sabato 8 giugno 2013

Ex-Zanon, quando la fabbrica è un bene comune. Intervista a Raúl Godoy di Jamila Mascat, Micromega

Operaio, ex-dirigente del sindacato dei ceramisti di Neuquén e ora deputato provinciale per il Frente de Izquierda y de los Trabajadores (Fit), l'argentino Raúl Godoy è in giro per l'Europa, dove ha incontrato i lavoratori in lotta di Peugeot-Citroën (Francia), Seat (Spagna) e Vio.me (Grecia). In quest'intervista, racconta l’esperienza della ex-Zanon, oggi FaSinPat (Fabrica Sin Patrones), che da oltre dieci anni produce piastrelle e pavimenti sotto controllo operaio.


A ottobre del 2001, mentre l’Argentina precipita in una crisi economica e politica senza precedenti, la direzione della fabbrica di ceramica Zanon di Neuquén (in Patagonia) decide − dopo un lungo braccio di ferro con il sindacato ceramista della provincia e una serie di scioperi prolungati – di chiudere l’attività licenziando 380 operai. Molti dei lavoratori licenziati, che si mobilitano già da alcuni mesi per difendere il loro posto di lavoro, occupano lo stabilimento, dando inizio alla storia della FaSinPat (Fabrica Sin Patrones, «Fabbrica Senza Padroni») che ormai va avanti da 12 anni.

Come ha fatto la ex-Zanon a resistere finora?

In realtà la mobilitazione degli operai della Zanon è cominciata un anno prima, all’inizio del 2000, quando Luigi Zanon ha presentato il primo piano di risanamento dell’azienda. Poi, a giugno di quello stesso anno, quando è morto in fabbrica un nostro collega di 22 anni, Daniel Ferrás, abbiamo indetto uno sciopero, che è andato avanti nove giorni, per chiedere l’applicazione delle norme di sicurezza sotto l’ispezione di un assemblea di controllo e per ottenere la presenza di un’ambulanza disponibile 24 ore su 24 in caso di emergenze. L’anno successivo gli scioperi si sono moltiplicati per le minacce di licenziamento (34 giorni, dopo che l’azienda ci aveva messo tutti in cassa integrazione, tra aprile e maggio del 2001) fino a che non siamo stati mandati a casa.

A quel punto abbiamo bruciato collettivamente i telegrammi che ci informavano del licenziamento, organizzato un picchetto per impedire a Zanon di svuotare lo stock e poi abbiamo deciso di occupare lo stabilimento. Non eravamo tutti d’accordo, ma eravamo la maggioranza, più di duecento operai. In fondo non è che avessimo molta scelta, perché di lavoro dalle nostre parti non ce n’era, e quindi riprenderci la fabbrica era l’unica cosa che ci restava da tentare. Per farlo abbiamo dovuto smarcarci dalle direttive dei dirigenti sindacali della Cgt nazionale (Conferación General del Trabajo) e della nostra federazione di categoria, la Focra, che hanno fatto di tutto per ostacolarci. Perciò bisognava farsi largo su due fronti, contro i vertici del sindacato e contro l’azienda.

Nel frattempo a dicembre esplodeva la protesta degli argentini contro il governo. E mentre cadeva la presidenza De La Rúa noi manifestavamo a Neuquén e intanto cercavamo di rimettere in moto la fabbrica: a marzo abbiamo riacceso i forni e a aprile abbiamo sfornato in nostri primi 20mila mq di piastrelle. Non eravamo soli all’epoca però, e non lo siamo mai stati. Ad aprile del 2002 abbiamo promosso il primo incontro nazionale delle empresas recuperadas, organizzato a Buenos Aires nei locali della Brukman, un’azienda tessile trasformata in cooperativa e gestita dalle sarte. In quell’occasione abbiamo festeggiato due traguardi importanti: l’uscita del nostro giornale, che si chiama appunto Nuestra Lucha, e la creazione di dieci nuovi posti di lavoro. Per dimostrare che una fabbrica occupata riesce perfino a dare lavoro ai disoccupati. Infatti il simbolo del nostro sindacato provinciale, il Soecn, è una strada bloccata dalla stretta di mano tra un operaio e un disoccupato. Non saremmo mai riusciti a organizzare i picchetti stradali e a difendere la fabbrica se non avessimo avuto il sostegno della gente: delle famiglie, dei disoccupati (i piqueteros), degli studenti e degli altri lavoratori e lavoratrici che si sono battuti, spesso anche violentemente, con noi e contro Zanon e il governo provinciale ogni volta che hanno tentato di sgomberarci. In realtà comunque in questi undici anni non abbiamo solo resistito, siamo anche cresciuti: nel 2002 eravamo 200, nel 2007 siamo diventati 470, e oggi siamo 600 a lavorare a FaSinPat.

L’esperienza delle cooperative operaie nate in Argentina dopo il crack del 2001 - quasi duecento - ha fatto il giro del mondo grazie ai reportage, ai documentari (penso in particolare a The Take di Naomi Klein e Avi Lewis, che racconta anche la lotta della Zanon) e ai circuiti militanti e di solidarietà. FaSinPat, però, ha scelto fin da subito di puntare su una rivendicazione difficile da ottenere: l’espropriazione e la nazionalizzazione della fabbrica. Che ne è oggi di quella rivendicazione e quali sono gli altri obiettivi che i lavoratori si sono dati in questi anni?

Nel 2003 abbiamo presentato al parlamento della provincia di Neuquén un disegno di legge per l’Espropriazione e la nazionalizzazione sotto controllo operaio accompagnata da una petizione con 50mila firme. Chiedevamo che lo stabilimento fosse espropriato e che il governo provinciale si facesse carico di sostenere la nostra impresa lasciando agli operai la gestione e l’organizzazione del lavoro. Da allora però questa richiesta non è stata mai accolta completamente dalle autorità, ovviamente per ragioni politiche. La nostra lotta è piccola, ma è esemplare e contagiosa: nella zona di Neuquén ci sono quattro aziende di ceramica, di cui adesso tre sotto controllo operaio.

Fin dall’inizio, infatti, non siamo mai stati isolati e questa è stata una scelta strategica fondamentale, perché da subito ci siamo resi conto che l’unica strada da percorrere era quella della solidarietà politica. Bisognava puntare a costruire delle forme di coordinamento con le lotte delle fabbriche occupate e autogestite, con i sindacati combattivi, con le altre mobilitazioni e le rivendicazioni degli altri.

E poi abbiamo socializzato la nostra lotta: “Zanon è del popolo” è stata immediatamente una delle parole d’ordine di questa esperienza. Cioè non è soltanto di chi ci lavora, è di tutti, è un bene comune.

Nel 2009 finalmente il parlamento provinciale ha approvato il disegno di legge sull’espropriazione, ma non ha decretato la nazionalizzazione della fabbrica. In compenso ha risarcito Zanon, il “legittimo” proprietario, che nel 1979 aveva messo su l’azienda con il sostegno economico dei fondi stanziati dalla dittatura militare per la promozione dello sviluppo industriale. In questi anni abbiamo sperimentato spesso quanto la “giustizia” non sia mai stata dalla nostra parte, se non quando è stata costretta perché il rapporto di forza era tale che non si poteva fare altrimenti.

Se la provincia avesse applicato davvero la nostra proposta di espropriare e nazionalizzare l’impresa avrebbe riconosciuto che abbiamo vinto e sarebbe stato troppo. A pensarci bene è paradossale: nel 2001 Zanon è scappato via dopo aver chiuso lo stabilimento e licenziato tutti. Uno stabilimento che invece adesso funziona, produce e dà lavoro più di prima. Dovrebbe essere un buon risultato dal punto di vista del Ministero del Lavoro e di chi ci governa, no? Eppure le istituzioni hanno tentato di sgomberarci almeno una decina di volte dall’inizio dell’occupazione e per fortuna finora non ci sono riuscite. Non solo: hanno anche cercato di intimidire i nostri dirigenti sindacali, minacciando perfino le loro famiglie. Significa che per il governo siamo pericolosi. Forse proprio perché in questi anni abbiamo apportato contributi positivi, mostrando un’alternativa alla fatalità dei licenziamenti e cercando di produrre e condividere la ricchezza sociale che produciamo.

Nel 2004 per uscire dall’illegalità abbiamo creato la cooperativa FaSinPat (Fabrica Sin patrones). Fino ad allora avevamo trovato delle soluzioni di emergenza: per esempio vendevamo il mattonato, ma visto che non potevamo fatturare direttamente, le Madres de la Plaza de Mayo ci facevano da tramite per i pagamenti. Da quando siamo diventati una cooperativa la situazione è stata normalizzata, cioè non siamo più fuori legge. Si è trattato di un compromesso rispetto a quello che rivendichiamo fin dal 2001 che però ci ha permesso di andare avanti economicamente e politicamente.

Non è facile capire in concreto che cosa significa produrre sotto controllo operaio. Per prima cosa: come è cambiato il lavoro e sono cambiate le condizioni di lavoro per i dipendenti?

Concretamente è stato difficile anche per noi capire come fare! Nessuno sapeva bene da dove cominciare, perché nessuno aveva mai fatto niente di simile: occupare una fabbrica e difenderla o anche solo rompere un sigillo per riaprire una tubatura di gas e riaccendere i forni che erano stati spenti. Abbiamo dovuto vincere molte resistenze mentali. Eravamo abituati a pensare che ci fosse bisogno di una direzione aziendale che prendesse le decisioni e ci sentivamo spaesati. Poi abbiamo cominciato a mettere insieme le competenze dei vari settori e nel giro di qualche mese abbiamo ricominciato a produrre. L’assemblea generale è l’organo che ha l’ultima parola su tutto, nel senso che le decisioni di qualsiasi tipo - dall’approvazione del bilancio alla pianificazione della produzione, passando per l’elezione dei rappresentati sindacali - vengono prese collettivamente in assemblea. E questo elemento fa la differenza, sicuramente. Se però dicessi che siamo riusciti a lavorare meno, direi una bugia. Siamo riusciti a assumere nuovi dipendenti, questo sì, ma non siamo riusciti a ridurci la giornata di lavoro a 6 ore come avremmo voluto. Lavoriamo ancora con turni di 8 ore, comunque sempre meglio dei turni da 12 che avevamo prima. E in più abbiamo stabilito un principio di rotazione che vale per tutti gli incarichi e le mansioni.

Lo stipendio che prendiamo, uguale per tutti senza distinzione di categoria, è quello stabilito dal contratto nazionale del nostro settore; non siamo diventati più ricchi, ma non è certo quello l’obiettivo.

Una cosa importante che dimostra come le condizioni materiali di lavoro siano cambiate da quando la fabbrica la gestiamo noi è che non abbiamo più avuto incidenti, mentre prima almeno una volta l’anno succedeva qualcosa di grave [25 incidenti al mese, 14 morti dal 1979]. Direi che in generale il modo di lavorare è diverso da tutti i punti di vista, soprattutto dal punto di vista della consapevolezza e della creatività. Constatiamo gli sprechi, pensiamo a come evitarli, a come migliorare la qualità dei prodotti, tutte cose di cui gli operai normalmente si disinteressano. E poi nei momenti di difficoltà siamo costretti a inventarci delle soluzioni nuove, come quando abbiamo dovuto compensare alla mancanza di alcuni pigmenti e solventi di importazione. In quell’occasione ci siamo resi conto che alcune materie prime che pensavamo che fossero indispensabili in realtà non servivano e che altre invece potevano essere rimpiazzate. Oppure abbiamo creato nuove linee di prodotti per andare incontro alle esigenze della popolazione locale provata dalla crisi: nel 2003 abbiamo cominciato a sfornare un tipo di mattonella economica in 4 colori diversi che costava la metà rispetto ai prezzi di mercato delle mattonelle di base. Un’altra idea è stata quella di lanciare la serie Mapuche in omaggio alle comunità mapuche di Neuquén che per solidarietà ci permettono di rifornirci dalle cave di argilla che si trovano nei loro territori. Si tratta di diversi tipi di piastrelle decorate con dei motivi tradizionali ideati dai disegnatori mapuche e poi serigrafati in fabbrica. Per noi è sia un modo per esprimere il nostro sostegno alle comunità native oppresse da centinaia di anni e sia una dimostrazione del fatto che le alleanze dal basso pagano e riescono a essere perfino creative. Insomma in questi anni abbiamo guadagnato competenze e solidarietà, non è poco.

A proposito di guadagni. Come si amministra una fabbrica senza profitto? Quali sono le principali difficoltà che FaSinPat ha incontrato in questi dodici anni per gestire l’impresa e far quadrare il bilancio?

Non fare profitto significa poter assumere 400 lavoratori in dieci anni e sfornare oltre 400mila mq di ceramica al mese. Ma significa anche non essere competitivi, tanto che l’unica delle quattro fabbriche di ceramica di Neuquén che attualmente non è sotto controllo operaio ha cento dipendenti che producono quanto produciamo noi in 600 con macchinari più vecchi e più dispendiosi. Finora siamo andati avanti, è vero, ma siamo un’isola nell’oceano del mercato concorrenziale. E la crisi rende questa contraddizione ancora più acuta.

Il punto è che il nostro obiettivo fin dall’inizio è stato principalmente politico: volevamo che Zanon fosse un avamposto di lotta e un esempio per tutte le fabbriche che andavano incontro alla chiusura.

Poi non fare profitto vuol dire anche decidere di fare della fabbrica un bene comune e metterla al servizio della popolazione locale. Un progetto che ci sta a cuore, per esempio, è regalare regolarmente materiali per la costruzione e la manutenzione delle strutture che ne hanno bisogno: ogni mese doniamo una quota della nostra produzione di piastrelle alle scuole, alle associazioni popolari e anche alle famiglie in difficoltà.

Ovviamente non ci si guadagna nulla a fare una cosa del genere in termini di denaro; il “guadagno” è di altro tipo. Spesso in questi anni abbiamo fatto esperienza di scambi e di supporto: dall’università e dall’ospedale di Neuquén abbiamo avuto consulenze scientifiche e cure gratis, con altre fabbriche vicine e lontane abbiamo creato un tessuto di solidarietà politica oltreché materiale. E perfino con un albergo di Buenos Aires, diventato cooperativa, l’Hotel Bauen – abbiamo trovato un modo per scambiarci aiuto reciproco: loro hanno le nostre mattonelle, noi abbiamo ospitalità gratis quando siamo in città!

Di situazioni concrete che ci obbligano a misurarci con la necessità di privilegiare obiettivi politici, che spesso contravvengono alla logica della ragione economica, ne capitano spesso in assemblea. Come quando per esempio dobbiamo decidere di sospendere la produzione per un’intera giornata per andare a un picchetto o per partecipare a una manifestazione a sostegno degli insegnanti delle scuole o dei piqueteros. Per noi è fondamentale continuare a essere una fabbrica di operai in lotta e non un fabbrica di padroni di noi stessi. In questo senso FaSinpat è una trincea, che resiste tentando di promuovere l’espansione delle lotte e delle esperienze di controllo operaio.

Durante questo viaggio in Europa hai avuto modo di incontrare gli operai di Goodyear di Amiens che si battono contro i licenziamenti, gli operai della fabbrica Peugeot-Citroën di Aulnay-sous-Bois in sciopero per quattro mesi contro la chiusura del loro stabilimento, i lavoratori di Seat a Barcellona e poi i lavoratori dell’azienda Vio.me di Tessalonica, ex fabbrica di materiali edili riconvertita alla produzione di detersivi, che da febbraio è sotto controllo operaio. Come interpreti questi segnali di mobilitazione dei lavoratori nel contesto della crisi economica europea? Il controllo operaio può essere un’alternativa e una risposta alla chiusura delle fabbriche?

Ero stato in Europa per la prima volta nel 2005 per raccontare, già all’epoca, l’esperienza di Zanon. Adesso tornando ho trovato un’atmosfera sicuramente più movimentata. In Francia in questi anni molti lavoratori si sono mobilitati contro la crisi e contro i licenziamenti – penso appunto a Continental e Philips nel 2009-2010; a Goodyear, Renault, PSA nel 2012 e a tanti altri – e questo testimonia di una radicalizzazione della conflittualità sociale, fa ben sperare. In Grecia i lavoratori della Vio.me di Tessalonica sono per il momento un’oasi nel deserto. Un deserto fatto di disoccupazione al 30 cento, negozi e fabbriche che chiudono in massa, e lavoratori e bambini che sopravvivono facendo i venditori ambulanti.

Per certi versi mi ricordano la nostra esperienza di Zanon undici anni fa. Il collasso economico, gli stessi nemici – la “giustizia”, il governo, le autorità – e lo stesso bisogno di essere sostenuti per andare avanti.

A Zanon abbiamo sempre ripetuto: «Si tocan a uno, tocan a todos», per dire che è fondamentale che si faccia fronte comune per difendersi dagli attacchi che inevitabilmente un’esperienza del genere è destinata a subire. E poi abbiamo un altro motto che dice: «fabbrica che chiude = fabbrica da occupare» e da rimettere in produzione sotto controllo operaio.

Non sto dicendo che il controllo operaio sia la ricetta della felicità. È uno stato di lotta permanente, un percorso a ostacoli, infinitamente faticoso, che però ha un merito: dimostrare la capacità dei lavoratori di organizzarsi e promuovere un modo di funzionamento della società diverso. Per questo è una risposta esemplare alla crisi, perché contrasta la rassegnazione diffusa, il fatalismo e il senso di impotenza che ogni crisi porta con sé. E perché restituisce una prospettiva combattiva a tutti lavoratori e anche a chi il lavoro non ce l’ha. Però per continuare a esistere ogni azienda autogestita deve crescere, espandersi e riuscire a guadagnare la solidarietà delle lotte popolari, altrimenti da sola non ce la fa, è impossibile.

Certo, l’obiettivo in realtà, come ha detto Celia Martínez, un’operaia tessile della Brukman, sarebbe molto ma molto più ambizioso: “Si nosotro/as, lo/as obrero/as, podemos manejar una fábrica, podemos manejar al país” (Se noi, operai/e, possiamo gestire una fabbrica, allora possiamo governare il paese). Sicuro. Ecco, quella sarebbe la vera posta in gioco.

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