lunedì 13 gennaio 2014

LO SCIENZIATO KEYNES E GLI STREGONI NEOLIBERISTI di Norberto Fragiacomo

Va di moda, oggi, esaltare - o demonizzare - Keynes dipingendolo come una via di mezzo tra un filantropo e un criptosocialista o, al contrario, come un visionario spendaccione, ma la caricatura mal si sposa con la verità storica: John Maynard K., nato mentre Marx moriva, fu per tutta la vita un ricco gentiluomo inglese, dai gusti raffinati, che le rivoluzioni preferiva evitarle e dell’autore de Il Capitale non aveva particolare stima.
Prima di essere un liberale borghese, tuttavia, Keynes era uno scienziato, che studiava il mondo dell’economia per quello che era, non per quello che gli sarebbe piaciuto fosse: per motivi nient’affatto ideologici, bensì prettamente scientifici, egli si oppose alla pace punitiva di Versailles, e furono sempre lo studio dei fatti, il pragmatismo a guidarlo quando, dopo il rovinoso incendio del ’29, si accinse a riscrivere le leggi della macroeconomia. Fino ad allora si credeva (e negli ultimi decenni si è ripreso a credere) ad un certo Say, a detta del quale l’offerta complessiva di prodotti determina la domanda: in pratica il pubblico compra ciò che trova al mercato, ed eventuali squilibri sono immediatamente compensati dalla variazione dei prezzi, flessibili (e dunque adattabili) per definizione. Una mano invisibile, intravista da Adam Smith dopo qualche pinta al pub, rimette sempre le cose a posto.

Purtroppo, contrariamente alle previsioni della maggior parte degli economisti e del Presidente Hoover, la crisi del ’29 non si risolse in pochi mesi: al contrario, parve cronicizzarsi, e la sua gravità fu acuita dai provvedimenti “ortodossi” dei vari governi – vale a dire da politiche restrittive nel campo della spesa pubblica (che diminuì, dopo l’effimera espansione degli anni d’oro americani) e della tassazione (che fu inasprita). Intendiamoci: la portata della depressione era senza precedenti, e trovare un vaccino che non fosse “infettato” da germi marxiani risultò impresa davvero ardua. Adolf Berle, consigliere economico di Roosevelt, accarezzò persino l’idea di americanizzare il modello sovietico, per poi giungere – indipendentemente da Keynes – alla teorizzazione dell’intervento statale in economia; fu lo studioso inglese, tuttavia, a descrivere compiutamente le cause della crisi e ad individuare una via d’uscita percorribile non solo nell’immediato.
Keynes osservò che, per la presenza dei sindacati e la loro capacità di mobilitazione, i salari operai non sono comprimibili all’infinito: sono cioè relativamente rigidi, o “vischiosi”, al pari dei prezzi. Inoltre, la piena occupazione non è un a priori, bensì un obiettivo da raggiungere – e per raggiungerlo, pervenendo in tal modo ad un soddisfacente equilibrio di sistema, è necessario incentivare la domanda di beni e servizi. Forse sul lungo periodo ha ragione Say – argomentava Keynes – ma nei tempi brevi, che sono quelli della vita umana, è la domanda a determinare l’offerta, e dunque il reddito nazionale, non viceversa. Come agire, dunque? Il reddito di un Paese è composto, perlomeno, dalla domanda di beni/servizi di consumo formulata dalle famiglie e dalla domanda di investimenti da parte delle imprese; a queste voci possono aggiungersi la spesa pubblica e l’eventuale surplus di esportazioni sulle importazioni. Il consumo è influenzato dal reddito familiare, mentre la richiesta di investimenti dipende dal tasso di interesse (più questo è basso, maggiore è la propensione ad investire) e dalle aspettative future. I tempi duri partoriscono aspettative pessime: l’imprenditore tipo riduce quindi il proprio attivismo, sconfortato anche dall’atteggiamento delle famiglie che, se hanno qualche soldo in tasca, preferiscono risparmiarlo. L’impasse è superabile solo con l’intervento statale: utile o meno che sia (e le dighe rooseveltiane erano utili!), un’opera pubblica finanziata a debito dall’erario – perché mancano altre risorse - produce lavoro che prima non c’era. L’ingente spesa iniziale dà frutti che compensano abbondantemente l’inevitabile peggioramento dei conti pubblici: rincuorato, il lavoratore ricomincia a recarsi al negozio e, visto che la propensione al consumo dei poveri è superiore a quella dei benestanti, il denaro fresco immesso nel circuito economico invoglia il datore di lavoro ad aumentare la produzione e, per l’effetto, ad assumere nuova manodopera. Tramite il meccanismo del moltiplicatore – descritto, con tanto di formule, in ogni bignami di economia politica – un ridotto investimento statale inaugura un circolo virtuoso (spesa pubblica->consumo->investimento->consumo…) che si autoalimenta e conduce ad un rinnovato equilibrio in regime di piena occupazione; un successivo aumento dell’imposizione fiscale intralcerà la crescita senza tuttavia riuscire a bloccarla (teorema di Haavelmo).
Attenzione: lo Stato protagonista teorizzato da Keynes non è un benefattore, non regala nulla. Finanza congiunturale significa favorire con gli opportuni strumenti il rilancio in epoca di recessione; poi, quando il processo è avviato, il pubblico si ritira in buon ordine e – onde scongiurare eccessi nella crescita – adotta semmai politiche restrittive. L’impennata del reddito genera, difatti, fenomeni inflattivi: la piena occupazione e l’abbondanza di denaro causano un incremento della domanda di beni che le imprese, impossibilitate ad impiegare personale ulteriore e, di conseguenza, a produrre di più, non riescono a soddisfare. I manufatti si rarefanno (rispetto alla richiesta) e, conseguentemente, il loro prezzo cresce: ecco la genesi dell’inflazione da domanda. Piena occupazione e inflazione ci appaiono nelle vesti di due gemelli siamesi: la seconda è l’onesto prezzo da pagare per ottenere la prima. La previsione di stabilizzatori automatici (tasse progressive sul reddito, sussidi che soccorrono in situazioni difficili) impedisce al sistema di oscillare troppo pericolosamente.
Tradotto in pratica, il keynesismo ha dato buona prova di sé, consentendo – complice il conflitto mondiale - la ripresa americana e, dopo la morte del padre della teoria (1946), la ricostruzione della devastata economia europea. L’ombra di Keynes ispira le politiche del dopoguerra, che sposano l’interventismo statale degli anni ’50-’60 con l’estensione di diritti e tutele: oltre ad approdare a un relativo benessere, operai ed impiegati (il vecchio proletariato) diventano membri a tutti gli effetti della società borghese. Una rivincita di Bernstein su Lenin (e Karl Marx)? In effetti, il superamento delle disparità di classe sembra a molti un obiettivo perseguibile attraverso progressive riforme di struttura; nel frattempo, la curva di Phillips (1958) – basata su dati statistici che fotografano cent’anni di sviluppo dell’economia inglese – conferma l’asserto keynesiano sull’esistenza di un rapporto inverso tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione.
Dopo aver funzionato alla perfezione per oltre un trentennio, il modello entra in crisi all’inizio degli anni ’70 e, più precisamente, nel 1973. Mentre è in corso la guerra dello Yom Kippur gli stati arabi produttori di petrolio tagliano le forniture all’Occidente filoisraeliano: è di nuovo crisi economica, una crisi che si manifesta con il volto inedito della “stagflazione”. Malgrado le difficoltà occupazionali l’inflazione prende il volo, e un gruppo di economisti di estrema destra (che faranno pratica nel Cile insanguinato di Pinochet) approfitta dell’occasione per demolire non tanto Phillips, quanto il suo mentore. I fini non sono polemici, sono politici: pensionare Keynes è il primo passo verso l’abbattimento di quello stato sociale che, agli occhi delle elite, costituisce uno scivolamento nell’aborrito socialismo. I keynesiani hanno preso un abbaglio: a medio-lungo termine l’inflazione è sterile, va perciò combattuta con ogni mezzo (e pazienza se quella del ’73 non è inflazione da domanda: sempre inflazione è, tagliano corto i Friedman). Se l’inflazione è il diavolo, le banche centrali (allora controllate dai governi) debbono astenersi dall’ampliare l’offerta di moneta – anzi: l’autorità pubblica rinunci ad ogni decisione, dal momento che (ci racconta Lucas) le scelte governative saranno invariabilmente previste e rintuzzate da operatori economici che, nella vulgata neoliberista, appaiono onniscienti. Altro che quei trafficoni dei politici che – secondo i cultori della Public choice (Buchanan, altro Nobel di età reaganiana) – pensano solo a garantirsi la rielezione, e mai al presunto bene comune! Come spiegare, alla luce di tanta lungimirante saggezza imprenditoriale, le crisi ricorrenti (e quella attuale)? Indiferente, ci rispondono, come il Bortolo delle Maldobrie: per evitare problemi non c’è che da lasciar fare al mercato, azzerare le tutele e la spesa sociale (non quella pubblica tout court: le guerre s’hanno da fare, l’apparato repressivo va mantenuto ecc.), tagliare le tasse ai ricchi e aumentare la produttività. In concreto: lavorare di più per meno soldi, senza protezione e senza garanzie. Quanto all’inconveniente rappresentato dalla rigidità dei salari, ad esso si può ovviare distruggendo il sindacato (Thatcher docet) e spazzando via la contrattazione collettiva nazionale.
La ricetta è datata, l’apparato teorico pure: i neoliberisti ripescano la legge di Say, non perché sia corretta, ma semplicemente perché fa al caso loro. Se il reddito nazionale è determinato dalle imprese non v’è necessità di stimolare la domanda venendo incontro alle esigenze dei lavoratori: a questi ultimi va riconosciuto il “diritto” alla sussistenza (mangiare l’indispensabile, pagarsi una polizza basic, dormire e mettere al mondo altri schiavi), nulla più. Nota bene: il pragmatismo di Keynes - propugnatore di un capitalismo ragionevole, più che compassionevole – era parso contraddire la “profezia” marxiana sull’evoluzione capitalistica, ma i neo-neoclassici chiariscono che, per loro, lo stato sociale ha rappresentato una parentesi, un incidente di percorso, una deviazione dalla retta via. Insomma, testimoniano involontariamente la correttezza dell’analisi e delle conclusioni del filosofo di Treviri.
Portatori di una visione ideologica e classista della società, questi finti economisti mettono la loro alchimia al servizio delle multinazionali, dei governi più reazionari, delle elite assetate di rivincita. Ovunque vadano ricorrono a trucchi da ciarlatani (la curva di Laffer cerca di dimostrare l’indimostrabile, cioè che il superamento, da parte della pressione fiscale, della soglia bassissima desiderata dai ricchi provoca un calo del gettito…) e cagionano danni: l’America della reaganomics accumula, in pochi anni, un debito pubblico ingentissimo, la Gran Bretagna della signora Thatcher cresce poco, pur affamando le classi lavoratrici.
In realtà, però, non falliscono, non hanno mai fallito: loro scopo era attuare una redistribuzione della ricchezza a favore dei ceti dominanti, dei grandi poteri economici, e il fine è stato pienamente raggiunto, fustigando – a seconda delle convenienze del momento - ora il debito pubblico, ora la scarsa produttività individuale, ora la spesa pensionistica. Gli eredi di Friedman hanno mille frecce ideologiche al loro arco: togliere loro euro e spread equivale a mozzare due zampe a un millepiedi.
Se volessimo giudicarli come scienziati economici, dovremmo concludere che finora non ne hanno imbroccata una, che le loro “cure” aggravano le malattie che pretendono di curare; se invece li consideriamo per quello che effettivamente sono, mercenari del Capitali sparsi ovunque (dal FMI ai vertici della Commissione Europea, dalle banche d’affari alle società di rating, dai giornali a grande diffusione ai palazzi governativi, dai talk show ai partiti del FARE), tocca riconoscere in loro degli efficientissimi professionisti.
Non è scienza, quella dei monetaristi: è stregoneria. Occorre spezzare questo maledetto incantesimo, prima che l’intera Europa finisca al rogo a causa (e in vece) loro.

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