mercoledì 10 agosto 2011

Movimenti e democrazia. Un’altra rotta per l’Europa?

Di Donatella Della Porta, Il Manifesto

Non c’è dubbio che la crisi in Europa è crisi di democrazia, oltre che, o anche prima ancora che, crisi finanziaria. Il neoliberismo è stato ed è, infatti, una dottrina politica che comporta—come bene ha mostrato Colin Crouch nel suo Post-Democrazie—una visione minimalista del pubblico e della democrazia. Vi è non solo la riduzione dell’intervento riequilibrante della politica sul mercato (con conseguente liberalizzazione, privatizzazioni e deregulation) ma anche una concezione elitaria della partecipazione (solo elettorale, e dunque occasionale e potenzialmente distorta) dei cittadini e una crescita invece degli spazi di influenza per le lobbies e gli interessi forti. L’evidente crisi di una concezione e pratica liberale di democrazia si accompagna comunque al (ri)emergere di diverse concezioni e pratiche di democrazia, elaborate e praticate—tra l’altro—dai movimenti che oggi in Europa si sono opposti ad una soluzione neoliberista della crisi finanziaria, accusata di deprimere ulteriormente i consumi e di allontanare quindi ogni prospettiva di sviluppo (sostenibile o meno).

Come è noto (per alcuni casi più che per altri), le misure di austerity in Islanda, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna sono state accompagnate da proteste, durevoli e di massa. In parte queste proteste hanno preso le forme, più tradizionali, degli scioperi generali e delle manifestazioni sindacali che hanno contestato i drastici tagli ai diritti sociali e del lavoro.

Ma c’è stata anche un’altra protesta—non contrapposta alla prima, ma certamente diversa e più direttamente concentrata sui temi della democrazia: la critica a quella esistente, ma anche l’elaborazione di alternative possibili. “Democracia real ya!” è stato infatti lo slogan centrale delle proteste degli indignados spagnoli, che dal 15 maggio hanno occupato Placa del Sol a Madrid, Placa de Catalunya a Barcellona e centinaia di piazze nel resto del paese, chiedendo diverse politiche economiche e sociali, ma anche maggiore partecipazione dei cittadini alla loro formulazione e implementazione. Prima che in Spagna, in Islanda tra la fine del 2008 e l’inizio dell’anno successivo, cittadini auto-convocati avevano chiesto le dimissione del governo e dei suoi delegati nella Banca Centrale e nell’autorità sulle questioni finanziarie e in Portogallo, nel marzo del 2011, una manifestazione, convocata via face book, ha portato portato oltre duecentomila giovani portoghesi in piazza. Le proteste degli indignados hanno ispirato poi simili mobilitazioni in Grecia, dove l’opposizione alle misure di austerity si era già espresse in forme talvolta violenta.

Accusati da parte della sinistra si essere apolitici e populisti (nonché senza idee) e dalla destra di essere l’ultrasinistra, questi movimenti hanno in realtà posto al centro della loro azione quella che tempo fa (a proposito di altri movimenti) Claus Offe aveva definito come “meta questione” della democrazia.
Il discorso degli indignados sulla democrazia è articolato e complesso, riprendendo alcune principali critiche ad una sempre minore qualità delle democrazie rappresentative, ma anche alcune delle principali proposte ispirate da altre qualità democratiche, al di là della rappresentanza, basata sull’accountability elettorale. Queste proposte risuonano con le (più tradizionali) visioni partecipative, ma anche con nuove concezioni deliberative, che sottolineano l’importanza di creare molteplici spazi pubblici, egualitari ma plurali.
Innanzitutto, vi è una critica alle insufficienze—sempre più evidenti—delle democrazie rappresentative, che rispecchia un declinante fiducia nella capacità dei partiti di incanalare domande emergenti nel sistema politico. A partire dall’Islanda, e con forza in Spagna e Portogallo, l’indignazione si indirizza verso una corruzione della classe politica, declinata sia come tangenti (e richiesta di allontanamento dei corrotti dalle istituzioni) vere e proprie, che come privilegi alle lobbies e cointeressenze tra istituzioni pubbliche e potere economico (spesso anche finanziario). A questa corruzione—che è corruzione della democrazia—vengono attribuite molte delle responsabilità della crisi economica e della incapacità di gestirla.

Se la centralità della denuncia della corruzione ha fatto storcere il naso a qualcuno a sinistra (che ancora vede l’antipolitica più nella critica alla corruzione che nella corruzione stessa), lo slogan “non ci rappresentano” è comunque legato anche ad una critica più profonda delle degenerazioni della democrazia rappresentativa, legata alla rinuncia a far politica da parte dei politici eletti, spesso uniti nel proporre una immagine di assenza di alternative, a cui chi protesta non crede. In Spagna, in particolare, il movimento ha chiesto anche una riforma in senso proporzionale della legge elettorale, denunciando (tema validissimo per l’Italia) la riduzione del peso della partecipazione dei cittadini insita nel sistema maggioritario, dove i principali partiti politici tendono a fare cartello e gli elettori vedono limitata la loro capacità di scelta (per questo, si chiede eguale peso di ciascun voto).

La democrazia rappresentativa viene anche criticata per avere permesso—per usare la metafora proposta da Mario Pianta nel suo intervento in questo dibattit--un ratto di democrazia, non solo da parte dei poteri finanziari, ma anche da parte di organizzazioni internazionali, prima di tutto Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea. Patti per l’Euro e patti di stabilità, imposti in cambio di prestiti, vengono considerati come ricatti anti-costituzionali, deprivando i cittadini della loro sovranità.
Per ritornare a fare contare i cittadini, vengono tra l’altro proposte riforme in direzione di una democrazia diretta, che dia la possibilità agli elettori di esprimersi sulle principali scelte economiche e sociali. Per questo, vengono chieste maggiori possibilità di utilizzare referendum, con riduzione dei quorum (di firme ed elettori) e aumento delle tematiche sottoponibili alla decisione referendaria.

Ma c’è anche un’altra visione di democrazia, che la teoria normativa ha definito di recente democrazia deliberativa, e che il movimento per una giustizia globale ha elaborato e diffuso attraverso i social forum come democrazia del consenso. Questa concezione di democrazia è prefigurata dagli stessi indignados che occupano le piazze per trasformarle in sfere pubbliche, formate dai “normali cittadini”. E’ un tentativo di realizzare un’alta qualità di democrazia discorsiva, riconoscendo a tutti (non solo a delegati ed esperti) eguale diritto alla parola (e rispetto) in uno spazio pubblico e plurale, aperto alla discussione e deliberazione su temi che vanno dalle sofferenze vissute alle soluzioni concrete a specifici problemi, dalla elaborazione di proposte sui beni comuni alla formazione di solidarietà collettive ed identità emergenti.

Questa prefigurazione di democrazia deliberativa segue una visione profondamente diversa rispetto a quella che legittima la democrazia rappresentativa basata sul principio di decisione maggioritaria. La qualità democratica è qui infatti misurata dalla possibilità di elaborare idee all’interno di arene discorsive egualitarie, aperte e pubbliche, dove i cittadini sono parte attiva nella individuazione dei problemi, ma anche nella elaborazione delle soluzioni possibili. E’ il contrario di una certa accezione di democrazia del principe, dove il professionista eletto a governare non deve essere disturbato—fino a nuove elezioni, almeno. Ma è anche il contrario della democrazia degli esperti, legittimata dall’output, a cui si sono a lungo appellate le istituzioni europee. Se, soprattutto a partire dal trattato di Maastricht e dall’introduzione dell’Euro, questa legittimazione che fa appello alla capacità di produrre, in modo apolitico e a partire da competenze specialiste, successi economici si è via via ridotta, essa sembra crollare ora a fronte dei risultati disastrosi delle politiche europee nella recente crisi finanziaria e al tentativo di imporre soluzioni neoliberiste a cui sembra che i cittadini europei (che, ad esempio in Spagna e Grecia, hanno dato percentuali di consenso fino al 90% agli indignados) credano sempre meno.


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