lunedì 13 gennaio 2014

Il “Corriere” e la favola del liberismo “di sinistra” di Carlo Formenti, Micromega

Corriere della sera L’ineffabile duo Giavazzi-Alesina ci riprova. In un editoriale sul “Corriere della Sera” dello scorso 10 gennaio, i Bocconi Boys, come li ha sarcasticamente battezzati l’economista neo keynesiano Paul Krugman, ripropongono la paradossale tesi, già avanzata in un pamphlet del 2007, secondo cui il liberismo sarebbe “di sinistra”.
Le argomentazioni sono note: aprire alla concorrenza attività economiche “protette”, eliminare i sussidi alle imprese inefficienti, premiare la meritocrazia, liberalizzare (ancora di più!) il mercato del lavoro, ridurre il “peso distorsivo” dello Stato, farla finita con le velleità di politica industriale (qualcuno sa dire chi coltiva oggi simili velleità in Italia, ammesso e non concesso che siano state coltivate in passato?!) e, naturalmente, privatizzare tutto il privatizzabile: sono tutte “riforme” degne di figurare nel programma di una “sinistra moderna”.
Gli effetti che queste riforme stanno producendo nei due Paesi che più di qualsiasi altro hanno imboccato questa via (scelta cui hanno effettivamente contribuito, fra gli altri, campioni della “sinistra moderna” quali Tony Blair e Bill Clinton) sono sotto gli occhi di tutti: aumento vertiginoso dei poveri, nelle cui file entrano sempre più spesso non solo i disoccupati ma anche i working poor, differenze di classe crescenti e blocco della mobilità sociale (due temi non a caso al centro della campagna per le elezioni di middle term già in atto negli Stati Uniti), fine dell’università di massa e ritorno di una università riservata alle élite privilegiate (meritocrazia?!), costi sempre più elevati e qualità decrescente dei servizi pubblici privatizzati (clamorosi i casi di sanità e trasporti in Inghilterra), ecc.
La faccia tosta con cui certi “esperti” ripropongono ricette che hanno condotto un sistema economico globale sempre più finanziarizzato e deregolamentato all’attuale collasso sarebbe incredibile, se le prime a legittimare i loro dogmi non fossero proprio quelle sinistre che sarebbero chiamate a criticarli.
Invece il coro dei cantori del liberismo sale sempre più alto (e sfacciato) da quando può contare sull’apporto di un campione della “sinistra moderna” come Matteo Renzi, dei cui propositi di riforma per rendere sempre più flessibile il mercato del lavoro onde “aprirlo a giovani e donne” (ma ci sono o ci fanno !!??) leggiamo ogni giorno, così come leggiamo del plauso che tale intento riscuote dai vari Ichino, nonché dagli stessi Alesina e Giavazzi (assieme all’ammonimento che tutto questo non basta: si sa, lo smantellamento dei diritti del lavoro non basta mai!).
Così, sullo stesso numero del “Corriere”, leggiamo un articolo di Dario di Vico il quale saluta con entusiasmo la notizia che un giovane italiano su quattro “sceglie” l’autoimpiego (sceglie? Non sarà che il mercato del lavoro non lascia loro alternative?) e, nello stesso articolo, cita il sociologo Richard Sennet, dimenticandosi di ricordare che lo stesso Sennett, in un articolo apparso qualche mese fa sul “Guardian”, denunciava dati alla mano il fallimento dei miti dell’autoimpiego e delle startup.
Sempre in quel numero del “Corriere”, da incorniciare per i fan dell’ideologia neoliberista, troviamo una voce parzialmente discorde in un articolo di Ernesto Galli Della Loggia: intendiamoci, il nostro non è stato folgorato da nostalgie sinistrorse, si limita a fare sommessamente presente che mentre i malservizi di Poste e Ferrovie alimentano la rabbia nei confronti dei servizi pubblici, occorrerebbe ricordare che si tratta di imprese che pubbliche non sono più da tempo, benché la proprietà resti ancora in larga misura nelle mani dello Stato.
Fattore che non cambia il fatto che le loro scelte siano ora dettate dall’esigenza di generare profitti e non di fornire agli utenti il miglior servizio al miglior prezzo: di qui la Caporetto di pendolari e/o viaggiatori delle linee ferroviarie del Sud a fronte del tripudio delle Frecce superveloci, o le interminabili code di vecchi pensionati e altri utenti “comuni”, i quali si vedono sfilare davanti i clienti che usufruiscono di servizi “premium”.
Per evitare però che queste banali verità suonassero come una smentita alla linea del giornale, qualcuno si è premurato di titolare “L’equivoco di Poste e Ferrovie. Non consideriamole servizio pubblico”, così i lettori che leggeranno solo il titolo (cioè quasi tutti) potranno pensare, riferendosi soprattutto alla seconda frase, che sarebbe l’ora di smetterla di pretendere che simili servizi siano pubblici…

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