mercoledì 31 gennaio 2018

Un percorso nella filosofia politica di Lenin tra classe, partito e Stato di Marco Riformetti

Mano invisibile della rivoluzione 1 500x5501. La Rivoluzione
Quello tra Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre è un legame molto profondo:
Se Marx fosse morto senza aver partecipato alla fondazione della Prima Internazionale egli sarebbe sempre Marx. Se Lenin fosse morto senza aver potuto costruire il Partito Bolscevico, senza aver potuto dispiegare la propria guida nella rivoluzione del 1905 e, più tardi, in quella del 1917, senza aver potuto fondare l’Internazionale Comunista, non sarebbe stato Lenin1.
Ma il legame di Lenin con la rivoluzione oltrepassa il crocevia storico e politico dell’Ottobre. Anche quando sembra lontanissima, la rivoluzione è sempre il punto di riferimento costante rispetto al quale Lenin misura ogni scelta
Proprio l’attualità della rivoluzione, che è l’idea fondamentale di Lenin, è anche il punto che lo collega decisivamente a Marx. Poiché il materialismo storico, come espressione concettuale della lotta di liberazione del proletariato, poteva essere afferrato e formulato teoricamente solo in quel determinato momento storico in cui la sua attualità pratica fosse venuta all’ordine del giorno della storia2.
Tutta la riflessione di Lenin è infatti concentrata su un punto apparentemente semplice eppure denso di significato: il compito dei rivoluzionari è ‘fare la rivoluzione’, agire per fare avanzare il processo rivoluzionario. E questo, tanto che la rivoluzione sia ‘all’ordine del giorno’, tanto che la rivoluzione appaia lontana, come spesso era accaduto nei lunghi giorni del confino e dell’esilio.

2. La filosofia
Come noto, Lenin non è stato un filosofo. I suoi studi di filosofia sono gli studi un autodidatta, anche se di un autodidatta molto particolare, sia per intelligenza che per ‘pignoleria’; una pignoleria che spinge Lenin ad affrontare lo studio attraverso un immenso sforzo di approfondimento teorico. Basti pensare allo studio sull’imperialismo3: «[...] è l’epoca dei Quaderni sull’imperialismo (t. 39): 148 opere, 232 articoli in 4 lingue, un migliaio di pagine stampate»4.
È dunque assai più arduo di quanto non possa apparire a prima vista liquidare le considerazioni di Lenin, tanto più che esse si appoggiano ad un ‘sostrato filosofico’ composto da due elementi molto solidi: la dialettica di Hegel ‘rovesciata’ e la concezione materialistica della storia che ne costituisce una delle più importanti applicazioni.
Anche se Lenin non è mai stato un filosofo ha offerto comunque un grande contributo alla filosofia e in particolar modo alla filosofia politica. Il fatto che l’‘accademia’ abbia spesso snobbato questo contributo (specialmente a partire dalla caduta del muro di Berlino, in ossequio al nuovo clima culturale da ‘fine della storia e delle ideologie’) significa solo che spesso la filosofia politica accademica ha meritato l’accusa che Lenin le aveva rivolto ovvero di essere soprattutto produzione di ideologia e legittimazione del potere.
Non è dunque un caso se negli annali della filosofia politica troveremo nomi come quelli di Platone o Machiavelli o Hobbes o Spinoza e di tanti altri più o meno noti (Arendt, Rawls, Strauss, Schmitt…), ma raramente troveremo il nome di Lenin. E il perché è presto detto: tra i tanti ‘filosofi politici’ che vengono studiati ogni anno da migliaia di studenti in tutto il mondo non se ne troverà uno che non ambisca al ruolo di ‘consigliere del principe’ e che non desideri suggerire al potere come realizzare efficacemente i suoi propositi (primo tra tutti, la propria riproduzione). Lenin, al contrario, intende essere il ‘consigliere del popolo’ che lotta per abbattere il potere e interrompere la sua riproduzione.
Ecco dunque il punto: stanno su lati opposti della barricata i ‘filosofi politici’ accademici e il non filosofo Lenin. E dunque la rimozione di Lenin non è per nulla una rimozione filosofica ma è, innanzitutto, una rimozione politica.
Ci si rende ben conto che tra Lenin e la filosofia ufficiale non ci sono soltanto malintesi e conflitti di circostanza, e neppure le reazioni di suscettibilità offesa dei professori di filosofia che si sentono dire in faccia da un semplice figlio di maestro, piccolo avvocato diventato dirigente rivoluzionario, che essi sono, nella loro massa, soltanto degli intellettuali piccolo borghesi, degli ideologi la cui funzione nel sistema d’educazione borghese è d’inculcare alle masse della gioventù studentesca i dogmi, critici e postcritici quanto si vuole, dell’ideologia delle classi dominanti. Tra Lenin e la filosofia ufficiale c’è una relazione intollerabile nel vero senso della parola: quella per cui la filosofia imperante è toccata nel vivo del suo rimorso: la politica5.
È dunque proprio in quanto mette a nudo il carattere ideologico della filosofia accademica – il cui ruolo è, in definitiva, quello di concorrere alla riproduzione del modo di produzione capitalistico6 – che la filosofia accademica respinge Lenin senza neppure tentare di annacquarne il messaggio come tenta sistematicamente di fare con Marx. Del resto, Lenin è colpevole della più imperdonabile di tutte le colpe: avere mostrato concretamente che la rivoluzione è possibile e che quell’alterità rivoluzionaria che ogni giorno viene negata nelle aule universitarie di tanto in tanto emerge carsicamente dal sottosuolo magmatico della società reale.
Lenin si è occupato in diverse occasioni di filosofia. Gli approfonditi studi giovanili (e mai interrotti) su Marx ed Engels nonché gli studi su Hegel, Feuerbach, Aristotele, la dialettica... raccolti nei pur frammentari Quaderni filosofici7 ne sono una testimonianza. Così come ne è un esempio la sua difesa del materialismo attraverso la critica dell’idealismo empirio-criticista8.
E sebbene considerasse la filosofia ‘ufficiale’ come una forma molto sofisticata di ideologia, Lenin la tenne sempre in alto conto, così come si deve tenere in conto un nemico temibile; lo dimostrano, tra gli altri, due fatti.
Il primo fatto riguarda la scelta, apparentemente inspiegabile, di intensificare gli studi filosofici (e soprattutto gli studi sulla filosofia di Hegel9) proprio all’indomani di un evento politico di importanza storica come il tracollo della socialdemocrazia internazionale di fronte all’esplosione della prima guerra mondiale10:
La scelta, solitaria e, quantomeno in apparenza, altamente improbabile, di Hegel, e più precisamente della Scienza della logica, quale terreno privilegiato, e quasi esclusivo per il periodo decisivo dall’agosto al dicembre 1914, di questa rottura deve essere esso stesso inteso come un incontro tra molteplici serie di determinazioni eterogenee, alle quali solo l’effetto retrospettivo dell’incontro conferisce unitarietà e convergenza11.
Il secondo fatto è in realtà un’osservazione che Lenin annota nei suoi appunti di studio sulla dialettica
Aforisma. Non si può comprendere a pieno Il capitale di Marx, e in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata attentamente e capita ‘tutta’ la logica di Hegel. Di conseguenza, dopo mezzo secolo, nessun marxista ha capito Marx!12.
Si tratta, per l’appunto, di un aforisma; ma un aforisma che assume un significato del tutto particolare perché l’importanza che Lenin attribuisce alla conoscenza della dialettica hegeliana si ricollega idealmente all’importanza che Marx attribuisce alla Scienza della logica di Hegel.
Si è definitivamente preso atto dell’esistenza di una stratificazione interna anche per quanto riguarda l’interpretazione di Hegel: si sono individuate sostanzialmente due letture, la prima giovanile, direttamente influenzata dalla sinistra hegeliana e dalla temperie culturale del Vormärz; la seconda risalente al 1857, periodo in cui Marx scrive il primo grande abbozzo complessivo della teoria del modo di produzione capitalistico; Marx asserisce che rileggere la Scienza della logica gli è stato di grande aiuto per quanto riguarda il metodo [cfr. lettera ad Engels del 16 gennaio 1857]13.

3. Tre punti
Dal momento che la filosofia politica di Lenin è sparsa in un contributo molto vasto14 è possibile scegliere al suo interno focalizzazioni e percorsi diversi. Noi abbiamo scelto di percorrere, sia pure in forma estremamente sintetica, il percorso che lega i 3 temi del partito, della classe e dello Stato.
La scelta di individuare tre punti focali nel nostro percorso non è arbitraria solamente rispetto alla scelta dei punti, ma anche nel senso che i punti scelti non sono isolabili, bensì strettamente correlati gli uni agli altri.
Si pensi ad esempio al rapporto tra classe e partito. Si possono analizzare a lungo i vari elementi che segnano il percorso di sviluppo dell’organizzazione rivoluzionaria marxista in Russia, a cominciare dal distacco con la tradizione populista rivoluzionaria degli anni ‘70 per arrivare alla costituzione del POSDR15 e, più avanti, delle frazioni bolscevica e menscevica; ma un punto che deve restare sempre ben fermo è che la teoria leninista del partito è strettamente collegata alla teoria leninista delle classi e questa, a sua volta, è strettamente collegata alla teoria leninista della coscienza. E il tutto è strettamente collegato al mondo storico e politico concreto entro cui Lenin opera.

4. La classe
Come è noto, le pagine in cui Lenin espone con maggiore forza la propria riflessione sul rapporto tra classe e partito sono contenute all’interno del contributo scritto in vista del II Congresso del POSDR e intitolato Che fare?16 – come l’opera del famoso poeta populista degli anni ‘60, Nikolaj Gavrilovic Černyševskij – un congresso nel quale il movimento marxista russo, già indebolito dai colpi della repressione zarista e soprattutto dall’influenza della tendenza economista, finirà per fare, per dirla con le parole di Lenin, «un passo avanti e due indietro»17.
In realtà, già da tempo la riflessione di Lenin si sviluppa sulla base di alcuni punti cruciali: la lotta contro l’egemonia populista all’interno del movimento rivoluzionario, la lotta contro lo spontaneismo, la lotta per l’autonomia politica del proletariato dalla borghesia.
Quella contro il populismo è la prima grande battaglia politica condotta da Lenin il cui obbiettivo polemico non è tanto il populismo rivoluzionario degli anni ‘70 – quello della Narodnaja Voljia18 per intenderci – quanto piuttosto il populismo liberale che ne ha preso il posto. Ci sono molte questioni che dividono i populisti dai marxisti: il ruolo della tradizionale comunità rurale russa – l’obsčina – nella costruzione del socialismo, la possibilità che possa invertirsi la linea di sviluppo del capitalismo russo19, la sopravvalutazione della tattica ‘terroristica’ rispetto a quella insurrezionale... Ma per quanto ci interessa in questa sede la linea di frattura tra Lenin e le concezioni populiste riguarda soprattutto la teoria delle classi e del processo rivoluzionario in Russia.
Per i populisti la rivoluzione sociale può appoggiarsi solo sui contadini che costituiscono la parte più povera e più numerosa della popolazione. Al contrario, Lenin pensa che i contadini – e specialmente i contadini poveri – siano importanti, ma non decisivi per l’esito del processo rivoluzionario perché li ritiene incapaci di scrollarsi di dosso concezioni che, in definitiva, sono espressione di un mondo che sta già tramontando a causa di uno sviluppo capitalistico che in Russia è certamente arrivato tardi, ma viaggia a gran velocità bruciando le tappe. Le città e i distretti industriali e minerari stanno diventando la destinazione di grandi masse di ex-servi della gleba liberati20 e in breve tempo diventeranno l’epicentro del processo rivoluzionario.
Come si sa, Lenin aveva ragione e i populisti avevano torto. Quando la rivoluzione arriverà saranno soprattutto gli operai delle nuove grandi fabbriche e le masse urbane, assieme ai soldati, a determinare il corso degli eventi; nel loro complesso, i contadini svolgeranno spesso un ruolo apatico, quando non apertamente contro-rivoluzionario, come del resto farà il Partito Socialista Rivoluzionario, loro principale espressione politica. Solo le componenti più povere del mondo rurale accetteranno l’alleanza con i lavoratori e sempre comunque con la speranza di realizzare il proprio sogno piccolo-borghese – la proprietà privata della terra – ciò che sarà fonte di grandi problemi nel tentativo di costruzione del socialismo.
Il secondo fronte di battaglia politica Lenin lo apre contro lo spontaneismo e costituisce uno degli elementi più importanti e controversi del suo pensiero. Il punto centrale è il seguente: le masse popolari non riescono a sviluppare spontaneamente una coscienza politica indipendente.
Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora possedere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva essere apportata soltanto dall’esterno. La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia, con le sue proprie forze solamente, è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradeunionista, vale a dire la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc... La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche ed economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Dal punto di vista della posizione sociale, i fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi21.
L’idea che la coscienza politica possa essere portata solo ‘dall’esterno’ è stata spesso deformata e usata per dipingere Lenin come un uomo che non ha fiducia nelle potenzialità delle ‘masse’ e pensa che esse debbano essere comandate dai ‘capi’ attraverso l’apparato del partito22.
Ma le cose non stanno così, anzitutto perché ‘l’esterno’ di cui parla Lenin non è l’esterno della classe, ma è essenzialmente l’esterno della logica della semplice rivendicazione immediata, quella che noi chiameremmo logica sindacale.
La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti operai-padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi23.
La coscienza politica della classe – intesa come volontà di trasformazione rivoluzionaria dell’esistente – non si forma spontaneamente, ma solo attraverso la fusione del movimento operaio con il socialismo scientifico:
Con questa fusione la lotta di classe degli operai si trasforma in lotta cosciente del proletariato per la sua emancipazione dallo sfruttamento operato ai suoi danni dalle classi abbienti e si sviluppa la forma suprema del movimento operaio socialista: il partito operaio socialdemocratico autonomo. L’avere indirizzato il socialismo verso la fusione col movimento operaio è il maggior merito di Marx ed Engels: essi hanno creato una teoria rivoluzionaria che ha spiegato la necessità di questa fusione e posto ai socialisti il compito di organizzare la lotta di classe del proletariato24.
Una volta che questa fusione tra intellettuali borghesi e classe si sarà realizzata nel partito, sarà proprio questo a promuovere la formazione di quelli che a quel punto saranno intellettuali rivoluzionari non borghesi.
È significativo che per Lenin il ‘maggior merito’ di Marx ed Engels sia stato quello di aver propugnato il superamento dei ‘socialismi primitivi’ che mendicavano riforme dall’alto o confidavano illusoriamente nella capacità di diffusione di esempi dal basso e di aver invece indirizzato le energie verso la costituzione della classe in partito. E del resto, in effetti, Marx ed Engels hanno impegnato molte delle proprie energie nella costruzione di organizzazioni rivoluzionarie: dalla Lega dei comunisti degli anni ‘40 all’Associazione internazionale dei lavoratori degli anni ‘60 all’unificazione della socialdemocrazia tedesca negli anni ‘70.
Il terzo elemento sul quale Lenin concentra il proprio discorso politico è quello della battaglia contro il cosiddetto ‘marxismo legale’25, per l’autonomia politica della classe; il tema, in sostanza, del partito.

5. Il partito
Lenin, lo abbiamo detto, è convinto che la classe lavoratrice sia in grado di sviluppare al più una coscienza di tipo economicistico e di promuovere lotte soprattutto di tipo sindacale e rivendicativo; di conseguenza, lo sviluppo della coscienza politica della classe può determinarsi solo in congiunzione con il socialismo scientifico che, in origine, è ‘portato alla classe’ da intellettuali di estrazione sociale e culturale borghese. Ma una volta che questa fusione del movimento operaio con il socialismo scientifico si è realizzata essa prende forma in un partito politico che deve essere in grado di produrre i propri intellettuali e anzi di essere esso stesso intellettuale collettivo26, per dirla à la Gramsci. Per Lenin, dunque, il partito non è mai una semplice forma organizzativa, ma l’espressione tangibile della coscienza politica del proletariato. Questo punto è essenziale per capire molte cose del rapporto tra Lenin e l’idea del partito come necessità storica e politica.
Per Lenin i lavoratori hanno bisogno di un proprio partito politico indipendente; questo partito deve essere composto di ‘rivoluzionari di professione’ che dedicano le proprie migliori energie alla lotta rivoluzionaria; il partito dev’essere capace di garantire la propria ‘continuità’ e quindi proteggere il proprio gruppo dirigente e il proprio sistema di collegamenti con la classe; il partito deve essere formato da quadri e militanti, non da semplici aderenti; tutti devono essere impegnati in una qualche organizzazione legata al partito; etc. Si potrebbe proseguire a lungo, ma sarebbe comunque impossibile esaurire la questione in modo davvero efficace soprattutto perché è qui impossibile analizzare le argomentazioni con cui Lenin sostiene le sue proposte; e queste argomentazioni sono altrettanto interessanti dei risultati perché costituiscono una importante lezione di dialettica.
Può essere dunque interessante studiare il modo in cui Lenin pone le questioni. E possiamo farlo utilizzando come case study un singolo problema – il problema del rapporto con la tattica ‘terroristica’ – che era di grande rilevanza per il nascente movimento marxista e che riassumeva diverse questioni: il rapporto con il populismo rivoluzionario, il rapporto con l’economismo, il rapporto con lo spontaneismo, il rapporto con l’attività legale...
Per sviluppare il nostro studio porteremo due esempi: uno contenuto nel Che fare? ed uno relativo agli anni successivi alla rivoluzione del 1905.
Primo momento. Nel Che fare? Lenin ha parole apparentemente dure per il ‘terrorismo’ anche se non condanna l’omicidio politico in sé, perché è convinto che la questione delle forme di lotta – siano esse l’azione terroristica o l’azione parlamentare – sia sostanzialmente una questione di tattica, non di principio27; del resto le idee politiche di Lenin, come si sa, non erano improntate alla ‘nonviolenza’ e comunque ogni processo rivoluzionario deve necessariamente fare i conti con il problema dell’uso della violenza.
Lenin condanna le tendenze ‘terroristiche’ che si agitano all’interno del marxismo rivoluzionario soprattutto perché ritiene che esse siano espressione di una forma mascherata di spontaneismo:
[...] in generale, tra gli economisti e i terroristi esiste un legame non accidentale, ma necessario, intrinseco, del quale dovremo ancora occuparci parlando della educazione dell’attività rivoluzionaria. Gli economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune: la sottomissione alla spontaneità di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente come di un fenomeno generale e di cui esamineremo ora l’influenza sull’azione e sulla lotta politica.
A prima vista, la nostra affermazione può sembrare paradossale, tanto grande sembra la differenza tra coloro che antepongono a tutto la ‘grigia lotta quotidiana’ e coloro che propugnano la lotta che esige la massima abnegazione: la lotta di individui isolati. Ma non si tratta per niente di un paradosso. Economisti e terroristi si prosternano davanti ai due poli opposti della tendenza della spontaneità: gli economisti dinanzi alla spontaneità del ‘movimento operaio puro’, i terroristi dinanzi alla spontaneità e allo sdegno appassionato degli intellettuali che non sanno collegare il lavoro rivoluzionario e il movimento operaio, o non ne hanno la possibilità. È infatti difficile, per chi non ha più fiducia in tale possibilità o non vi ha mai creduto, trovare al proprio sdegno e alla propria energia rivoluzionaria uno sbocco diverso dal terrorismo28.
Nella misura in cui i ‘terroristi’ intendono far leva sull’indignazione popolare per suscitare la rivolta trasformano l’azione ‘terroristica’ in qualcosa di diverso da una semplice ‘forma di lotta’; la trasformano in una strategia che in ogni momento ha sé stessa come obbiettivo (si pratica l’azione ‘terroristica’ per condurre altre persone sul terreno dell’azione ‘terroristica’ facendo leva propagandisticamente sulla soddisfazione che le masse provano nel vedere eliminati i personaggi ad esse invisi).
Spesso, questa strategia dell’azione ‘terroristica’ si afferma tra i rivoluzionari quando essi non hanno fiducia che le masse possano sollevarsi e si pensa che esse abbiamo bisogno di essere ‘stimolate’ con azioni esemplari.
Secondo momento. Il riflusso che segue il tentativo rivoluzionario del 1905 apre all’interno del movimento rivoluzionario russo un duro scontro sulla tattica da seguire. Tra i bolscevichi si affermano progressivamente le idee degli otzovistiche considerano ininfluente l’azione legale e propugnano l’adozione di una tattica di tipo ‘terroristico’ – diciamo, neo-populista – basata su un programma di omicidi politici mirati nei confronti di personaggi odiati dal popolo (in questo senso, potremmo dire, essere populisti significa dare simbolicamente in pasto al popolo ciò che il popolo desidera avere in pasto). Tra gli esponenti più importanti della frazione otzovista c’è Aleksandr Bogdanov, uno dei massimi dirigenti del partito e del suo apparato illegale (nonché importante scienziato a cui si deve l’introduzione della tecnica delle trasfusioni di sangue29).
Era giusto sessant’anni fa, nel 1908. Lenin stava allora a Capri, in compagnia di Gorki, di cui apprezzava la generosità e ammirava l’ingegno, ma che trattava tuttavia da rivoluzionario piccolo-borghese. Gorki l’aveva invitato a Capri per discutere di filosofia con un gruppetto d’intellettuali bolscevichi di cui condivideva le tesi, gli Otzovisti. 1908: era l’indomani della prima Rivoluzione d’Ottobre, quella del 1905, il riflusso e la repressione del movimento operaio, lo smarrimento fra gli «intellettuali», anche fra gli stessi intellettuali bolscevichi. Buona parte di quest’ultimi aveva formato un gruppo, conosciuto nella storia con il nome di Otzovisti. Politicamente gli otzovisti erano estremisti, per misure radicali: ritiro (otzovat’) dei rappresentanti dalla Duma, rifiuto di tutte le forme legali d’azione, passaggio immediato all’azione violenta. Ma queste affermazioni estremiste mascheravano posizioni teoriche di destra. Gli Otzovisti si erano lasciati conquistare da una filosofia alla moda, o da una moda filosofica, l’«empirio-criticismo», di cui il celebre fisico austriaco Ernst Mach aveva rinnovato la forma30.
Contro gli otzovisti Lenin conduce una battaglia politica fatta anche a colpi di saggi filosofici – come Materialismo ed empiriocriticismo, che intende essere un’accorata difesa del materialismo e della dialettica –. Ma di questo si è già pur lapidariamente detto.
Oltre a questo è interessante osservare che, nello stesso momento in cui è attaccato dagli otzovisti, Lenin deve fronteggiare anche l’opposizione di un’altra tendenza – detta dei liquidatori – i quali, al contrario degli otzovisti, propugnano lo smantellamento (la liquidazione, appunto) dell’apparato illegale-clandestino del partito. Lenin combatte dunque su due fronti: il fronte che vuole l’adesione completa alla lotta armata, la completa illegalità, l’abbandono di ogni tattica legale (a cominciare dalla presenza all’interno delle nascenti istituzioni russe) e il fronte che vuole l’abbandono completo della lotta armata, la completa legalità, l’abbandono di ogni tattica illegale.
Lenin compie una scelta apparentemente singolare: rifiuta la deriva militarista del partito bolscevico, ma si oppone allo smantellamento dell’apparato militare. In questi due esempi si mostra il ‘metodo di Lenin’ (qui, applicato al tema del partito): tenere assieme ciò di cui la classe ha bisogno oggi (sfruttare anche quegli esigui spazi di agibilità che lo zarismo ha dovuto concedere allo sviluppo del capitalismo in Russia) con ciò di cui la classe avrà bisogno domani (non rinunciare a nessuno degli strumenti necessari per produrre la rottura rivoluzionaria – e all’appuntamento dell’Ottobre, infatti, i bolscevichi si presenteranno addirittura con due apparati armati: quello costruito attraverso la propaganda nell’esercito in guerra e quello costruito negli anni della clandestinità).
Tattica e strategia. Immanenza della rivoluzione. È questa la lezione di Lenin. Anche sul partito.
6. Lo Stato
Lenin tratta dello Stato in vari contributi, il più noto dei quali è senza dubbio Stato e rivoluzione e non è dunque arbitrario scegliere questo testo del 1917 come punto di riferimento.
Stato e rivoluzione è un testo caleidoscopico e ‘visionario’ nel quale si possono identificare almeno tre piani: il piano dello Stato ‘in senso stretto’, il piano della democrazia, il piano del comunismo. Questi piani non sono distinti nettamente, ma sono piuttosto intrecciati e rimandano l’uno all’altro. Qui, attraverso numerose citazioni, Lenin ripropone i punti cardine della teoria marxista dello Stato e lo fa evidenziandone il carattere pienamente politico e non formalistico.
Il primo punto è decisivo: lo Stato e i suoi apparati non sono elementi neutri ma, al contrario, espressione dell’inconciliabilità tra le classi sociali e del dominio della classe dominante
Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui, gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati31.
Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi. Per gli uomini politici piccolo- borghesi l’ordine è precisamente la conciliazione delle classi e non l’oppressione di una classe da parte di un’altra32.
Di conseguenza, lo Stato non è semplicemente un asettico terreno sul quale combattere per l’egemonia (secondo una lettura che potrebbe condividere, ad esempio, Pierre Bourdieu33). Al contrario, lo Stato è il terreno sul quale è proprio il potere che cerca di collocare lo scontro perché quivi possiede tutti gli strumenti, materiali e intellettuali, per imporsi con maggiore facilità.
Il fatto che lo Stato non sia un ‘campo neutro’ ha almeno due implicazioni fondamentali: la prima è che non si tratta solo di ‘conquistare il potere statale’ bensì di operare per la distruzione della macchina statale borghese e per la sua sostituzione con una nuova macchina statale socialista capace di gestire la fase di transizione che deve condurre alla nascita della futura società comunista; la seconda implicazione è che se lo Stato borghese è la forma che assume a livello istituzionale la dittatura della borghesia allora lo Stato socialista è la forma che assume a livello istituzionale la dittatura del proletariato.
Lo Stato, miei cari, è un concetto di classe. Lo Stato è un organo, uno strumento di violenza di una classe su un’altra. Fino a quando esso è la macchina della violenza della borghesia sul proletariato non vi può essere che una sola parola d’ordine proletaria: distruzione di questo Stato. Ma quando lo Stato sarà proletario, quando esso sarà lo strumento della violenza del proletariato sulla borghesia, noi saremo completamente e incondizionatamente per un potere forte e per il centralismo34.
[…] è evidente che la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione dell’apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante35.
Vero è che, a ragionare in termini ‘politically correct’, mai parola fu scelta peggio di ‘dittatura del proletariato’. Chi può volere una dittatura, sia pure ‘proletaria’ ovvero diretta dalle organizzazioni dei lavoratori? Messi di fronte alla scelta di una delle due parole ‘democrazia’ e ‘dittatura’ – usata generosamente dalla borghesia la prima e dai marxisti la seconda – chi non sceglierebbe la prima, chi non respingerebbe la seconda? Chi vorrebbe una dittatura se potesse scegliere una democrazia?
Eppure, una scelta tanto linguisticamente infelice nasconde una straordinaria onestà intellettuale che merita di essere sottolineata. Possiamo partire da ciò che il senso comune – che ama la democrazia e ripudia le dittature, e giustamente – definisce ‘democrazia’ ovvero, alla fin fine, la ‘regola della maggioranza’ (e, certo, anche il rispetto delle regole comuni che però, ovviamente, sono approvate a maggioranza). E si badi bene: con un criterio già molto blando come questo, neppure Atene si sarebbe potuta definire ‘democratica’ dal momento che innestava la ‘regola della maggioranza’ su una platea composta da un’esigua minoranza sociale che escludeva dai diritti politici le donne (più o meno la metà della popolazione), gli schiavi (più o meno 3/4 della popolazione) e gli immigrati di prima generazione. E in ogni caso, come narra Erodoto36, la ‘democratica’ assemblea di Atene poteva decidere a maggioranza l’eliminazione di tutti gli abitanti della città ribelle di Mitilene e questo ci aiuta a comprendere che l’accezione necessariamente positiva che attribuiamo al concetto di democrazia dovrebbe essere ripensata, specialmente nella misura in cui si limita ad esprimere una forma di legittimazione del potere e prescinde dai contenuti delle decisioni effettivamente assunte. Purtroppo, quella della ‘Democrazia’ è in larga misura una vera e propria ideologia37 che meriterebbe, anche grazie anche agli strumenti critici del marxismo, di essere decostruita.
Questo ragionamento non deve tuttavia suggerire che Lenin sottovaluti in qualche modo il problema della conquista della maggioranza; al contrario, uno dei temi fondamentali del suo discorso politico riguarda proprio la formazione di coalizioni sociali (necessarie anche in virtù del fatto che il proletariato industriale non è classe maggioritaria nella Russia ‘pre’ e ‘post’ rivoluzionaria)
Il potere statale, l’organizzazione centralizzata della forza, l’organizzazione della violenza, sono necessari al proletariato sia per reprimere la resistenza degli sfruttatori, sia per dirigere l’immensa massa della popolazione – contadini, piccola borghesia, semi-proletariato – nell’opera di «avviamento» dell’economia socialista38.
La nuova forma di organizzazione politica e istituzionale – la ‘dittatura’ del proletariato - deve dunque essere usata per reprimere i nemici e per sviluppare l’alleanza con le classi potenzialmente amiche nel processo di costruzione del socialismo.
D’altra parte, riconoscere che in una società ancora divisa in classi lo Stato esprime gli interessi generali delle classi dominanti equivale a constatare che il discorso di Platone – Trasimaco nella Repubblica il giusto è l’utile del più forte anche quando il ‘più forte’ non è che la maggioranza di un sistema democratico – ha una sua forza oggettiva (che infatti Platone-Socrate, in definitiva, sembra non riuscire a smontare del tutto).
Il problema del perché poi le masse possano appoggiare movimenti che esprimono gli interessi economici e politici di segmenti di società sempre più di élite – qualche anno fa, il movimento Occupy Wall Street aveva lanciato lo slogan ‘We are the 99%’39 – è in effetti un problema; anzi, è il problema dei problemi, ma ha più a che fare con il tema della coscienza politica delle masse che non con quello del carattere più o meno democratico dello Stato. Del resto, la schiavitù non cessa di essere tale anche se gli schiavi si rassegnano e non si ribellano; e quello nazista non diventa un partito democratico solo perché nel 1932 aveva ottenuto il consenso di quasi il 40% degli elettori tedeschi. Come insegnano i plebisciti francesi per Luigi Bonaparte, si possono ‘eleggere’ anche gli imperatori – ovvero i poteri assoluti – anche se questo può apparirci singolare.
Lenin ha riproposto in modo magistrale la concezione marxista dello Stato e ha tentato di avviare il processo di costruzione del socialismo nelle difficilissime condizioni che hanno seguito l’Ottobre. Il risultato non ha corrisposto alle aspettative? È vero. Ma bisogna anche riconoscere che questo accade a tutte le rivoluzioni
[…] la sfasatura tra programmi e risultati è propria di ogni rivoluzione. I giacobini francesi non hanno realizzato o restaurato la polis antica; i rivoluzionari americani non hanno prodotto la società di piccoli agricoltori e produttori, senza polarizzazione di ricchezza e povertà, senza esercito permanente e senza forte potere centrale; i puritani inglesi non hanno richiamato in vita la società biblica da loro miticamente trasfigurata40.
Questo significa minimizzare i problemi emersi? Certamente no. Al contrario, significa ribadire che bisogna sempre ‘andare a lezione’ dalla storia reale e ribadire il monito leniniano del fare sempre l’analisi concreta della situazione concreta. Ma significa anche riconoscere che non esiste alcun sillogismo in base al quale dedurre che ciò che non ha funzionato una volta debba non funzionare per sempre.

7. Conclusione
Sui temi che abbiamo affrontato in questo contributo si è discusso per decenni in tutto il mondo. Dire cose innovative era molto difficile. Il tentativo che si è inteso fare è stato quello di mostrare come il pensiero politico di Lenin – la sua filosofia politica – sia ancora oggi un terreno molto fecondo di riflessione che merita di essere recuperato, anche per comprendere meglio gli esiti storici di quello che è stato chiamato ‘socialismo reale’ e dei quali Lenin è stato certamente un protagonista, sia pure nella fase iniziale.
Senza Lenin il ‘900 è letteralmente impensabile così come è impensabile ogni trasformazione radicale dell’esistente; il fatto che venga operata sistematicamente la rimozione intellettuale di un uomo che ha concorso in modo decisivo al realizzarsi di eventi che hanno scosso – e le cui ‘onde lunghe’ forse ancora scuotono – il mondo, in fondo non è che il segno dello straordinario arretramento del dibattito politico odierno, ormai incapace di criticare l’esistente e di pensare il non (ancora) esistente.
Fare ‘tabula rasa’ di tutti i pensatori autenticamente rivoluzionari è ovviamente una comprensibilissima strategia politica delle classi dominanti (guai far sapere che cambiare il mondo è possibile); è un po’ meno comprensibile sul piano intellettuale, ma in fondo chi chiede, oggi, agli intellettuali di rendere conto del proprio coraggio


Note
1 T. Cliff, Lenin 1. Building the Party, in Id., Strategy and Tactics (Lenin Learns from Clausewitz), London 1977, cap. XIV, p. 254.
2 G. Lukacs, Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, 2a ed., Torino 1976, p. 13 (corsivo mio).
3 Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Id., Opere complete, vol. 22 [dicembre 1915-luglio 1916], Roma 1966.
4 G. Labica, Lenin, lo Stato, la dittatura e la democrazia, in Lenin e il Novecento, a cura di R. Giacomini e D. Losurdo, Napoli 1997, p. 221.
5 L. Althusser, Lenin e la filosofia, comunicazione presentata il 24 febbraio 1968 a Parigi alla Société Française de Philosophie, Milano 1972.
6 L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato. Note per una ricerca, in Id., Freud e Lacan, Roma 1977, pp. 65-123.
7 Cfr. Lenin, Quaderni filosofici, in Id., Opere complete, vol. 38, Roma 1969.
8 Cfr. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, in Id., Opere Complete, vol. 14 [1908], Roma 1963.
9 Una posizione estrema (e poco condivisibile) a questo proposito è quella di Kevin Anderson in K. Anderson, Lenin, Hegel, and Western Marxism. A Critical Study, Champaign 1995, p. xv:
«I will argue that Lenin’s post-1914 work, especially on the dialectic, places him closer to Key Hegelian or ‘Western’ Marxists such as Georg Lukacs and the members of the Frankfurt School than to orthodox Marxists, including Soviet Marxist-Leninists».
10 Come è noto, l’Internazionale Socialista (la II Internazionale) si divise sul voto ai cosiddetti ‘crediti di guerra’ che furono sostenuti da quasi tutte le sue sezioni nazionali, annichilendo il principio fondamentale su cui era nato il movimento socialista: l’internazionalismo.
11 Cfr. S. Kouvélakis, Lénine, lecteur de Hegel, «Période», 2016, http://r>evueperiode.net/lenine- lecteur-de-hegel/
12 Cfr. Lenin, Quaderni filosofici, cit., p. 167.
13 R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Roma 2006, p. 17.
14 Le Opere complete di Lenin pubblicate dagli Editori Riuniti negli anni ‘50-‘60 constano di 45 volumi di circa 500 pagine l’uno.
15 POSDR, Partito Operaio Social-Democratico Russo. Fu il primo partito marxista in Russia, fondato nel 1898 a Minsk.
16 Cfr. Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, in Id., Opere Complete, vol. 5 [1901-1902], Roma 1958.
17 Cfr. Lenin, Un passo avanti e due indietro (La crisi del nostro partito), in Id., Opere Complete, vol. 7 [settembre 1903-dicembre 1904], Roma 1959.
18 Cfr F. Venturi, Il populismo russo, in Id., Dall’andata al popolo al terrorismo, vol. III, Torino 1977.
19 Su questo tema Lenin scrisse, durante il confino siberiano, uno straordinario testo di vera e propria sociologia storica, Lo sviluppo del capitalismo in Russia. Cfr. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, in Id., Opere Complete, vol. 3 [1896-1898], Roma 1956.
20 Cfr. ibid.
21 Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, cit., p. 346.
22 Cfr. E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in Occidente, Bari 1974.
23 Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, cit., pp. 389-390.
24 Lenin, I compiti urgenti del nostro movimento, in Id., Opere Complete, vol. 4 [1898-1901], Roma 1957, pp. 259-260.
25 Cfr. G. Migliardi, Lenin e i menscevichi. L’Iskra (1900-1905), Milano 1979, p. 90: «È nota come ‘marxismo legale’ quella corrente del marxismo russo che, alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX, si ispirò al ‘revisionismo bernsteiniano’ e in una certa misura lo precorse nella revisione del marxismo. I suoi principali rappresentanti furono P. B. Struve, M. I. Tugan- Baranovskij, S. N. Bulgakov, N. A. Bulgakov, N. A. Berdjaev e S. L. Frank. Il ‘marxismo legale’ sosteneva che il socialismo poteva essere raggiunto con riforme graduali nel quadro di un governo costituzionale liberale. Tutti i suoi rappresentanti aderirono successivamente a partiti liberali e conservatori. Il termine ‘marxisti legali’ deriva dal fatto che essi avevano spesso la possibilità di pubblicare legalmente le loro opere e di intervenire pubblicamente».
26 Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino, 1975 (rip. 2014).
27 Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, in Id., Opere complete, vol. 31 [aprile- dicembre 1920], Roma 1967, pp. 23, 25.
28 Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, cit., cfr. in particolare il cap. III, §. d) Che cosa hanno in comune l’economismo e il terrorismo?, pp. 387-388.
29 Bogdanov troverà la morte proprio a seguito di una trasfusione con sangue infetto che egli aveva provato su sé stesso.
30 Cfr. L. Althusser, Lenin e la filosofia, cit.
31 Lenin, Stato e rivoluzione, in Id., Opere complete, vol. 25 [giugno-settembre 1917], Roma 1967, cap. I, La società classista e lo Stato, § 1, Lo Stato, prodotto dell’antagonismo inconciliabile delle classi, p. 366.
32 Ivi, p. 367.
33 Cfr. P. Bourdieu, Sullo stato, Milano 2013.
34 Lenin, I bolscevichi conserveranno il potere statale?, in Id., Opere complete, vol. 26, Roma 1966, p. 102. Questo articolo fu scritto da Lenin prima dell’Ottobre – ovvero prima della conquista del potere politico da parte dei bolscevichi – in risposta alle accuse di alcuni giornali (quello cadetto, quello socialista-rivoluzionario e quello ‘metà bolscevico, metà menscevico’, la Novaia Gizn).
35 Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 368.
36 Cfr. Erodoto, Storie, Milano 2008.
37 Cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Milano 2004.
38 Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 382.
39 Cfr. N. Chomsky, Siamo il 99%, Roma 2012.
40 D. Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, Napoli 2012.

martedì 30 gennaio 2018

Avanti Popolo, alla riscossa!


Potere_al_popolo

Intervista di Alba Vastano a Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Prc da La Città Futura

Siamo in campagna elettorale, inizia il testa a testa di routine fra i partiti concorrenti nella corsa a governare il Paese, fra promesse astruse di alcuni rappresentanti e verità pronunciate da altri. Pensiamo che le uniche verità sul dopo elezioni vengano dette con trasparenza da “Potere al Popolo”, una lista della sinistra radicale, nel cui contenitore si amalgamano, o stanno tentando di farlo, forme partito e antipartito. A prescindere dal raggiungimento della soglia del 3% fissata per la lista Potere al Popolo cosa accadrà nel dopo elezioni per questa nuova formazione? Ne parliamo con Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista, in un’intervista in esclusiva per la Città futura.

D:  La diffidenza delle nuove generazioni che trovano obsoleta la  classica forma partito, considerandola antipolitica (essendo in pieno liberismo) fa sì che aleggi, in alcune occasioni, un contrasto (come si manifesta anche nelle assemblee) con la partecipazione di Rifondazione nella lista di Potere al popolo.  Quale segretario nazionale del Partito della Rifondazione, come si pone rispetto a questo problema che potrebbe inibire o limitare, dopo il 4 marzo, lo sviluppo del programma di Palp e il suo radicamento delle lotte sui territori?
R: L’ideologia antipartito è senso comune per motivi storicamente determinati abbastanza comprensibili. Ed è anche giustificata dalle vicende politiche italiane. Bisogna tenerne conto con pazienza. Alla fine lavorando con noi anche i più antipartitisti superano i loro pregiudizi e preconcetti. Il problema – va detto è anche inverso – cioè ci sono compagni dei partiti che pensano di saperne di più di chi viene da altri percorsi. Io per dirla con Gramsci penso che bisogna evitare la “boria di partito” e anche quella degli “antipartito”. Si tratta di contraddizioni in seno al popolo da superare nella pratica. E mi pare che siamo sulla buona strada.
D: Il progetto politico del Brancaccio, a cui Rifondazione ha aderito (nonostante alcune perplessità sorte all’interno del Partito per i precedenti fallimenti di analoghi tentativi), ponendo dei paletti contro il Pd e il centrosinistra, si esprimeva soprattutto come linea antiliberista, non marcando l’aspetto dell’anticapitalismo. In fondo una linea molto affine a quella scaturita dall’ultimo congresso di Rifondazione. È così?
R: Certo altrimenti non avremmo aderito al percorso. E non abbiamo fatto accordi con Mdp proprio perché non li riteniamo una forza coerentemente antiliberista, anzi molti di loro sono stati i protagonisti della conversione al liberismo della sinistra italiana nel corso degli anni ’90.
D: Sembra che Potere al Popolo con la connessione fra l’art. 3 della Costituzione e la democrazia dal basso (diretta) intenda superare la rigida forma Partito. Rifondazione in questa sfida come si pone e cosa propone per il raggiungimento degli obiettivi, a prescindere dal risultato elettorale?
R: Tutte cose che Rifondazione Comunista propone da anni e quindi non posso che vederle positivamente. Da tempo sosteniamo che una soggettività unitaria può crearsi soltanto attraverso pratiche democratiche dal basso.
D: Potere al Popolo potrebbe essere considerato propedeutico alla riunificazione dei comunisti in Italia. La iniziale convergenza dentro Potere al popolo di organizzazioni di ispirazione anticapitalista può aiutare  a rafforzare non solo l’antiliberismo, ma anche l’anticapitalismo? Quindi Potere al popolo si può considerare un’esperienza più avanzata rispetto al Brancaccio?
R: Potere al popolo è già una forma di riunificazione anche tra comunisti. Il tasso di anticapitalismo non si misura da quante volte maledici il capitale ma da quanto sei capace di cambiare i rapporti di forza. Quindi se riusciamo a contrastare le politiche neoliberiste dominanti avremo fatto del buon anticapitalismo non astratto. Marx insegnava che lo sviluppo delle sette e quello del movimento reale sono inversamente proporzionali.
D: Da questo bisogno di democrazia dal basso (espresso nelle lotte dei lavoratori) e la mancata riunificazione dell’unità di classe ne scaturisce una contraddizione. Nella formazione delle candidature, ad esempio, per Potere al popolo queste contraddizioni si sono a volte  palesate (nelle assemblee intergruppi si sono spartiti con qualche mal di pancia le candidature). A fronte di queste contraddizioni generate dalla compresenza nelle liste di strutture organizzate e non, come pensa che possa proseguire questa esperienza, sia nel raggiungimento della soglia del 3%,  sia non dovesse questa essere superata?
R: Innanzitutto vorrei far notare che Potere al popolo è riuscita in un miracolo. Le liste sono state tutte il frutto delle assemblee. Dentro le assemblee si è proceduto col metodo del consenso che non significa spartizione. C’è stato qualche casino, qualche spaccatura con votazioni contrapposte e clima acceso, ma quasi sempre si sono trovate soluzioni condivise. È la prima volta che le liste in tutta Italia per le politiche vengono decise sui territori. Certo il tutto avendo qualche settimana in più si poteva fare meglio. Ma la fretta di dover raccogliere le firme ci ha costretto a muoverci a tappe forzate. Ma siamo di fronte davvero a un miracolo di cui andare fieri. E posso dire con orgoglio che Rifondazione ha posto dall’inizio la condizione che le candidature si decidessero dal basso con solo al limite consigli o arbitraggio da parte del coordinamento nazionale.
D:  Di conseguenza, in riferimento alle candidature, non ritiene che la sua candidatura, quale “leader” del partito della Rifondazione, pur costituendo garanzia ed affidabilità per il prosieguo del radicamento sui territori, possa costituire una delle contraddizioni?
R: Prima di tutto eviterei di usare espressioni come “leader” che dovrebbero essere espunte dal nostro vocabolario. Io sono un compagno che è stato eletto segretario da uno dei pochi soggetti politici che hanno una vita democratica in questo paese, cioè il PRC. Non ritengo che vi sia problema per la mia candidatura come non c’è per quelle di un compagno come Cremaschi per la rete Eurostop o del segretario del PCI Alboresi ecc. perché non siamo il M5S e non siamo qualunquisti. Credo che il manifesto di Potere al popolo sia chiarissimo al riguardo.
D: Riguardo alcune liste regionali per Potere al popolo, in particolare per il Lazio, ci sono alcuni settori del Prc che continuano ad interpretare queste esperienze all’interno di una subalternità con altre forze politiche. Sinistra italiana, ad esempio, la quale è attualmente attraversata da un conflitto in Liberi e Uguali. Si deve dare ancora fiducia (allo scopo di allargare la lista Potere al popolo)  a esponenti di SI che aspirano ad essere eletti, come dirigenti,  in questa lista? E, nell’ambito di questa perplessità, ad esempio, è quindi opportuno affidare la funzione di capolista/Presidente, e non di semplice candidata, nella lista Potere al popolo regionale a Elisabetta Canitano, proveniente da Sinistra italiana,nonostante sia un merito inconfutabile il suo essere esponente dell’importante movimento Nudm?
R: Non vedo nessuna subalternità, semmai il rifiuto del settarismo. Se ci sono compagne/i che rompono con SI e LeU perché sono come noi per un’alternativa netta al PD sono benvenuti. La compagna Canitano mi sembra che abbia una storia di militanza a sinistra e nei movimenti riconosciuta e anche competenze da spendere. Si occupa di sanità che costituisce l’80% delle competenze regionali. L’essere candidata presidente tra l’altro è un ruolo di servizio dato che alle regionali il candidato presidente non viene eletto in quanto tale (la legge è diversa da quella dei comuni). Il movimento non una di meno è una delle realtà più importanti degli ultimi anni.
D: Infine, segretario, non crede che all’interno di Rifondazione, occorra urgentemente riaprire la discussione teorica su come reintrodurre forme statutarie per il ripristino del centralismo democratico? Centralismo inteso come espressione del leninismo, così come avviene in altri Partiti comunisti in Europa (PCP-KKE ecc.)? Fermo restando che il centralismo democratico non si debba evocare solo quando conviene e non solo quindi, in occasione delle candidature per una lista elettorale.
R: Il comunismo del KKE non è il nostro. Non ci chiameremmo Rifondazione altrimenti. Personalmente non mi iscriverei a un KKE italiano. Ovviamente quello greco è una cosa a suo modo seria, in Italia mi sembra che siano in circolazione solo caricature. Tra l’altro sarebbe anche impossibile su quelle basi fare Potere al popolo. Dubito che si possa definire leninista se con l’aggettivo si fa riferimento a ciò che Lenin ha detto e fatto e non a quello che altri hanno costruito successivamente. Reintroducendo il centralismo democratico avrei meno rogne nel partito e voi non fareste questo giornale da iscritti al partito. Ricordo che il PCI espulse i compagni che avevano fondato la rivista il Manifesto nel 1969. Senza fare una storia del concetto direi che la pubblicità del dissenso e il diritto di esprimerlo non hanno impedito ai bolscevichi di fare la Rivoluzione d’Ottobre e quindi non vedo perché non tenerceli stretti. Credo che invece nella storia di Rifondazione sia stata data una risposta sbagliata alla questione del pluralismo dando troppo spazio a pratiche correntizie che sono distruttive e soprattutto hanno costretto la vita del partito entro binari che la isteriliscono e diventano respingenti. Vanno superate innanzitutto nella pratica.
D: E un’ultimissima domanda. Come interpreta il nome della lista “Potere al popolo”. Quale accezione dà alle parole Potere e popolo, oltre a quello più ovvio contenuto nella parola “Democrazia”?
R: È un nome impegnativo. Forte. Era lo slogan delle Pantere Nere. Il poder popular è un concetto chiave per la sinistra latinoamericana. Da troppi anni in Italia non è più in campo uno schieramento, una forza che sia espressione delle classi popolari. Ovviamente non decliniamo il concetto di popolo in termini nazionalistici, di destra o interclassisti. Parliamo delle classi subalterne, della maggioranza sociale di questo paese, di una composizione di classe frammentata. E il nostro popolo non è fatto solo di maschi bianchi dato che le donne sono anche di più e gli immigrati ne sono componente. E non è solo eterosesuale naturalmente. Avanti popolo, alla riscossa!

Potere al popolo è ‘l’unica vera novità di queste elezioni’, la penso come De Magistris di Francesca Fornario

 Potere al popolo è ‘l’unica vera novità di queste elezioni’, la penso come De Magistris
“È impossibile raccogliere le firme”, si lamentava Emma Bonino, che prima ha ottenuto che le dimezzassero e poi, non volendo raccogliere neanche quelle, ha infilato i radicali nelle liste del democristiano antiabortista Tabacci. A riprova del fatto che che quel pare impossibile diventa fattibile se c’è chi lo fa.
Potere al popolo ha raccolto in pochi giorni il doppio e il triplo delle firme necessarie per presentarsi alle elezioni in tutta Italia. “Abbiamo dovuto mandar via le persone ai banchetti perché non potevano firmare più di 2mila a collegio”.
La lista che ha scelto come portavoce una giovane donna, la ricercatrice precaria Viola Carofalo è la prima nella storia della repubblica italiana che ha tra i capolista più donne che uomini. La prima lista senza “paracadutati”, con il cento per cento dei candidati scelti da migliaia di persone sui territori in libere assemblee. La lista nata dopo il fallimento del Brancaccio, sconvocato da Tomaso Montanari e Anna Falcone (ora candidata in Liberi e Uguali con Grasso), ha convinto migliaia di persone spiegando ai banchetti il proprio programma: “Cancellare subito il Jobs Act e la Legge Fornero, non aggiustarli un pochino come promettono di fare Berlusconi o Bersani!” (“Cancellare la riforma Fornero? Siam mica matti!”, ha reagito l’ex segretario Pd, oggi con Falcone in Liberi e Uguali). “Proteggendo tutti i lavoratori dal licenziamento illegittimo con il ripristino e l’estensione dell’articolo 18 e l’abolizione dei contratti che hanno permesso alle imprese di sostituire il lavoro stabile con quello precario”. “Tassando i super-ricchi molto più di chi vive del solo stipendio”, al contrario di quel che promettono di fare Salvini e Berlusconi con la flat-tax, l’ennesima legge che avvantaggerà i miliardari come – che coincidenza! – Berlusconi.
E con l’unica riforma rivoluzionaria possibile, che l’altra non è una riforma, l’altra è la rivoluzione: andando in pensione prima e riducendo l’orario di lavoro a parità di salario, oggi che a parità di lavoro si produce e dunque si guadagna di più di ieri, ma quel guadagno finisce tutto nelle tasche dei grandi imprenditori che infatti sono diventati più ricchi e non dei lavoratori che infatti sono diventati più poveri.
Non è frutto di un’utopia ma di un calcolo, la riforma che i candidati di Potere al popolo ripetono ai comizi. Calcolare a quanto ammonta la ricchezza prodotta dal lavoro e restituirla ai lavoratori che l’hanno prodotta. Un calcolo che ha appena fatto l’Oxfam: l’82 per cento della ricchezza prodotta nell’ultimo anno è come sempre finita nelle tasche dell’1 per cento più ricco della popolazione mondiale, mentre ai 3,7 miliardi dei più poveri non è andato un solo centesimo. Lo stesso vale per le pensioni: ai lavoratori viene restituito a stento quello che versano mentre sarebbe equo restituirgli la ricchezza che hanno prodotto, evitando che quei soldi finiscano tutti nelle tasche dei super-ricchi che, in questi anni di crisi, sono triplicati.

«Ma dove trovano i soldi?».
Rispondo con un’altra domanda: i governi del Pd, dove li hanno trovati i 31 miliardi per salvare le banche invece dei cittadini? E i 40 miliardi regalati in tre anni alle imprese invece che ai lavoratori resi precari dal Jobs Act? E i 25 miliardi di spese militari stanziati per il 2018 da un paese che ha nella sua Costituzione il ripudio della guerra? Più di quanti ne servirebbero, secondo le stime della Rete dei Numeri pari lanciata da Don Ciotti, per sconfiggere la povertà in Italia!
«I soldi li troviamo rompendo con i trattati europei che hanno imposto il pareggio di bilancio e affamato i popoli. Uscendo dalla Nato che chiede ai paesi aderenti di destinare alle spese militari il 2 per cento del Pil», dice Giorgio Cremaschi, candidato di Potere al Popolo, ex leader della Fiom deluso dal Movimento 5 Stelle per il quale aveva scritto il programma-lavoro di cui poco è rimasto nelle venti priorità indicate da Di Maio, che ieri prometteva il referendum per uscire dall’Euro e oggi di rassicurare i mercati assegndo il ministero del Tesoro a un tecnico del Fmi. Prima di criticare per anni la Troika conveniva sapere da chi era composta.
Con Potere al Popolo sono candidate decine di lavoratrici, lavoratori, decine di militanti. Nicoletta Dosio, professoressa di greco e simbolo della lotta contro la Tav. La partigiana Lidia Menapace. Giovanni Ceraolo, che si batte nel movimento per la casa a Livorno. Patrizia Buffa a Verona, impegnata nella lotta alla Mafia e per la Palestina. Roberta Leoni a Viterbo, insegnante in lotta contro la Buona Scuola di Renzi. La combattiva Stefania Iaccarino a Roma, simbolo della vertenza Almaviva. A Napoli c’è lo storico Giuseppe Aragno di DeMa, vicino a De Magistris, molto attivo nella battaglia del referendum del 4 dicembre.
“Potere al popolo è l’unica vera novità di queste elezioni”, dichiara entusiasta all’Ansa Luigi De Magistris. Non a caso, la lista che si impegna a cancellare il pareggio di bilancio inserito in Costituzione da Monti, Berlusconi e Bersani parte dalla città governata dall’unico sindaco che ha disobbedito ai vincoli del patto di stabilità con una delibera scritta con Stefano Rodotà per consentire l’assunzione di 300 maestre e garantire alle famiglie l’apertura delle scuole. «L’istruzione è un diritto, il pareggio di bilancio no», disse il Sindaco, che da anni chiude i suoi comizi gridando: “Potere al popolo!”.
Potere al popolo è nata per impulso del centro sociale napoletano Ex Opg – Je So Pazzo e hanno aderito tanti collettivi, sindacati di base, movimenti, associazioni e partiti come Rifondazione Comunista e Pci. La lista ha ricevuto l’endorsement di Momentum, il movimento di Jeremy Corbyn, e la portavoce Viola Garofalo è ora in Francia da Jean-Luc Melenchon. Stanno raccogliendo le firme per candidarsi anche alle regionali nel Lazio, opponendo a Zingaretti, Lombardi e Parisi la ginecologa femminista Elisabetta Canitano, con capolista il giornalista del Manifesto Sandro Medici. Ha scritto un appello al voto il regista Citto Maselli e  lo stanno firmando con noi in queste ore Vauro, Moni Ovadia, Christian Raimo, Alberto Prunetti, Marina Boscaino del comitato per la difesa della scuola pubblica (nel programma della lista c’è la sua proposta di riforma della Buona Scuola).
Ho scelto come loro di votare Potere al popolo perché c’è bisogno di rovesciare il tavolo dove pochi stanno mangiando a spese di tutti gli altri e allestire un banchetto per chi vive di lavoro e sacrifici. Non solo per questo, però. So bene che il tavolo non si rovescerà il 4 marzo.
Quando racconto le storie dei lavoratori sfruttati, scopro che molti attribuiscono il proprio malessere all’ansia. Credono che l’emicrania, il reflusso gastroesofageo, l’insonnia, l’acidità di stomaco e le palpitazioni dipendano dall’ansia per il contratto precario, il mutuo, il futuro, il tempo che ci manca. Danno la colpa del loro disagio all’ansia che è una reazione individuale e non all’ingiustizia che è un fenomeno sociale. E curano l’ansia con le pasticche invece di ribellarsi all’ingiustizia con la lotta.
Se votano, si affidano a chi promette di aggiustare un pochino la Legge Fornero dopo averla votata, ai miliardari che promettono di tagliare le tasse ai miliardari, a chi vuole consegnarci a un tecnico del Fmi perché l’Europa è ancora lì che ce lo chiede. Ma non votano quasi mai, perché non hanno gli strumenti per mettere a fuoco le cause e le responsabilità della loro sofferenza e pensano che la loro ansia non abbia nulla a che fare con la politica. Voto Potere al popolo perché è la sola lista che attraverso le lotte dei suoi candidati vuole dare agli sfruttati questa consapevolezza, questo conforto, questo protagonismo. Incontriamoci, lottiamo insieme, studiamo le cose che non ci racconta la tv, dove l’ingiustizia scompare e quando appare è per dare la colpa agli immigrati sfruttati invece che ai loro sfruttatori: un vecchio trucco per coprire le responsabilità di chi, con le leggi che ha votato, ha legalizzato lo sfruttamento.
Basta pasticche, teniamoci stretti e affrontiamo la campagna elettorale e i mesi successivi sapendo di non avere i poteri forti alle spalle e tre reti come Berlusconi, le banche come Boschi, i finanzieri che ci finanziano come Renzi. Sapendo di non avere le risorse economiche che loro hanno ma di avere una risorsa che loro non hanno e non possono comprare. Noi abbiamo ragione.


domenica 28 gennaio 2018

La notte del Pd di Alessandro De Angelis

 
La notte che trasforma il Pd. Anzi, la notte del Pd. Alle cinque di mattina Andrea Orlando è distrutto. Chiede, con voce tesa: "Si possono almeno avere le fotocopie delle liste? Fateci almeno sapere dove ci avete messo. Un'ora di tempo e riprendiamo". Emanuele Fiano ha l'incarico di rispondere che non c'è tempo.
Poco dopo inizia la direzione, sette ore dopo la prima convocazione. E dalla presidenza, per la prima volta nella storia, le liste vengono solo lette. Un lungo eletto di sommersi e salvati. Paolo Gentiloni, arrivato alle due di notte, è visibilmente imbarazzato. Soprattutto quando non viene pronunciato il nome di Claudio De Vincenti, il suo sottosegretario a palazzo Chigi. Uomini di governo, gente con una lunga storia alle spalle, anche di provata lealtà apprendono solo a quel punto il proprio destino. Senza un colloquio, un sms, un contatto col Capo. Al termine del lungo elenco, nero su bianco non resta nulla, alimentando nelle ore successive il sospetto di aggiustamenti, limature, ulteriori sostituzioni nonostante il passaggio ufficiale. Poche ore dopo, a metà mattinata il sole illumina il "partito di Renzi". Dal Nazareno escono mano per mano la neo candidata Francesca Barra, giornalista che conquistò Renzi con una non indimenticabile intervista a palazzo Chigi, col suo compagno Claudio Santamaria, il popolare attore che prima si schierò con Virginia Raggi, tranne poi dichiarare poco tempo fa la sua delusione.
La grande epurazione è compiuta, in un clima terrore. Il secondo piano per tutta la notte è un bivacco di anime perse: segretari regionali, parlamentari, dirigenti che col passare delle ore cercano di capire dove sono finiti, quali sono i criteri, i motivi, il perché. Matteo Renzi è asserragliato al terzo piano nella sua stanza, quella che fu del tesoriere Luigi Lusi, porta blindata con codice di accesso. In pochi riescono ad entrare. Inserisce nomi, stronca con un tratto di penna carriere politiche, disegna collegio per collegio il "suo" partito di fedelissimi. La renzizzazione di un partito che, del vecchio, mantiene solo il simbolo, chissà per quanto. Opposizioni decimate, e prima ancora umiliate. "Parlaci tu con Orlando, io ho altro da fare", dice a Piero Fassino. Per due giorni il Guardasigilli, leader della minoranza interna, chiede invano di essere ricevuto. Cuperlo apprende di essere candidato a Sassuolo alle tre di notte via sms. E rinuncerà ventiquatt'ore dopo. Mentre Orlando alle quattro di notte apprende che la sua corrente è smontata: "Piero – dice all'ex segretario – sui numeri possiamo ragionare, ma non potete scegliere voi le persone. Quelle spetta a me indicarle". Niente da fare. Cadono i nomi di Andrea Martella, parlamentare di lungo corso stimato, molto stimato da Walter Veltroni e anche del giovane Marco Sarracino, il portavoce della mozione, 28enne, il più giovane di tutti. Urlano i suoi parlamentari: "Ditelo che non volete il rinnovamento, ma un partito yes man!".
Il clima è da tregenda. Scoppia a piangere anche Deborah Serracchiani, una fedelissima, che in una prima bozza non compare nelle liste del Friuli: "Io ci perdo la faccia – sbotta in uno scatto di nervi – se non mi mettete in Friuli non mi candido". Alla fine ce la fa. Entrano e escono dalla stanza del segretario i pochi che hanno accesso. Nella lunga notte, la tensione è a fior di pelle. A un certo punto si sentono le urla di Renzi: "Adesso non mi rompete i ..., uscite tutti dalla mia stanza. Poco dopo si vedono varcare la testa Fassino, Franceschini, Lotti. Maria Elena Boschi, sempre presente, è in cabina di regia col Capo. Racconta più di un presente: "C'era un'aria fa funerale. Quando Minniti è arrivato a Mezzanotte, ha stretto qualche mano, sembrava consolasse chi poi effettivamente non ce l'ha fatta. È la fotografia di un partito che si prepara alla sconfitta, col leader che si fa i gruppi a sua immagine".
Fuori Lo Giudice, Damiano recuperato all'ultimo ma in collegio difficile a Terni, una decina scarsa i parlamentari di Orlando, catapultato a Modena senza collegio. Stessa sorte al vulcanico Emiliano, forse il solo che riesce a prendere di petto il segretario: "Tu non hai capito un ca.... Io queste liste te le straccio. Hai capito? Te le straccio. Se vai avanti così in Puglia non ti ci fanno neanche mettere piede". Il governatore riesce a salvarne solo tre dei suoi, tra cui Boccia, rimasto in bilico fino alla fine, perché troppo critico con Renzi. In Campania, dove sono blindati il figlio di De Luca e Alfieri, l'uomo delle fritture di pesce e delle "clientele come Cristo comanda" Michele Emiliano non riesce a tutelare nessuno dei suoi.
Le liste, vendetta postuma di chi è uscito, certificano l'inagibilità politica del Pd e, con essa, l'umiliazione di chi è rimasto dentro pensando che comunque ci fosse uno spazio e una quota per mantenere vivo un punto di vista. Sconcerto, sgomento, nella lunga notte, il pugno del comando è sbattuto dal Capo anche sui tavoli che riguardano i suoi, travolti anch'essi dal meccanismo di vendette e ricompense. Paolo Gentiloni non riesce a candidare il suo uomo di fiducia a palazzo Chigi, Antonio Funiciello e a salvare Ermete Realacci. Mentre ci vuole tutta la pazienza di Franceschini per tenere Luigi Zanda – un altro a cui non è arrivata una telefonata dal suo segretario - al Senato e non spostarlo alla Camera. Perché il disegno è chiaro. Al Senato andranno Renzi, Carbone, Bonifazi, Giuliano Da Empoli (Lotti e la Boschi non hanno l'età): con un partito sfondato nelle casse, dopo il referendum, e con quello alla Camera ridotto di più della metà, solo al Senato ci saranno un po' di risorse e di incarichi sistemare degli staff. A proposito, Maria Elena Boschi, oltre all'uninominale di Bolzano, sarà candidata in un proporzionale nel Lazio, sempre lontano da Arezzo.
"Questo non è più il Pd", "democratico", "plurale", piovono indignate agenzie, dirigenti come pugili suonati che avevano bisogno del ko per scoprire i muscoli di Renzi. Anche la quota di Delrio, volto del renzismo mite, è ridimensionata. In Emilia Richetti è al secondo posto dopo Valeria Fedeli e Delrio, candidato all'uninominale di Reggio Emilia, è l'unico ministro che non ha un paracadute proporzionale. Escluso Angelo Rughetti, sottosegretario alla Funzione Pubblica, ieri su tutte le pagine dei giornali per la chiusura dei contratti per le forze armate. Il senso di quel che è accaduto è nei numeri che i più attenti sanno leggere: su una stima di 200 eletti, Renzi ha 160 parlamentari suoi, i restanti 40 sono distribuiti tra Martina, Orfini, Franceschini, Orlando. Vai a chiedere un congresso il minuto dopo una sconfitta. Il partito di Renzi c'è, e nascerà in Parlamento. E ora è nelle liste, omericamente trasmesse a voce, prima di tornare sulla scrivania del Capo.