sabato 5 ottobre 2013

Vo Nguyen Giap, onore (questa volta) al giornalismo americano di Giulietto Chiesa, Il Fatto Quotidiano


Oggi, 5 ottobre, International Herald Tribune si apre con un “obituary”, un necrologio a sei colonne, con fotografia e titolo: “Vo Nguyen Giap, un rivoluzionario”.
Non ricordo nulla di analogo nella mia esperienza di giornalista.
La potenza imperiale s’inchina, rende l’onore delle armi e della vittoria a colui che la sconfisse nel lontanissimo 30 aprile 1975, quando Saigon cadde e le immagini degli elicotteri  in fuga che si alzavano in volo dai tetti dell’ambasciata americana fecero il giro del mondo.
Oggi, per I’HT, evidentemente, non c’era notizia più importante di quel ricordo. E non c’era cosa più giusta da fare che ricordare quella sconfitta in cui furono cancellate circa 58.000 vittime americane.
Adesso proviamo a confrontare questa prima pagina con quelle dei giornali italiani, cioè dei servi. Si parla, è ovvio, solo di Berlusconi e della spazzatura di questo paese. Evidentemente questo è il nostro “giornalismo” e non c’è altro da fare che mandarlo al diavolo e combatterlo. Le loro priorità sono quelle dei maggiordomi che li comandano. Non prevedono la decenza.
Dunque onore a un giornale americano, certo imperiale, ma che mantiene il senso della storia, dell’orgoglio perfino di riconoscere la sconfitta. Tanto più in un momento il cui il declino, evidente, dell’impero, fa pensare, oltreoceano, che quella storia potrebbe ripetersi anche se in altro modo.
Vo Nguyen Giap ha fatto la storia. Certo, l’autore del necrologio, Joseph R. Gregory, non risparmia le critiche a Giap. Pensate: non teneva in gran conto la quantità di morti che richiedeva alle sue truppe. Nell’offensiva del Tet, il 30 gennaio 1968, lanciò 84.000 uomini in un’avventura in cui 40.000 morirono, senza ottenere la vittoria campale che Giap probabilmente si aspettava. Ma, pure sconfitto in quella battaglia, egli inflisse un colpo irreparabile al prestigio americano, che si riflesse in un’ondata di critiche dell’opinione pubblica (che, bei tempi!, ancora esisteva).
Gregory ha ragione comunque, in molti sensi: in guerra non c’è pietà, né per il il nemico, né per i propri. Basta soltanto tenere a mente  le proporzioni: in quella guerra “americana”, morirono 2,5 milioni di nord e sud vietnamiti, in grandissima parte civili. Due milioni e mezzo contro 58.000.
Adesso, reso onore al giornalismo americano per questa pagina stupefacente, ricordiamo anche i due milioni di morti iracheni, e i 200 mila morti afghani. E i 300 affogati di Lampedusa, che fanno parte dello stesso bilancio di ingiustizia e diseguaglianza. E’ questo il mondo che vogliamo?
 

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