E se l’elemento che ha consentito al Pd di entrare in campagna
elettorale con un profilo forte fosse lo stesso che gli impedirà di
vincere?
L’elemento è la sua posizione dentro questa Europa, che è il cuore della carta d’intenti. E il connotato, che si è andato via via precisando, che definirei con qualche approssimazione «filo tedesco»; e che, dal fiscal compact arriva alla sostanziale accettazione del supercommissario europeo alla vigilanza sui bilanci. Elemento che influisce anche sulle forme di rappresentanza del Pd, diciamo «simil Spd», con la differenza che il Pd non è socialista. Differenza che, forse, a Bersani appare più ideologica che strutturale. Quella strutturale essendo l’adesione a quel tipo di itinerario per l’Europa che discende dalla centralità tedesca, tenendo conto della dialettica Cdu/Spd, che al duo Bersani-Fassina è sembrata quella giusta per giocare la partita.
Così, in parte, è stato. Non si può sottovalutare che grazie a questa scelta il Pd si è traghettato in una fase molto difficile in cui si intrecciano due transizioni, quella dalla Seconda Repubblica italiana e quella costituente della nuova Europa post-compromesso sociale.
Ma questo elemento, che rende il Pd una forza affidabile per il governo, non è altrettanto forte dal punto di vista del consenso necessario per esprimere una vera egemonia, che solo una prospettiva veramente positiva può dare.
La scommessa che questa Europa “tedesca” possa evolvere in bene, accompagnando l’austerità con lo sviluppo, è precisamente solo una scommessa. Delle proposte di autoriforma della Ue non c’è traccia nella realtà politica in corso, a partire dalla penosa discussione sul bilancio. L’idea poi che le politiche di contenimento dello spread siano quelle che danno l’ossigeno per la ripresa è stata confutata, oltre che dalla realtà, dalle stesse stime del Fmi. Così come pensare di promuovere la crescita delle nostre imprese a valle del mercantilismo e dell’export-led tedesco fatica a trovare qualche conforto dalla realtà.
Le difficoltà della campagna elettorale del Pd sono, dunque, date dal fatto che il suo punto di forza è anche il suo punto di debolezza. Una debolezza, per giunta, che non è solo del Pd ma viene proiettata direttamente sul paese, sul suo presente e sul suo futuro. Da ciò discendono i fattori che si stanno affermando in campagna elettorale: questa specie di ossimoro che è la «forza/debole» del Pd. Di qui anche la strutturalità del rapporto con Monti, che agisce nello stesso ambito ed è a sua volta un’altra forza/debole, in un connubio che esprime bene il carattere di forza/debole delle attuali politiche europee. E così la politica di Sel rischia di subire una nuova falsificazione: dopo aver creduto di poter vincere le primarie, ora crede di poter traguardare un governo realmente riformatore.
Dall’altro lato c’è la rimonta berlusconiana, peraltro frenata dal fenomeno grillino che ben incarna i materiali che emergono dalla doppia transizione in corso: e leggerlo come populismo serve solo all’auto-trincerarsi delle posizioni «forti/deboli» che forse si affermeranno elettoralmente, in connubio tra loro, ma senza egemonia.
Come si vede, non eccedo in ottimismo sul quadro delle forze date e delle prospettive istituzionali. Non per indifferenza, ma per la coscienza della natura dei soggetti in campo, che non è problema di tattica ma di collocazione strategica. Va posta al centro la dialettica tra questa Europa, che oltretutto condanna l’Italia, e un’altra Europa, che può nascere solo da una rottura reale che viene dalla società e dai movimenti. Per questo è comunque importante che le posizioni di sinistra alternative al simbolo di questa Europa, il fiscal compact, abbiano più forza parlamentare possibile.
L’elemento è la sua posizione dentro questa Europa, che è il cuore della carta d’intenti. E il connotato, che si è andato via via precisando, che definirei con qualche approssimazione «filo tedesco»; e che, dal fiscal compact arriva alla sostanziale accettazione del supercommissario europeo alla vigilanza sui bilanci. Elemento che influisce anche sulle forme di rappresentanza del Pd, diciamo «simil Spd», con la differenza che il Pd non è socialista. Differenza che, forse, a Bersani appare più ideologica che strutturale. Quella strutturale essendo l’adesione a quel tipo di itinerario per l’Europa che discende dalla centralità tedesca, tenendo conto della dialettica Cdu/Spd, che al duo Bersani-Fassina è sembrata quella giusta per giocare la partita.
Così, in parte, è stato. Non si può sottovalutare che grazie a questa scelta il Pd si è traghettato in una fase molto difficile in cui si intrecciano due transizioni, quella dalla Seconda Repubblica italiana e quella costituente della nuova Europa post-compromesso sociale.
Ma questo elemento, che rende il Pd una forza affidabile per il governo, non è altrettanto forte dal punto di vista del consenso necessario per esprimere una vera egemonia, che solo una prospettiva veramente positiva può dare.
La scommessa che questa Europa “tedesca” possa evolvere in bene, accompagnando l’austerità con lo sviluppo, è precisamente solo una scommessa. Delle proposte di autoriforma della Ue non c’è traccia nella realtà politica in corso, a partire dalla penosa discussione sul bilancio. L’idea poi che le politiche di contenimento dello spread siano quelle che danno l’ossigeno per la ripresa è stata confutata, oltre che dalla realtà, dalle stesse stime del Fmi. Così come pensare di promuovere la crescita delle nostre imprese a valle del mercantilismo e dell’export-led tedesco fatica a trovare qualche conforto dalla realtà.
Le difficoltà della campagna elettorale del Pd sono, dunque, date dal fatto che il suo punto di forza è anche il suo punto di debolezza. Una debolezza, per giunta, che non è solo del Pd ma viene proiettata direttamente sul paese, sul suo presente e sul suo futuro. Da ciò discendono i fattori che si stanno affermando in campagna elettorale: questa specie di ossimoro che è la «forza/debole» del Pd. Di qui anche la strutturalità del rapporto con Monti, che agisce nello stesso ambito ed è a sua volta un’altra forza/debole, in un connubio che esprime bene il carattere di forza/debole delle attuali politiche europee. E così la politica di Sel rischia di subire una nuova falsificazione: dopo aver creduto di poter vincere le primarie, ora crede di poter traguardare un governo realmente riformatore.
Dall’altro lato c’è la rimonta berlusconiana, peraltro frenata dal fenomeno grillino che ben incarna i materiali che emergono dalla doppia transizione in corso: e leggerlo come populismo serve solo all’auto-trincerarsi delle posizioni «forti/deboli» che forse si affermeranno elettoralmente, in connubio tra loro, ma senza egemonia.
Come si vede, non eccedo in ottimismo sul quadro delle forze date e delle prospettive istituzionali. Non per indifferenza, ma per la coscienza della natura dei soggetti in campo, che non è problema di tattica ma di collocazione strategica. Va posta al centro la dialettica tra questa Europa, che oltretutto condanna l’Italia, e un’altra Europa, che può nascere solo da una rottura reale che viene dalla società e dai movimenti. Per questo è comunque importante che le posizioni di sinistra alternative al simbolo di questa Europa, il fiscal compact, abbiano più forza parlamentare possibile.
Il Manifesto – 15.03.13
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