domenica 7 luglio 2013

IL CONGRESSO DEL PDCI E LA QUESTIONE DELLE ALLEANZE E DEL POSIZIONAMENTO STRATEGICO di Domenico Moro




Indifferenti alla crisi della sinistra politica
“L’Italia rappresenta una anomalia in Europa.
È il Pd di centro-sinistra il più ansioso di applicare l’austerità fiscale imposta dalla Commissione Europea e dalla Germania,mentre il Pdl di centro destra è felice di ignorare il tetto al deficit…”
The Economist, 29 giugno 2013
1. Premessa: la tattica non è tatticismo
Il congresso di un partito comunista rappresenta il momento più alto di discussione e di creatività di pensiero della comunità politica di donne e uomini che lo compone. Eppure, troppe volte i nostri congressi si sono caratterizzati per dibattiti rituali. I veri temi e le divisioni politiche sono rimasti sottaciuti o sullo sfondo, mentre il confronto si incentrava sulla composizione degli organismi dirigenti. Per questa ragione, i documenti congressuali hanno avuto spesso la tendenza a non entrare o a rimanere sul generico su questioni di decisiva importanza. Questo modo di procedere, oltre a non favorire la crescita del partito, ha prodotto una linea incerta e contraddittoria, contribuendo alla grave crisi in cui ci troviamo. È, invece, molto importante riuscire a definire l’analisi della realtà e la linea politica che se fa derivare in termini quanto più chiari sia possibile.
Uno degli aspetti sui quali è necessario fare maggiormente chiarezza è quello delle alleanze e del posizionamento che il partito deve assumere sul terreno dello scontro di classe. Entrambi questi temi sono stati, però, trattati spesso come una mera questione di tattica. Secondo alcuni, scegliere il posizionamento o le alleanze politiche del partito è una questione da non definire, in quanto dipenderebbe dal momento.  In sostanza, si preferisce lasciarsi le mani libere, in modo da poter decidere a seconda del mutare degli eventi.
In questo modo di pensare ci sono due difetti. Il primo sta nel fatto che la tattica viene confusa con il tatticismo. Ciò significa che, se è pur vero che l’azione tattica deve potersi adattare all’evoluzione della situazione, non è per questo vero che non debba essere definita, almeno in riferimento ad un certo periodo e nei principi di fondo, sulla base dell’analisi, per l’appunto, della situazione. In caso contrario, si consegna l’iniziativa alle altre forze politiche e ci si condanna ad agire sempre di rimessa sulle iniziative degli altri e quindi alla subalternità. Il secondo difetto sta nel fatto di ritenere la tattica come qualcosa di staccato dalla strategia. Al contrario, la tattica deve discendere dalla strategia ed essere coerente con essa. Non si può dire una cosa e agire diversamente nella pratica. In questo modo, si crea confusione e disorientamento all’interno delle proprie fila e soprattutto fra la classe lavoratrice, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Infine, se è vero che la tattica è legata al contingente, la politica delle alleanze e soprattutto il posizionamento del partito nel contesto politico sono, in parte non indifferente, non contingenti. Infatti, attengono a valutazioni di fondo sul rapporto intercorrente tra i partiti, le classi e la fase economico-politica. Per questa ragione, come vedremo meglio alla fine, assumono il carattere di questioni strategiche.
La mia opinione è che il documento licenziato dalla Commissione politica per il Congresso straordinario 2013 del PdCI, pur mostrando un tentativo di superare i limiti dei precedenti documenti, non riesca a farlo sufficientemente su alcuni punti decisivi. Viceversa, a mio parere, danno un contributo importante a compensare i limiti del documento gli emendamenti sostitutivi alle tesi 24 e 30 e quello aggiuntivo (1bis), presentati dal compagno Nobile e firmati da diversi membri del Comitato Centrale.
2. Un’analisi delle classi e della fase insufficiente
Da parte degli estensori del documento si prova a definire una analisi dei partiti politici italiani principali, che in precedenza era mancata. Tuttavia, questa analisi è ancora parziale e presenta dei forti limiti. Tali limiti dipendono anche dalla mancanza, se non per qualche rapido riferimento, di una analisi delle classi sociali e da una analisi insufficiente e non sempre coerente della fase storica – caratterizzata dalla mondializzazione e dalla crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale - che sta attraversando l’Europa e il modo di produzione capitalistico nel suo complesso. Gli esiti disastrosi del processo di unità europea non sono effetti di una sua gestione sbagliata, basata su politiche “irrazionali” e sull’egemonia tedesca. Ciò ovviamente non significa che le politiche di austerity non siano sbagliate e che la Germania non abbia approfittato dell’euro come leva competitiva contro gli altri Paesi. Il punto, però, è che è il processo di unità europea è nato specificatamente allo scopo di sconfiggere il movimento operaio europeo, bypassando i parlamenti nazionali e vincolando le decisioni nazionali ad una autorità sovrannazionale. L’area euro non è una area valutaria ottimale, e l’euro è, in sé stesso, un potente strumento di deflazione salariale. Del resto, la stessa classe salariata tedesca è stata la prima a pagare l’introduzione dell’euro in termini di caduta del potere d’acquisto dei salari e con una controriforma del mercato del lavoro, diventata un modello anche per gli altri Paesi.
Il processo di unificazione europea, in particolare quella valutaria, e le politiche che ne conseguono sono spiegabili, in primo luogo, con la volontà da parte della borghesia europea di gestire la crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale, che si manifesta in Europa in forma più accentuata che altrove, con il taglio dei salario diretto, e soprattutto differito (pensioni) e indiretto (welfare), in modo da favorire il rialzo del profitti e costruire economie basate sull’export di capitali e merci. Il martellare della Confindustria e dei governi sulla riduzione del costo del lavoro, cioè delle contribuzioni aziendali al welfare, va in questo senso.
È, quindi, abbastanza curioso che nel documento congressuale si sposi, con una formulazione ambigua, la riduzione del costo del lavoro (Tesi n.16), mentre è semma di una ridefinizione dell’Irpef che bisognerebbe parlare.
Necessariamente collegata alla controriforma del mercato del lavoro e del welfare è la controriforma del sistema politico-istituzionale, a partire dalla controriforma della Costituzione. Ma c’è un’altra questione decisiva, perché di carattere strutturale. Nel documento non si colgono né la natura né soprattutto le implicazioni delle trasformazioni del modo di produzione capitalistico negli ultimi decenni. Il capitale è diventato prima multinazionale, nel senso che la dimensione degli investimenti all’estero delle imprese è diventata prevalente, e poi transnazionale, nel senso che la stessa proprietà dei capitali è diventata multinazionale. Si è così creata una classe capitalistica transnazionale che basa la sua forza sulla forte integrazione sovrannazionale, soprattutto su base europeo-occidentale e atlantica. Questa classe è il livello apicale della classe borghese ed è egemone sul piano economico, politico e culturale.
Il processo di unificazione europea è espressione di queste tendenze del capitale, determinando una situazione certo estremamente complessa ma in cui vanno distinte le contraddizioni principali da quelle secondarie. Infatti, se la forma in cui le contraddizioni europee si esprimono è nazionale, la sostanza è di classe. Dunque, la questione centrale, per noi, non è soltanto e soprattutto il recupero della sovranità nazionale, quanto il recupero dell’agibilità e dell’autonomia politica della classe dei salariati sul piano nazionale ed europeo. Inoltre, il problema non sta tanto nel definire le modalità tecniche di uscita dall’euro, quanto soprattutto nell’individuare, sul piano politico, l’unione valutaria europea come obiettivo centrale del contro-attacco della classe lavoratrice. Infatti, l’euro è il “cavallo di Troia” che ha forzato la resistenza delle classe lavoratrici nazionali e senza di esso tale attacco verrebbe fortemente indebolito. Parlare di lotta all’austerity, di rinegoziazione dei trattati europei, e di reintroduzione del pubblico nell’economia senza risolvere il nodo del ruolo dell’euro è politicamente debole.
3. Una analisi del Pd e del Pdl carente
Come detto, l’analisi dei partiti politici è carente. A Berlusconi ed al centro-destra viene riservata l’analisi più ampia (Tesi 22). Entrambi vengono presentati come una “anomalia” rispetto alla destra europea, per il carattere mafioso, piduista e fascistoide, che ha scatenato un riflesso da “fronte democratico” senza, si riconosce, che questo abbia condotto ad una reale alternatività programmatica. Infine, Berlusconi, il Pdl e la Lega sono individuati come rappresentanti del settore più arretrato del capitale italiano: “Ma quello che ancora va denunciato è il carattere regressivo della proposta economico-sociale della destra, non solo perché rappresenta la parte più antipopolare ed antioperaia della politica italiana, ma per la rappresentanza di interessi contrari ad uno sviluppo industriale e produttivo del paese di tipo moderno e avanzato, fondato sulla ricerca, l'innovazione e sul vero rischio di impresa.” La destra, è detto, si caratterizza per “l’elogio sperticato dell’iniziativa individuale” ed è “anti-statalista radicale”. Anche l’accentuarsi della spaccatura del Paese tra Nord e Sud viene imputata a Berlusconi e alla Lega, così come le controriforme costituzionali ed il federalismo.
Dall’altro lato, al Pd vengono dedicate appena poche righe (Tesi 24), sebbene alcune valutazioni siano espresse anche altrove (Tesi 21). Il giudizio sul Pd è abbastanza contraddittorio. La relazione del Pd con i “poteri forti” (un termine ambiguo che andrebbe abbandonato) viene definita come “subalternità” che appare essere dettata, da una parte, da incapacità, persino da “autolesionismo” (come nel caso dell’accettazione del governo Monti) e, dall’altra, dal fatto che al suo interno “una parte crescente è vincolata in modo sempre più organico [a quei poteri forti].” (Tesi 21) Più precisamente, secondo gli estensori del documento, il Pd, solo dopo la sconfitta di Bersani, si è legato organicamente ai poteri forti: “Dopo la sconfitta di Bersani, settori rilevanti del gruppo dirigente del Pd fanno ormai parte in modo sempre più organico del blocco moderato e centrista, sia a livello nazionale che euro-atlantico.” (Tesi 24) L’adesione alle politiche europeiste non sarebbe dettata da una scelta consapevole politica o da una concezione ideologica, ma dal solito “autolesionismo” del Pd. Di fatto, l’analisi delle due forze politiche non è molto cambiata rispetto al passato: Berlusconi rimane il <> mentre il Pd, al peggio, fa la figura di una congrega di ingenui o di incapaci, i cui dirigenti paiono meritevoli di un ciclo di terapia di gruppo.
Se andiamo alla sostanza delle cose, osservando i fatti degli ultimi 20 anni, ci accorgiamo che le cose non stanno esattamente in questo modo. L’organicità del Pd al progetto di ristrutturazione del capitale non data alla sconfitta di Bersani del 2013 e neanche al governo Monti, ma a molto prima. È dagli anni ’90 che il Pds-Ds-Pd si fa interprete fedele delle linee-guida della ristrutturazione economica e politica che attraversa l’Europa. Sono dovute a questo partito: l’introduzione del maggioritario e del bipolarismo all’anglosassone, che rispecchia l’adesione al principio della “governabilità” e la subordinazione del Parlamento al governo; la prima controriforma del mercato del lavoro con il pacchetto Treu, che ha aperto la strada alle successive controriforme; l’allineamento costante agli indirizzi atlantici, che ha raggiunto il suo picco con i bombardamenti sulla Serbia del governo D’Alema; e la ridefinizione del modello di difesa italiano, basato sull’aumento delle spese miliari (più del governo Berlusconi) e sulle operazioni belliche “fuori area”. Inoltre, a proposito di iniziativa individuale e anti-statalismo radicale, dovremmo ricordare che le privatizzazioni, che hanno consegnato le imprese statali ai grandi gruppi italiani e stranieri, sono state effettuate quasi tutte dai governi di centro-sinistra e la madre di tutte le privatizzazioni, quella di Telecom, dal solito D’Alema.
Inoltre, l’attacco alla Costituzione (e alla Resistenza) è stato iniziato dal Pds e la modifica del Titolo V è passata con l’avallo dei Ds. Soprattutto, il Pds-Ds-Pd è stato in Italia il più fedele fautore del processo di unificazione europeo, in particolare di quello valutario, e del rispetto dei trattati e dei vincoli che ne sono derivati.
Le decisioni del Pd non possono essere considerate “autolesionismo”, bensì sono una dimostrazione di coerenza con una linea-guida strategica precisa, che fa capo a scelte di classe e ad un impianto ideologico precisi le cui basi sono state poste con la fondazione del Pds. Per molti anni l’antiberlusconismo ha offerto un comodo alibi al Pds-Ds-Pd, permettendogli di portare avanti la sua linea politica antipopolare. Del resto, tutte le volte che ne avrebbe avuto la possibilità non ha mai affondato il colpo su Berlusconi, per preservare il bipolarismo che, con la trasformazione in Pd, ha tentato di trasformare in bipartitismo. Di fatto, al di là delle parole di fuoco che si sono scambiati, il Pds-Ds-Pd e Forza Italia-Pdl hanno condiviso una linea bipartisan sulle questioni decisive per decine di milioni di lavoratori. La conferma definitiva di quanto diciamo si è avuta, prima, con la partecipazione dei due partiti al governo Monti, voluto fortemente dal capitale europeo e italiano, che ha visto il Pd compartecipe delle misure più antipopolari degli ultimi cinquanta anni, tra cui l’aumento dell’età pensionabile, la controriforma Fornero (difesa recentemente dal “socialdemocratico” Barca, già ministro di Monti) e soprattutto l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. E, in forma più “pura”, nel governo Letta-Alfano delle “larghe intese”, cui non ha avuto scrupolo di partecipare neanche l’ala cosiddetta “socialdemocratica”, come dimostra l’incarico di viceministro dell’economia di Fassina, uno dei maggiori sostenitori del rispetto dei vincoli di bilancio europei.
Un ulteriore aspetto da considerare, per spiegare la natura di classe di Pd e Pdl, è la composizione della classe capitalistica in Italia. Al suo interno lo scontro è stato sempre particolarmente feroce, salvo poi accordarsi, da bravi “fratelli nemici” contro i lavoratori. Fino ad oggi, il settore del capitale più importante era quello costituito dalla cosiddetta “Galassia del Nord”, i componenti del patto di sindacato di Rcs-Corriere della Sera. Attorno a Mediobanca si raccoglievano i principali gruppi italiani, tra i quali Fiat, Assicurazioni Generali, Pirelli, Banca Intesa, Unicredit, legati da partecipazioni azionarie intrecciate tra di loro e con il capitale transnazionale di cui sono parte organica. Sebbene sia un capitalista multinazionale, Berlusconi è sempre stato considerato un outsider dal “salotto buono” del capitale, anche se pochi anni fa è riuscito ad entrare nel patto di sindacato di Mediobanca. I suoi rapporti con il settore dominante del capitale italiano, e di conseguenza con quello transnazionale europeo e Usa, sono stati quasi sempre conflittuali, come dimostrano gli attacchi costanti di The Economist, nel cui consiglio d’amministrazione siede John Elkann, che fa parte anche del gruppo Murdoch, principale concorrente di Berlusconi, e sta ora acquisendo il controllo di Rcs-Corriere della Sera. La defenestrazione, a fine 2011, di Berlusconi, ritenuto non più adatto a garantire il mantenimento del processo europeo, è avvenuta proprio sulla spinta del capitale transnazionale, che ha trovato e continua a trovare in Napolitano un punto di riferimento importante.
Il capitale transnazionale e i suoi esponenti in Italia appaiono molto più vicini al Pd e al centro-sinistra, per la linea di politica economica generale ed europeista che questo porta avanti. Tanto che Bersani ha beneficiato alle ultime elezioni dell’endorsement di The Economist, oltre che del Corriere della Sera, mentre sono gli uomini di punta del centro-sinistra ad essere sempre stati presenti ai forum del capitale transnazionale come il Bilderberg e la Trilaterale, da Romano Prodi a Padoa-Schioppa, a Marta Dassù a Enrico Letta. Soprattutto questo settore del capitale è caratterizzato, come del resto tutto il settore transnazionale, dal monopolio e dall’oligopolio, nonché dalla spiccata finanziarizzazione. Quindi, risulta molto difficile attribuire caratteristiche di parassitismo e putrefazione, come l’avversione all’innovazione, al rischio d’impresa e alla libera concorrenza, unicamente al blocco sociale di centro-destra come fa il documento congressuale. In effetti, la linea di politica economica del Pd, fatta di privatizzazioni, deregolamentazioni e liberalizzazioni, ha contribuito fortemente a ricondurci ad una economia dominata, come nell’immediato dopoguerra, da poche grandi holding italiane e straniere, corresponsabili della stagnazione dell’economia nazionale. Inoltre, a voler sottilizzare, del blocco sociale di centro-destra, per sua natura molto composito, hanno fatto parte anche settori industriali di piccola, media e grande impresa, non monopolistici e non oligopolistici e certamente non più chiusi alla concorrenza delle banche e delle corporation transnazionali, e i settori sopravvissuti delle partecipazioni statali, da Finmeccanica, all’Eni, all’Enel, che rappresentano la gran parte dell’investimento in ricerca e sviluppo italiano. Il fallimento del Pdl e soprattutto della Lega sono da collegarsi alla loro incapacità di difendere soprattutto i settori piccolo e medio borghesi dal capitale transnazionale e monopolistico.
Con questo naturalmente non vogliamo dire che la pericolosità del blocco sociale berlusconiano sia da sottovalutare, ma che non è possibile effettuare, dal punto di vista della classe lavoratrice e in questa fase storica, una distinzione tra i due principali partiti. Del resto, il fallimento del bipolarismo e del bipartitismo, testimoniato dal crollo dei voti assoluti di entrambi (sottolineo entrambi) i partiti e dal crescente astensionismo, soprattutto di settori del lavoro salariato e della piccola borghesia, dimostra quanto la percezione di massa si sia adeguata a questo dato di fatto molto più rapidamente della nostra capacità d’analisi.
Quando si analizza un partito, come insegnava Gramsci, bisogna distinguere la “base di classe”, cioè la classe di cui è organica espressione, dalla “base di massa”, ovvero il bacino di consenso. Ebbene, se osserviamo oggettivamente la condotta del Pd dell’ultimo ventennio, il gruppo dirigente del Pd nel suo insieme - e non in “una parte” o in “settori rilevanti del gruppo dirigente” - è espressione organica degli
interessi di un settore del capitale, quello transnazionale e monopolistico. Al contempo, la sua presenza tra la classe operaia e tra il lavoro dipendente privato è drasticamente diminuita fino a raggiungere livelli uguali o inferiori a quelli del Pdl.1 Per di più, essendo il settore transnazionale quello apicale e dominante, e con spiccate caratteristiche imperialiste, è tutt’altro che il settore del capitale meno pericoloso e aggressivo. Dunque, non è possibile pensare ad una alleanza, per quanto tattica possa essere, con questo settore né, dunque, con un partito che ne sia espressione organica.
4. Un orizzonte strategico fuori dal centro-sinistra, per un Fronte unito di sinistra
Lo scontro politico, con la scomparsa del Pci e in genere dei partiti di massa, è diventato sempre di più uno scontro tra élite organizzate che hanno i mezzi economici, ideologici e comunicativi per contendersi il voto di maggioranze disorganizzate. Tuttavia, i grandi partiti non sono destinati a scomparire, ma a modificarsi, perché le minoranze capitalistiche continuano ad avere bisogno dei grandi partiti per affermare il proprio potere. Infatti, il vero dato nuovo è l’integrazione e l’interconnessione tra il personale politico e il personale economico. La vera corruzione non è quella descritta dalla vulgata sulla “casta”, personificata da Fiorito, il “Batman” di Anagni, ma una corruzione più raffinata, basata sulla commistione e integrazione sistematica tra vertici economici e vertici politico-burocratico-istituzionali.2 È del tutto evidente che è tale commistione l’origine del funzionamento non democratico e dell’inesistenza di un dibattito reale all’interno dei partiti principali, in cui il vertice deve poter dominare sulla base. Così come è evidente che lo scollamento con la maggior parte del corpo elettorale dipende soprattutto dall’adesione di questi partiti alla linea del capitale transnazionale. Di fatto, il sistema istituzionale ed elettorale, e con esso i partiti, è stato trasformato in un sistema in cui le forze politiche debbano necessariamente convergere al “centro”, che in effetti non è un vero centro moderato, come si insiste a dire, ma una posizione di destra effettiva, basata su principi e linee-guida espressione dell’egemonia del capitale transnazionale.
Il punto che ci riguarda più da vicino è che le forze di sinistra più piccole sono state trascinate anch’esse da questo movimento centripeto a causa della adesione a forme di alleanza con il Pds-Ds-Pd che le hanno rese o compartecipi o passivi spettatori del processo di ristrutturazione, alienandole dal loro elettorato storico e potenziale. In realtà, non sostengo che una alleanza di questo tipo sia sempre stata priva di senso. Il punto è che i piccoli partiti non sono stati capaci di stare dentro tale alleanza e soprattutto di sfruttare le contraddizioni dell’avversario di classe, cioè lo scontro senza esclusioni di colpi tra Berlusconi ed il suo blocco sociale e i settori di grande capitale transnazionale. Al contrario, è stato l’avversario a sfruttare e ad operare divisioni nel nostro campo. L’antiberlusconismo - insieme al ritenere che il vero problema per l’Italia fosse il “berlusconismo” invece che una ristrutturazione capitalistica che andava ben oltre - ha inibito quella capacità di manovra e di ricatto che i piccoli partiti politici devono e possono utilizzare. Un esempio di tutti questi tipi di errori si ha quando il Prc fece cadere il governo Prodi I nel momento sbagliato, mentre il Pdci commise l’errore di rimanere nel governo D’Alema, che successe al Prodi I, nonostante la partecipazione ai bombardamenti Nato.
Con il passare degli anni il processo di ristrutturazione e soprattutto il processo di unificazione monetaria hanno ridotto i margini di mediazione tra le classi rendendo la nostra presenza nelle compagini governative sempre più superflua e fattore di discredito agli occhi delle masse, che vedevano le loro condizioni peggiorare progressivamente. Personalmente sono convinto che una uscita ben motivata dal Prodi II in tempi utili ci avrebbe permesso di limitare i danni e di porre le premesse per un rilancio. Ma ciò non è avvenuto: il governo è caduto per mani di altri ed alle elezioni successive siamo spariti dal Parlamento e, cosa più importante, dalla società. A chi dice che la nostra decadenza ha origine più antica e che i nostri problemi sono più strutturali, dall’aver trascurato il marxismo, all’insufficienza organizzativa, al mancato radicamento, al sistema elettorale, dico che ha ragione. Ma aggiungo che questi limiti vengono esaltati o dipendono, in ultima istanza, dalla nostra vera debolezza: la mancanza di una vera autonomia ideologica e politica. Una carenza che ci ha impedito di prendere le decisioni giuste e ci ha tenuti attaccati alla barca del centro-sinistra che stava affondando. Prima della scissione del ’98 il Prc veniva dato in ascesa ad oltre il 10% dell’elettorato, mentre alle elezioni del 2006, subito prima della partecipazione al governo Prodi II, la sinistra (Pdci, Prc e vedi) vantava un 12%. È un caso, mi chiedo, se, dopo due anni di governo, siamo precipitati al 3% con circa tre milioni di voti in meno? Il punto è che la nostra partecipazione ai governi di centro-sinistra non ha consentito neanche di frenare i processi di ristrutturazione.
A chi invece dice che, malgrado siamo andati da soli, successivamente i risultati non sono migliorati, è facile rispondere che, se siamo andati soli, non è stato per una nostra scelta coerente, in base ad un progetto strategico, ma è solamente perché il Pd ha rifiutato pervicacemente qualsiasi alleanza con noi. Una scelta di nuovo non dovuta all’autolesionismo ma al posizionamento politico e di classe del Pd. Di fronte a una tale ostinazione, ripetutasi anche a livello comunale, andare dal Pd a chiedere insistentemente una alleanza, senza porre delle serie condizioni programmatiche e partecipando finanche alle primarie, per essere poi messi alla porta, è stato un evidente fattore di scoraggiamento e di disorientamento per i nostri militanti e per ciò che rimane del nostro elettorato, per non parlare di quei settori di classe che dovremmo intercettare. Infine, a chi
dice che la questione delle alleanze è, in definitiva, secondaria, perché l’importante è accumulare riserve strategiche, ricostruire e radicare il partito, mi permetto di chiedere, visto che è con i lavoratori e i giovani che bisogna ricostruire riserve e partito, come è possibile presentarsi davanti ad una fabbrica o davanti ad una scuola senza una vera e definita linea politica o con una linea politica già dimostratasi inefficace? E senza politica delle alleanze e senza posizionamento quale linea può esistere? O forse dobbiamo far premio soltanto sulla propaganda e sulla nostra identità di comunisti?
La non soluzione o la soluzione errata della questione delle alleanze e del posizionamento politico è una delle ragioni principali, anche se derivata da altre arretratezze ideologiche e di base, per cui versiamo in una crisi gravissima. Ciò che ci ha sempre caratterizzato rispetto a queste tematiche è stata la genericità, che sottende ad una sorta di delega al gruppo dirigente apicale a stabilire di volta in volta il rapporto con gli altri partiti e che ha provocato l’orientamento ondivago di cui si è detto sopra. Purtroppo, anche questa volta il risultato finale è questo. Infatti, nel documento congressuale si dice: “Il “centro-sinistra”, almeno così come lo abbiamo conosciuto finora, non c'è più. Il nostro orientamento deve dunque concentrarsi sulla costruzione di uno schieramento unitario a sinistra, con un programma avanzato, che poi valuterà autonomamente come rapportarsi alle contraddizioni interne e all'evoluzione di altre forze.” (tesi 24) Quindi, ancora una volta la decisione è rimandata a dopo, subordinata all’evoluzione delle altre forze. Più avanti si parla di un fronte che comprenda anche “soggettività progressiste del Pd” (Tesi 25), e di un “fronte democratico e progressivo” (Tesi 31), su “un programma di transizione per uno sbocco democratico-progressivo alla crisi.” (Tesi 27).
L’impressione è che ci si lasci aperta la possibilità di far rientrare dalla finestra quello che era stato fatto uscire dalla porta.
L’orientamento che vede il posizionamento strategico del partito all’interno del centro-sinistra non sembra tramontato. In questo senso, ha il merito della chiarezza la compagna Palermi, che ha contribuito alla stesura del documento congressuale e che scrive così in un suo recentissimo articolo: “Il Pd non paga il governo delle larghe intese. E, se guardiamo bene, una ragione c’è. Ovunque, alle amministrative (a meno che non mi sfugga qualcosa), il Pd si è presentato come centrosinistra, e cioè come l’unica alternativa possibile a fronte della crisi e di una destra territorialmente incapace e corrotta. Se una richiesta sembra venire da queste elezioni, mi pare sia quella di una rifondazione del centrosinistra.”3 In realtà, il Pd, come il Pdl, paga salatissimo il governo delle “larghe intese”: alle comunali, nei primi 16 comuni capoluogo, il Pd perde, rispetto alle politiche di pochi mesi prima, il 39% dei voti assoluti, mentre il Pd ne perde il 40%. A Roma, rispetto alle comunali 2008, il Pd perde la metà dei voti assoluti (da 530mila a 267mila voti). Se il Pd prevale sul Pdl è per le caratteristiche specifiche della competizione amministrativa (ininfluenza delle figure carismatiche come Berlusconi, migliore organizzazione sul territorio, e soprattutto il carattere fortemente maggioritario dell’elezione del sindaco).4 Di certo, se una indicazione viene da queste elezioni non è certo quella della rifondazione del centro-sinistra, ma l’alienazione dei cittadini più poveri dal sistema politico, testimoniato da un tasso d’astensionismo enorme (25% alle politiche, 46% alle comunali nel primo turno).
Tale scollamento è determinato proprio dalla natura bipartisan, sulle questioni di fondo, delle scelte politiche, che vengono assunte da centro-sinistra e centro-destra. La disoccupazione di massa, il ritorno della povertà assoluta, lo smantellamento delle reti di protezione sociale spingono milioni di lavoratori, marginalizzandoli dalla vita sociale, anche alla marginalità politica. Nostro compito è recuperare questi settori alla politica, ma, per farlo, dobbiamo recuperare credibilità, cambiando proposta e posizionamento.
Forse l’elemento più importante di cui non c’è consapevolezza piena è che la crisi economica che stiamo attraversando è una crisi epocale, che da la spinta finale al completamento del ciclo di ridefinizione della struttura dei rapporti tra le classi sia a livello produttivo che dello Stato, iniziato con il tatcherismo. L’intero contesto politico ed istituzionale in cui ha luogo il conflitto di classe ne esce stravolto. Proporre in tale mutato contesto formule politiche che già nel passato hanno dato risultati negativi è ancora più sbagliato.
Qui, non si tratta di purezza ideologica o di difesa dell’identità comunista. Si tratta di fare politica, politica vera con una strategia e una tattica definite e adeguate. Il fatto è che non è possibile né ci sono le condizioni politiche e programmatiche, sul piano nazionale, per riproporre alcun centro-sinistra, né è possibile pensare ad un fronte democratico-progressista che coinvolga il Pd. Pensare ad un fronte democratico con chi ha sistematicamente smantellato la democrazia e la Costituzione e si fa paladino della governabilità come valore assoluto e sostenitore dello “stato d’eccezione”, che limita le prerogative del Parlamento a garanzia dei mercati finanziari, è un non senso. Così come è poco credibile pensare ad un programma democraticoprogressivo che permetta di uscire dalla crisi e pretendere di rilanciare l’intervento pubblico nell’economia senza sciogliere il nodo dei vincoli europei e dell’euro. Un mancato scioglimento che, evidentemente, avrebbe il dubbio merito di non sollevare contraddizioni decisive con il Pd. Oggi la vera “anomalia”, italiana, come rileva The Economist, è la pervicacia con cui il Pd sostiene le politiche della Commissione europea.
Si impone, quindi, la necessità di un posizionamento strategico fuori dal centro-sinistra. Di conseguenza, sulla questione delle alleanze vanno evitati equivoci ed ambiguità ed è bene che il Congresso su questo si esprima chiaramente. Il nostro compito, oggi, è recuperare la credibilità persa dinanzi alle masse e per farlo dobbiamo fare tre cose: la riunificazione dei comunisti, essere coerenti nella teoria e nella pratica, e costruire un “Fronte unito di sinistra”, con forze, anche diverse da noi ideologicamente, politicamente e socialmente, ma con in comune i veri punti decisivi di questa fase sociale e politica.

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