalmente assente in un’Europa che a dispetto dei disastri attuali rimane schiacciata su una visione liberista e su politiche monetarie ed economiche fallimentari. Non ci si può allora stupire della crescita delle destre xenofobe e populiste e del concreto rischio che l’incendio porti a una disgregazione della stessa UE. L’unica cosa che stupisce è una testardaggine che rasenta il fanatismo nel vedere che a dispetto di tali disastri, le scelte di fondo non vengono in nessun modo rimesse in discussione.

mercoledì 14 dicembre 2016

Serve un Movimento Politico e Sociale per l'Alternativa

ricominciamo 

Ricominciamo dal No(i): affollata assemblea a Roma. Il documento conclusivo

Molto partecipata l’assemblea domenica 11 dicembre a Roma “Ricominciamo dal NO(i)”. Pubblichiamo il documento conclusivo.
Come promotori e partecipanti agli incontri di “politica in comune”, in occasione dell’assemblea nazionale dell’11 dicembre a Roma, riaffermiamo la necessità di far dialogare e unire tutte le forze che a sinistra hanno contribuito alla straordinaria vittoria del No alla revisione costituzionale proposta dal governo Renzi.
  Questa vittoria deve spingerci a far maturare nel nostro paese un profondo cambiamento politico, economico e sociale, che dia rappresentanza alle tante domande presenti nella società per la giustizia, la democrazia, il lavoro, i diritti sociali, la salvaguardia dell’ambiente, un’economica sostenibile. La Costituzione ora deve essere attuata compiutamente; e anzi il suo orientamento ideale rappresenta per noi l’indirizzo politico-programmatico di una nuova stagione della sinistra.
  Dopo anni di separazione tra paese e istituzioni, società e politica riteniamo si debba andare alle elezioni generali con una legge elettorale che non può non avere un impianto proporzionale, in grado di dare effettiva rappresentanza a tutti gli orientamenti e sensibilità presenti nella società italiana, oltreché in contrasto con lo schiacciamento maggioritario del sistema politico, di cui sono evidenti i danni prodotti. Starà poi a noi lavorare a costruire, con il metodo della “politica in comune”, un’alternativa politica a tutte le forze neo-liberiste, Partito democratico compreso.
  Serve una politica capace di valorizzare la dimensione democratico-partecipativa nelle comunità locali, attraverso il sostegno alle tante liste civiche che si sono misurate nelle diverse elezioni amministrative che si sono succedute, e il protagonismo sociale e culturale che si esprime in associazioni, movimenti, civismo, nei loro conflitti, nelle loro campagne. Il tutto con il decisivo contributo di una rinnovata e non autoreferenziale sinistra politica, capace di superare la frammentarietà organizzativa, la subalternità politica, le chiusure ideologiche.
  Noi vogliamo dare un contributo alla costruzione di uno spazio aperto e inclusivo, plurale e cooperativo, dove ciascuno, ciascuna possano fare la propria parte per costruire una nuova stagione di cambiamento.
  E per questo c’impegniamo a lavorare per realizzare tre obiettivi:

*   La costruzione di una proposta legata al “metodo” che deve essere alla base di quello spazio politico che intendiamo offrire. La forma è importante quanto il contenuto, le pratiche significative quanto i programmi, i comportamenti quanto i documenti. Bisogna mettere al bando derive autoreferenziali e politiciste per dar vita a forme e procedure partecipative, che incidano in modo radicalmente nuovo sul come si sta insieme, su come si decide, su come si formano nuove soggettività dal basso verso l’alto, forme e procedure non schiacciate su schieramenti, posizionamenti, assetti. Ciò significa inoltre riconoscere e valorizzare la pari dignità delle diverse forme della politica presenti a sinistra, che insieme si sono impegnate, ciascuna con un proprio ruolo, nella battaglia referendaria, e che possono allo stesso modo costruire una sinistra larga e plurale, un campo della trasformazione, in grado di misurarsi in modo innovativo con le prossime scadenze elettorali. E su questi temi c’impegniamo infine a promuovere un’assemblea nazionale entro gennaio, invitando le realtà locali a organizzare iniziative in preparazione di quest’appuntamento centrale.
*   Il contributo alla vittoria nei prossimi appuntamenti politici e sociali contro le politiche neo-liberiste attuate in questi anni. Proprio perché per noi la sinistra o è sociale o non è e la politica o è cambiamento sociale o non è, si svolgano o meno nel 2017 le elezioni politiche, chiediamo che si possano celebrare i referendum sul lavoro, su cui la Cgil ha raccolto più di tre milioni di firme. Ci impegniamo altresì a contribuire alla costituzione di Comitati per il Sì per sostenere la prossima campagna referendaria.
*   Il prosieguo del nostro percorso di “politica in comune”, attraverso un rafforzamento della comunicazione e della collaborazione tra le nostre realtà e allargando l’ambito del lavoro e delle iniziative fin qui svolte, attraverso un collegamento organico con le esperienze che si ritroveranno il prossimo 18 dicembre a Bologna, con le quali condividiamo il percorso politico e culturale, i temi del confronto e la domanda di un cambiamento radicale. Rivolgiamo pertanto ai promotori dell’iniziativa bolognese l’invito a incontrarci e continuare il nostro lavoro insieme.

IPSE DIXIT

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venerdì 2 dicembre 2016

Trump, trumpster e altro (Con una postilla politica sul populismo) di Raffaele Sciortino

trump driver«Il Comitato centrale ha deciso:
poiché il popolo non è d’accordo,
bisogna nominare un nuovo popolo»
(B. Brecht)

Ora che parte del polverone sollevato dalla vittoria di Trump si sta posando, abbozziamo un’analisi un po’ più fredda del voto e un primo bilancio politico di reazioni e prospettive.
All’immediato, lo sbalordito establishment statunitense, non potendosi cercare un altro “popolo”, sta correndo ai ripari lavorando a “normalizzare” la new entry presidenziale - grazie al personale repubblicano rispettabile che entrerà nello staff e/o affidandosi al tentacolare stato profondo - mentre la cupola finanziaria-militare coadiuvata dall’impero dei media liberal che dirige il partito democratico sta sicuramente pensando a come poter interrompere la corsa imprevista del presidente dei miserabili. Sta di fatto che la presidenza Trump non solo potrebbe innescare processi irreversibili ma, soprattutto, ha scoperchiato un profondo scontro dentro l’establishment statunitense sulle strategie interne e esterne più adatte a preservare l’impero del dollaro a fronte di una crisi sistemica da cui non si riesce a uscire. È alla luce di questo scontro che si tratta di discutere se l’opzione posta sul tavolo da Trump con buon fiuto politico, quella di una rinnovata unità nazional-popolare per rifare grande l’America, non possa paradossalmente rivelarsi un buon investimento per la cupola imperiale yankee negli svolti più duri a venire della crisi globale. Comunque sia, il passaggio politico prefigurato dalla vittoria di Trump comporta un profondo rimescolamento di carte nei rapporti di classe interni e a scala geopolitica e geoeconomica di cui si tratta di tracciare le possibili dinamiche contraddittorie. Vediamo.
Sul versante interno, Trump è il paradossale erede di Obama. Almeno per tre ordini di motivi. Primo, perché la sua vittoria è il risultato del fallimento completo del primo presidente nero della storia statunitense sul piano economico-sociale, un fallimento riassumibile nella inesorabile sequenza: no ripresa economica, no recupero di posti di lavoro decenti, no riforma sanitaria come diritto universale (bensì come costrizione all’acquisto di una assicurazione privata), raddoppio del debito pubblico pro salvataggio del mondo finanziario, inasprimento delle questioni razziali. Chi, anche e soprattutto a sinistra, ha cianciato in questi anni di recovery modello Obama (e Draghi!) contro l’austerity di marca tedesca meriterebbe il benservito (http://www.infoaut.org/index.php/blog/global-crisis/item/12203-tutti-per-la-crescita-intanto-negli-states). In secondo luogo, Trump ha ripreso la bandiera del change, va da sè, in un contesto non di speranza bensì di disperazione e/o rancore da parte dei leftbehind, quelli lasciati indietro dalla globalizzazione finanziaria e dalla digitalizzazione dell’economia, e di ampi settori di middle class a rischio declassamento, reale o percepito. Terzo, Obama ha fallito nel rivitalizzare per un rilancio dell’impero il fronte progressista, dunque ora tocca far leva, attenzione: per il medesimo obiettivo, sulla difesa “nazional-sociale” del popolo americano (http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/16523-iniziata-la-fase-b?).
È alla luce di ciò, e non astrattamente, che va fatta un’analisi “di classe” del voto uscito da quella che è stata forse la più dura e polarizzata campagna presidenziale dal ’68 (http://www.infoaut.org/index.php/blog/segnalazioni/item/17716-trump-president). Se è vero che il voto per Trump in termini assoluti non è affatto stato una valanga -anzi inferiore a scala federale a quello per H. Clinton- è altrettanto indiscutibile che ha delimitato e segnato il campo dello scontro quanto a temi e umori. Così pure, se la composizione sociale dei trumpster è trasversale, dal tradizionale elettorato repubblicano bianco/a di destra a settori importanti di working class, è evidente che sono stati questi ultimi, volgendo le spalle al partito democratico in stati decisivi, a fare la differenza unitamente alla forte astensione-disaffezione dell’elettorato femminile, giovanile e black attivato da Obama nel 2008. Il tono di fondo di questa elezione l’ha così dato una richiesta, contraddittoria quanto si vuole, di discontinuità. In particolare, non si sottolineerà mai abbastanza il fatto che proprio dall’Amerika -paese incantato di illimitate possibilità in cui macchinismo e assurdo vanno a braccetto, secondo l’allegoria straordinaria che ne fece Kafka- stia salendo dal profondo della società una richiesta di limiti da porre alla globalizzazione e all’interventismo militare imperiale. Anche se si resta, per ora, sul terreno poco impegnativo della mobilitazione elettorale.
Insomma, i voti non si contano, si pesano. Trump ha dato voce a dinamiche in atto tanto più rilevanti in quanto siamo al centro del capitalismo mondiale. L’ha saputo fare, e qui sta una chiave del suo successo, collocandosi in buona misura al di là del tradizionale schema destra/sinistra agitando al suo posto temi che rimandano alla frattura vincenti/perdenti della globalizzazione e élite/gente comune, temi peraltro affiorati anche nella campagna per la nomination democratica di Sanders ma giocati qui ancora troppo in chiave di sinistra liberal. Inutile chiedere di cogliere tutto ciò a chi si è adagiato compiaciuto sulle narrazioni dei media mainstream e ora non sa far altro che strillare al “razzista” o, udite, al “fascista” mentre avrebbe fatto meglio a rivedersi… Taxi Driver. La vittoria di Trump è un segnale di contraddizioni di classe e geopolitiche che approssimano, assai più di quel che si dava con Obama, i nodi di fondo del capitalismo statunitense e globale. Dire che essa è il prodotto colpevole dell’omologazione della “sinistra” è troppo e troppo poco al tempo stesso: troppo perché la “sinistra” occidentale è oramai strutturalmente legata al capitale imperialista (a meno di pensare ingenuamente in termini di “tradimento”) e di qui non si torna indietro; troppo poco perché per qualunque analisi seria questo è solo il punto di partenza e non d’arrivo della questione (a meno di accontentarsi del concetto di populismo come passepartout e non come qualcosa che va analizzato con cura come abbozziamo nella postilla qui sotto).
Ma il trumpismo non è solo questo (e già basterebbe). Né, quasi a ribadire ingenuamente il mito del sogno americano, si tratta dell’ennesimo outsider che ce l’ha fatta. Dietro il neo-presidente c’è uno scontro reale e importantissimo interno all’establishment statunitense. Se è un outsider, in alto le sue posizioni non sono comunque del tutto isolate e prive di sponde sia sul versante delle scelte strategico-militari sia su quello delle ricette economiche di uscita dalla crisi. Sul primo, al di là delle semplificazioni qui inevitabili, a scontrarsi sono al momento due schieramenti ben demarcati. Da un lato c’è l’alleanza tra neocons e interventisti democratici, radicata al Pentagono oltrechè al Dipartimento di Stato, che ben rappresentata da Killary Clinton ha ricevuto un inaspettato quanto sonoro schiaffone: essa puntava a proseguire e se possibile accelerare la traiettoria di scontro duro, a un tempo, con Russia e Cina a colpi di regime change, procurato caos geopolitico e nuovo contenimento in Asia Orientale. È però evidente che i tempi non sono maturi per passare a un’aggressione aperta, come peraltro ha fatto notare Brzezinski (http://www.the-american-interest.com/2016/04/17/toward-a-global-realignment/), non proprio una “colomba”. Le sconfitte statunitensi in Georgia, Ucraina e Siria, la difficoltà a rinvenire alleati disponibili a un corso più duro anti-russo e anti-cinese, la tenuta interna e internazionale di Pechino nonostante i segnali di crisi finanziaria (http://www.infoaut.org/index.php/blog/global-crisis/item/15406-crash-tutto-cinese), l’indubbia capacità strategica e tattica di Putin - tutto ciò consiglia un rinvio dello scontro che lo prepari sia all’interno che all’esterno, in particolare lavorando a separare Mosca da Pechino. È questa, grosso modo, la posizione dell’altro schieramento, di Trump e di quei pezzi di establishment che l’hanno aiutato a vincere (come si è visto dall’intervento anti-Clinton della Fbi). Certo, il rischio è qui che dando tempo agli avversari si acuiscano le difficoltà internazionali degli Usa con ricadute gravissime in termini di crisi interna, mentre non ci sono garanzie che si ricostituisca un compatto fronte occidentale (come le continue frizioni con la Germania in questi anni di presidenza Obama hanno evidenziato). La posta in palio è dunque drammatica e potrebbe portare a uno scontro aperto all’interno dell’élite.
All’incrocio con questi nodi si pone l’altro versante del problema: quale strategia di uscita economica non diciamo dalla crisi ma dal rischio declino della potenza Usa? Se all’immediato Trump non può permettersi una brusca interruzione della politica monetaria fin qui impostata dalla Federal Reserve, è però vero che anni di tassi di interesse bassissimi e ripetuti Quantitative Easing non hanno rilanciato gli investimenti e dunque occupazione “buona”, al contrario le diseguaglianze economiche e la polarizzazione sociale si sono accresciute mentre si è ingigantita una nuova bolla speculativa. Difficilissimo per Trump barcamenarsi in questo quadro (tanto più che la Fed afferisce al momento al campo a lui avverso e sembra invece intenzionata, guarda caso, ad alzare a breve i tassi di interesse). Un corso a là Reagan di dollaro forte e maggiore indebitamento, anche se per investimenti infrastrutturali piuttosto che per il riarmo, cozza, almeno, con la crescente indisponibilità di attori decisivi come la Cina, e non solo, di continuare a finanziare Washington con l’acquisto dei suoi Bond e potrebbe addirittura incentivare le tendenze oggi embrionali alla de-dollarizzazione degli scambi internazionali. Al tempo stesso, la spinta alla rilocalizzazione di parte dell’industria manifatturiera, in sé non facile e comunque dalle più che incerte ricadute occupazionali dati i livelli attuali di automazione, scatenerebbe gioco forza uno scontro economico tra blocchi regionali in competizione, oltre a minare il prestigio “imperiale” degli Stati Uniti, quel soft power fin qui rivelatosi indispensabile nel mantenere alleanze e nel fissare gli standard della globalizzazione. Una cosa sembra certa: anche per ragioni interne - Trump dovrà in qualche modo venire incontro alle richieste che provengono dalla pancia della società americana - un tale inasprimento delle tensioni economiche internazionali (altro che isolazionismo!) difficilmente potrà essere evitato.
È questo il punto cruciale. La domanda è: un corso di crescente nazionalismo economico, volto a scaricare all’esterno i costi della crisi globale in misura ancor più secca di quanto avvenuto con Obama - in particolare sui paesi Brics, Cina in testa, e su un’Europa sempre più divisa e confusa - sarà in grado di consolidare ampliare e unificare il fronte sociale interno prima delle sue possibili ricadute negative sull’economia e dunque sulle condizioni della working e della middle class in un paese già fortemente polarizzato? E prima che, per converso, si formi un fronte esterno anti-Usa? È su questo nodo, attraversato dalla variabile crisi, che si gioca la possibilità per l’èlite di canalizzare e trasformare lo scontento “populista” in mobilitazione “nazional-sociale” facendo di Trump una carta in mano ai poteri forti dell’imperialismo a stelle e strisce piuttosto che l’innesco di una crisi interna dai contorni imprevedibili. Certo, a costo di porre fine alla globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta ad oggi e di ristrutturare gli equilibri nel gotha economico mondiale, che è quanto inquieta ad oggi la cupola finanziaria e mediatica. Resta che davanti a noi abbiamo più instabilità, a tutti i livelli: la crisi globale sta voltando pagina e mostra oramai il suo lato propriamente politico, piaccia o non piaccia.
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Postilla politica sul populismo: contro una falsa alternativa
“Il noto proprio perché è noto non è conosciuto” (G.W.F. Hegel)
La vittoria di Trump - dopo la Brexit, con la crisi evidente dell’unità europea e il diffondersi in Occidente di mobilitazioni e umori anti-élite - ha suscitato due reazioni opposte e speculari nella sinistra nostrana su come leggere e rapportarsi al populismo1 tanto più che di questo sta emergendo il “lato cattivo”. Ne abbozziamo in queste tesine provvisorie una caratterizzazione ideal-tipica (nb) per poi tentare di procedere oltre la loro antitetica complementarietà. Va da sé che da entrambi i lati vengono colti aspetti reali, ma appunto solo aspetti che nella loro unilateralità nota perdono il tutto in divenire che resta non conosciuto.
° Gli uni, gli anti-populisti, liquidano la cosa come fenomeno di destra, riducibile a razzismo e nazionalismo e più o meno contiguo al fascismo, e danno sostanzialmente per persa quella parte di working class, sbrigativamente catalogata come “vecchia” composizione di classe, che va o andrà a collocarsi su quel terreno. A fronte di ciò propongono senza sostanziali ripensamenti more of the same quanto ad antidoti contro le passioni tristi emergenti: lotta per i diritti (sociali in quanto) umani, anti-razzismo moralista, globalismo “dal basso”, con l’individualismo liberal sempre nel cuore aggiornato all’altezza di un’economia della conoscenza che permetterebbe l’autodeterminazione delle intelligenze creative se solo si democratizzassero le piattaforme digitali esistenti. Di qui micro-politica e proliferazione delle identità nella lotta per il riconoscimento (da parte di chi?). Ma poiché la dimensione macro non sparisce d’incanto, prevale un sostanziale europeismo a prescindere che, chissà, con il paese della Libertà oscurato dal nuovo fascismo potrebbe financo recuperare “criticamente” -se non fosse per un inveterato anti-tedeschismo duro a morire- l’invisa Merkel tenuta a battesimo dal nobel-per-la pace Obama come novella anti-Trump (tanto più che ha già dato prova di sé come eroina del profughismo). Comunque sia, gli anti-populisti rinnovano, volenti o nolenti, la convergenza di sinistra e liberaldemocrazia in nome dei Diritti Universali (che, va da sé, un capitalismo ben temperato dal conflitto non può non concedere) propri dell’Occidente democratico (mai chiamarlo col suo nome: imperialismo) fuori dal quale non ci sono che terribili regimi autoritari. In forme nuove siamo qui all’ala sinistra della borghesia globalista già progressista, e non sarà certo una sfilza di post (postfordismo, postmoderno, postindustriale, postnazionale ecc.) a cambiare la cosa.
° Gli altri, i filo-populisti antisistemici, vedono nel fenomeno la nemesi di una sinistra che ha sposato il neoliberismo e dunque, sull’onda della sua crisi definitiva, l’aprirsi di possibilità anti-sistema di cui i populismi sovranisti sarebbero appunto la prima manifestazione. Essi, pur col rischio di essere in ritardo di fase rispetto al fenomeno dei populismi di “destra” e con la tendenza a edulcorare una realtà ben altrimenti complessa, hanno dalla loro la corretta individuazione della dinamica di fondo che lega, oggi, le istanze delle classi in senso lato sfruttate alle rivendicazioni sovraniste e nazionali come terreno di un’inedita e rinnovata lotta di classe. Ma se questo è il loro merito, fraintendono poi totalmente la natura dei soggetti sociali coinvolti in questa dinamica di resistenza facendone illusoriamente un campo di forze esterno a quei processi che hanno portato la sinistra a diventare quel che è oggi, cioè tutta interna alla logica del capitale. Questi soggetti vengono infatti accreditati di una natura anti-sistemica già data che per esplicarsi in maniera conseguente abbisognerebbe solo di una direzione adeguata. Il problema diventa qui quello di evitare l’inconseguenza del populismo, problema cui si risponde ponendosi sulla sua medesima direttrice e portando alle estreme conseguenze le rivendicazioni di sovranità nazionale, anti-europeismo, no euro, ecc. Non solo, dunque, si dà una lettura eccessivamente lineare dei processi in atto, ma ci si illude di poter giocare un ruolo (di “vera” sinistra?) che alla fin fine consiste nel porsi alla coda di settori di borghesia in via di declassamento che, credendo di agire per sé, finiscono per favorire agenti infinitamente più forti (per l’Europa: gli Usa beneficiari di una eventuale fine dell’euro).
° In realtà, per iniziare a impostare una via d’uscita dalla suddetta contrapposizione speculare, è bene non perdere di vista il fatto che l’interiorizzazione del diktat capitalista-neoliberista non vale solo per le rappresentanze politiche di sinistra ma nella fase della finanziarizzazione ascendente ha coinvolto in profondità quegli stessi soggetti che oggi, nella crisi, cercano nuove risposte al di fuori di quella sinistra senza per questo rappresentare un “fuori” rispetto ai processi di sussunzione reale, di neo-industrializzazione delle attività, di sottomissione reale e simbolica allo spettacolo integrato sub forma di capitale fittizio. Al contrario, è da questo suo essere del tutto “dentro” il capitale -a differenza del vecchio movimento operaio che manteneva una sua identità distinta da esso, un suo “fuori” relativo che ha dapprima permesso di tener viva la dialettica lotte operaie/sviluppo capitalistico ma è poi stato fagocitato dagli stessi successi ottenuti- è a partire da questa collocazione rispetto al capitale che il nuovo proletariato inclusivo di fette consistenti di classe media si ritrova sempre più trasformato ora in “cittadino” inascoltato dal potere (variante buona del populismo) ora in “superfluo” (variante cattiva), alla ricerca disperata di soluzioni per così dire neo-riformiste e neo-sovraniste, ambivalenti e spesso “sporche e cattive”. Che queste ricette si presentino come populismo “anti-sistema” la dice lunga su quanto si siano oggettivamente ristretti i margini di tolleranza del capitale totale rispetto a qualsivoglia deviazione dei soggetti dal tracciato previsto, ma ci dice anche della sua crisi di capacità di mediazione sociale e politica.
° La radice di questa ambivalenza, aperta a esiti opposti, sta appunto nella collocazione oggettiva del proletariato all’interno dell’odierno sistema di produzione che ha distrutto o sussunto gli spazi ancora autonomi di riproduzione materiale e simbolica della vita sociale. Tale internità, combinata -in Occidente- con un relativo margine di riserve economiche pur a fronte di un futuro sempre più nero, dà luogo a una situazione contraddittoria: le soluzione ricercate per uscire da una crisi che non è solo economica ma di senso, vanno nella direzione di un “comune” che se è già critica dell’individualismo sfrenato è però ancora tutto interno a questo sistema di vita e di produzione (non a caso simboleggiato dalla nazione), ciò che lo rende foriero di rischiose contrapposizioni tra un “noi” e un “voi” secondo linee non di classe ma di altro tipo. È come se per riappropriarsi della propria natura comunitaria -meta storica, non mitica origine essenzialista- il proletariato dovesse prima passare fino in fondo attraverso la comunità fittizia ma non per questo meno reale del Capitale totale-spettacolare. E però in quel “noi” ci può stare una amplissima varietà di soggetti accomunata da un’unica condizione sociale: forza-lavoro di fatto proletarizzata, rigidamente dipendente da chi muove le leve del grande capitale anche quando ti fanno credere che godi di autonomia economica o cognitiva, e vita espropriata. E comincia a starci anche una crescente umanità che per il sistema è irreparabilmente superflua, neanche più esercito industriale di riserva ma vera e propria eccedenza inutilizzabile anche come massa per ricattare chi lavora. Soprattutto, si fa qui strada la sensazione di non poter più vivere come prima, che un qualche tipo di rottura diventa necessaria.
° La domanda politica, alla luce di tutto ciò, non è come evitare lo scivolamento e/o l’inconseguenza del populismo. Perché, coniugandosi sull’asse noi/voi (anche laddove il voi pare all’inizio comprendere le sole élite), è scontato non solo che esso sia inconseguente nelle sue istanze anti-establishment ma anche che debba portare, prima o poi, allo scontro tra poveri e fare da supporto alle crescenti rivalità tra nazioni. Ma il punto è che non è scontato che trascini con sé su questa deriva i soggetti, o tutti i soggetti, che in esso si riconoscono o transitano come istanza di resistenza. La domanda utile da un punto di vista effettivamente antagonista al sistema è un’altra: a quali condizioni il populismo può essere superato in avanti e scomposto? Come entrerà in contraddizione non con se stesso ma con le istanze e i soggetti? Come separare nelle pur timide, finora, richieste di potere la dimensione “sovranista” (che è in fondo un tentativo di recuperare potere sulla propria vita) da quella nazionalista? Questioni complesse ma ineludibili su cui si giocherà, in un futuro forse neanche troppo distante, la partita: che cosa sono gli amici del popolo?
° Solo con queste domande ben presenti è possibile e necessario sporcarsi le mani per cercare di rovesciare queste dinamiche contraddittorie - i populismi sono all’inizio di un percorso che non sarà affatto lineare, tanto più che la crisi globale si appresta a entrare nel suo secondo girone infernale - in un senso anticapitalista, che è l’unico che ci interessa. È bene aver presente che in prima istanza non si tratta di capacità tattiche di qualcuno o di approntare oggi una qualche “direzione alternativa”. Ne va innanzitutto di profondissimi sconvolgimenti economici e sociali, di una scomposizione del sistema e della collocazione delle classi in esso, e soprattutto della costituzione di un soggetto ampio antagonista che possa con la sua lotta attirare (o neutralizzare) quegli strati che altrimenti cercherebbero altre, inquietanti sponde. Solo su questa base può darsi un intervento politico non minoritario che sappia rapportarsi ai temi e alle forme della realtà effettuale e non all’immaginazione di essa. Intervento che necessita di una tendenza, anche programmatica, in grado di demarcarsi -senza estremismi ma seccamente e su tutti i piani- dallo spettro “destra/sinistra” così come è definito dalla politica borghese. La linea amico/nemico vogliamo tracciarla noi e non assumerla dai nostri nemici.

Note
1 Già tra il 2011 e il 2013, quindi un bel po’ prima che la questione “populismo” si imponesse al dibattito della sinistra, ho cercato di impostarla (non da solo, va da sé) in riferimento alle ragioni profonde del movimento No Tav (http://www.saradura.it/materiali/Soggetivita_notav.pdf ), al successo del grillismo (http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/7279-proficue-ambivalenze-del-grillismo ), alla mobilitazione dei cosiddetti forconi (http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/10131- ).