mercoledì 1 maggio 2013

"Un Primo Maggio stritolato dalle politiche della compatibilità di Cgil, Cisl e Uil". Intervista a Fabrizio Burattini

Fabrizio Burattini è membro dei direttivo nazionale della Cgil ed esponente dell'area programmatica "Rete 28 aprile".

“Primo Maggio sempre”, abbiamo detto e ripetuto. Primo Maggio, festa del lavoro. Ma che valore acquista in un momento in cui proprio a causa della crisi economica e finanziaria, il confine tra lavoro e non lavoro è sempre più evanescente?
Il primo maggio come è noto è iniziato come una giornata di lotta internazionale, di affermazione di una identità del mondo del lavoro dipendente che via via si è andata trasformando in una festa perché questa identità si è affermata con forza ed è diventata una delle feste laiche ‘comandate’, se così possiamo dire. Questo, parallelamente alla crescita della forza del movimento operaio che andato conquistando con forza in Europa spazi e diritti sempre più ampi. E, soprattutto, affermando un forte orgoglio dei lavoratori nel loro ruolo nella società.
Bene, ma ad un certo punto questa avanzata che doveva avere un esito si è arrestata, anzi ha arretrato, e di parecchio.
Poi è successo che il capitalismo ha mostrato ancora una volta il suo vero volto chiudendo la fase di compromesso sociale del dopoguerra e tirando fuori la faccia liberista ovvero tradizionale, delle sue origini direzionando il suo cammino nel trarre il massimo del profitto e dello sfruttamento dal lavoro. Il Primo Maggio dovrebbe tornare ad essere una giornata di lotta. Ma quello che è cambiato è il volto del movimento operaio organizzato. I grandi sindacati hanno, in modo indolore trasformato la loro funzione sociale da strumenti di autorganizzazione a strumenti di mediazione e, successivamente, finalizzati ad assorbire i colpi dell’avversario e a renderli più digeribili inibendo la capacità di reazione delle classi sfruttate.
Anche una festa simbolica come questa ha perso la sua capacità narrativa verso la società.
Tutto questo da noi ha significato la chiusura della stessa tradizione del Primo Maggio come giornata di lotta a giornata esclusivamente di festa come se gli aspetti di classe sparissero. La vicenda ventennale del concertone sta a dimostrarlo in modo emblematico. Questa giornata deve tornare ad essere una giornata di lotta per continuare ad affermare quei valori, principi ed obiettivi ch abbiamo sempre sottolineato. Il lavoro viene distrutto a piene mani perché la crisi distrugge i mercati e il capitalismo vuole produrre le stesse quantità di merci con meno lavoratori o lavoratori pagati con meno soldi. Ormai il lavoro è una merce che come le altre merci può essere spremuta fino all’inverosimile per trarre profitto.
Paradossalmente ambiente naturale e lavoro stanno subendo lo stesso trattamento, non trovi?
Sì, l’ambiente viene spremuto come il lavoro. E la sua qualità peggiora di giorno in giorno al solo scopo di massimizzare i profitti. In Italia il lavoro sta diventando una merce rara perché vale sempre meno. Con il pauroso incremento della disoccupazione, è chiaro che il Primo Maggio rischia di diventare davvero la festa del non lavoro.
Non credi che uno dei percorsi da reinventare sia quello della confederalità, cioè dell’unità dei lavoratori?
Quello che ha prevalso nel sindacato confederale è stata la logica delle compatibilità fin dagli anni settanta. Si riteneva di poter rivendicare ciò che era raggiungibile con poche spallate. Con questa logica le cose compatibili sono diventate sempre meno e sempre più piccole. Fino a sparire del tutto. Tutte le conquiste rischiano di essere incompatibili con il sistema economico così come è. Non c’è più un argine. Si è cominciato a cedere sulle conquiste già esistenti pensando che il ‘dito salvasse il braccio’ ma in realtà è successo il contrario. In questo senso l’idea dell’estensione dei diritti che il mondo del lavoro aveva è stata un’idea rapidamente accantonata dal sindacato. Come dimostra la vicenda dell’estensione dell’articolo 18, non passato al referendum, anche se ben undici milioni di elettori hanno detto si, nonostante il fuoco di fila contro chi propagandava l’estensione, il non aver raccolto questo risultato e aver avuto un atteggiamento ambiguo ha aperto un crinale verso il basso. L’estensione dei diritti è stata rapidamente archiviata. Ricordo che solo fino a pochi anni fa tra gli obiettivi della Cgil c’era la legge trenta e oggi quest’obiettivo è assolutamente sparito dal suo programma, assolutamente archiviato.
Oggi la Cgil sbandiera il risultato unitario sacrificando di fatto il diritto di sciopero e l’autenticità del voto democratico dei lavoratori. Che fase si apre a questo punto?
La Cgil dopo il periodo di transizione di Epifani, con la direzione di Susanna Camusso fin dall’inizio ha imboccato la strada di una ricostruzione dell’unità con Cisl e Uil. In realtà la Cgil ha sempre avuto bisogno di un riferimento esterno a lei, data la sua sfiducia nelle lotte del mondo del lavoro. Per un attimo nei mesi scorsi si è aggrappata all’illusione che il governo Bersani gli cavasse le castagne dal fuoco, ovvero l’aiutasse ad uscire dal guado. Non c’è alcun governo Bersani e il governo Letta è a forte impronta liberista, e condizionato dai berlusconiani che imporranno l’agenda e gli obiettivi di fondo. Quindi la Cgil ha cercato un altro appiglio, ovvero l’unità sindacale. Un rilancio non praticato più in sordina ma apertamente con l’obiettivo di chiudere la stagione degli accordi separati. Ed è quello che è stato tentato con l’accordo del 28 giugno 2011. Ora sarà difficile avere l’abrogazione dell’articolo 8 con questo governo. Dopo tanti anni si è svolta la riunione degli esecutivi unitari che è sostanzialmente una santificazione della linea unitaria dell’accordo con Squinzi, che dovrebbe arrivare ilo 6 maggio.
E’ un buon accordo secondo te?
E’ un accordo che nella linea del 28 giugno va verso una maggiore certificazione della cosiddetta rappresentatività ma che sostanzialmente esclude poi da ogni possibile diritto sindacale chi non accetta i contenuti dell’accordo. Questo è uno dei principi già applicati negli accordi di Pomigliano e Mirafiori che la Fiom ha osteggiato.
Oggi però la Fiom sembra d’accordo.
Perché Fiom, e anche Gianni Rinaldini, hanno deciso di accettare? Perché fanno un bilancio della battaglia fatta dal 2010 ad oggi, e probabilmente la giudicano fallimentare. Avendo paura dell’isolamento che si è andato via via costruendo scelgono di partecipare alla battaglia per la leadership in Cgil. Questo aspetto è addirittura prevalente sull’altro. Landini ritiene che la leadership di Camusso sia barcollante e quindi pensa di candidarsi a sostituirla. Per il momento allinea la sua posizione a quella della maggioranza, evocando però una gestione diversa, più combattiva, radicale e classista, ma seguendola sulla linea compatibilista. Queste sono le ragioni del formale riavvicinamento.
Perché parli di un bilancio fallimentare?
Se il bilancio della battaglia fatta dopo l’ultimo congresso è fallimentare è perché la battaglia non è stata fatta. Fin dall’inizio si sono tentati tutti i possibili accomodamenti anche con alleanze spurie con settori di sindacati che poi hanno abbandonato la minoranza per tornare con la maggioranza. Quella bandiera è stata raccolta da una parte della ex minoranza che ha una forza ridotta e tenta di riannodare i fili con la base.
Parte di minoranza che con Cremaschi ha vissuto proprio in questi giorni un vero e proprio atteggiamento di apartheid.
Il nostro antagonismo nei confronti della linea della Cgil ha trovato una concretizzazione simbolica nell’esclusione del nostro coordinatore Giorgio Cremaschi dagli esecutivi unitari di Cgil, Cisl e Uil. Solo perché ha chiesto di poter intervenire nella riunione, del tutto celebrativa, è stato alzato e portato di peso fuori. Il rischio è che l’esclusione di Cremaschi sia l’espulsione dei bisogni del mondo del lavoro, e della stessa democrazia, da quel consesso sindacale.

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