mercoledì 13 febbraio 2013

Le maschere di Grillo, Renzi e Bersani di Christian Raimo, Il Manifesto


resize.phpIn un vecchio video datato 1993 che potete rintracciare su youtube c’è una delle ultime apparizioni Rai di Beppe Grillo. Se la prende con chi rema contro una possibile rivoluzione tecnologica democratica, contro il capitalismo che ci imprigiona con le macchine a benzina e non ci fa sviluppare quelle elettriche… La sua retorica è già tutta politica, anche se non lo confessa, anzi. A un certo punto, al minuto 13 circa, Grillo, dopo essersi preso gli ennesimi applausi, si rivolge al pubblico e dice “Non sto qui a fare come quello di Quinto potere. Se divento un messia, fatemi un gesto e mi metto subito questo”: estrae dalla tasca un naso rosso e se lo infila.
Nessuno evidentemente gli fece il gesto, verrebbe da commentare. Così, quello che poteva restare un clown, uno Zanni che manifesta la verità attraverso il suo corpo umile e buffo, si trasformò un tribuno simil-dannunziano che si fa a nuoto lo Stretto di Messina.
Ma anche questa conclusione è riduttiva: non è solo Grillo a essersi trasformato in un profeta qualunquista. È che da quel video sono passati vent’anni e in questo ventennio che per comodità abbiamo definito berlusconiano, qualcosa di irreversibile è cambiato nella comunicazione politica: l’indifferenziazione tra piano letterario e piano ironico, l’identificazione dell’informazione con la performance, la riduzione della verità alla “versione che ha più successo” (Rorty e i suoi epigoni hanno avuto ragione). Grillo ancora non lo sapeva, Berlusconi (“un imprenditore che ha 4000 miliardi di debiti” come lo apostrofava Grillo) invece sì; e pochi mesi sarebbe apparso a fare il suo famoso discorso del Questo è il paese che amo. Le idee non servivano più, bastava l’attorialità.
Ora, in questa campagna elettorale, nessuno si stupisce che il valore delle parole non venga praticamente mai messo a confronto con una dialettica di idee, ma appunto solo con la sua capacità performativa – che siano i sondaggi o lo spread a fare da indici di consenso.
Quello che è invece meno visibile è come i candidati abbiano capito di sfruttare una retorica teatrale precisa, quella comica: privandola però della sua capacità di rovesciamento, di paradosso, di polemica. La comunicazione politica di Bersani e Vendola è stata in definitiva messa all’angolo in questi ultimi mesi da tre comici che utilizzano tre repertori diversi: Grillo, Berlusconi e Renzi.
Il primo si rifà ai comedians anni ’80, Lenny Bruce o Bill Hicks (coloro che lo ispirarono per i programmi tipo “Te la do io l’America”) da cui ha eliminato l’afflato libertario per conservare invece solo la vis accusatoria, una denuncia che spesso si riduce alla ricerca di capri espiatori. Anche per questo riesce a catturare il voto degli under 30, di coloro che sono cresciuti con il sarcasmo liquidatorio dei Griffin o di Beavis & Butthead.
Berlusconi invece, lasciato il bramierismo barzellettaro, riesplora in repertorio della commedia scollacciata anni ’70. Sa che c’è un sacco di gente, soprattutto nella fascia over’60 che si concede volentieri una risata franca sui froci che sculettano, sulle tettone, sui fascisti buoni, sugli ebrei che se la sono cercata. Anche qui, l’elemento goliardico dell’autosberleffo viene completamente rimosso: la scena, da Santoro, della sedia pulita come l’uscita al Binario 21 si rivolgono a elettori euforici, disposti a essere scorretti e a darsi di gomito. Di fronte a lui però Berlusconi non incarna un Pierino indifendibile: ma con un gesto speculare al naso rosso di Grillo, è come un Alvaro Vitali che si toglie i calzoncini e si infila il completo Caraceni.
La comicità di Matteo Renzi è forse quella più contemporanea, anche se datata di fatto agli anni ’90: il suo modello evidente (lo faceva notare in un bel pezzo recente Francesco D’Isa) è un mix tra Panariello e Pieraccioni. Ossia il toscano cazzone che alla fine liquida le questioni con una battuta da adolescente, uno che finisce ogni frase con una specie di adagio del Benigni innocuo degli ultimi tempi: «Si fa per ridere, eh». Il bacino di elettori che va a prendere è proprio quello dei suoi coetanei, la “Generazione Bim Bum Bam” delineata da Francesco Aresu.
La cosa incredibile è che in un paese così arretrato da un punto di vista retorico, tre comunicatori che emulano gli stilemi degli anni ’70, ’80 e ’90 siano la novità di questa campagna elettorale, ma la cosa ancora più incredibile è che questo tipo di comunicazione metta in difficoltà uno come Bersani. Tutto presi ogni volta nel ribadire che il piano informativo non è quello performativo, strillando contro chi non cita i fatti, chi non manterrà le promesse, chi è demagogico…. Ma la sua strategia, su questo profilo, è assurda: è come rimproverare Arlecchino perché fa lo scemo in scena.
Quale allora la contromossa da opporre agli attori, guitti o virtuosi che siano? Occorre rovesciare il meccanismo, o svelare il trucco. Avete presente il coup-de-theatre che i repubblicani avevano preparato nell’ultima convention americana: Clint Eastwood che fece un discorso livorosissimo a una sedia vuota? Beh, non ci volle molto a Obama per capire che non serviva smontare Eastwood argomento per argomento. Bastava mettere una foto su twitter, la nuca di Obama seduto sulla poltrona presidenziale e il messaggio: «Questo posto è occupato»?
Nel frattempo a Bersani consiglio almeno un ripasso di Seinfeld e Louie C.K., ci provi con il suo staff: in fondo non ci vuole molto per inventarsi contromosse del genere e lasciare le boutade sui cani adottati e l’Imu al repertorio di un vecchio guitto all’ultimo giro.

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