mercoledì 6 agosto 2014

Il nodo della recessione è il calo degli investimenti privati e l'assenza di quelli pubblici di Domenico Moro



Qualcuno ha visto la ripresa di cui straparlavano da mesi Renzi e Padoan? Secondo le stime preliminari pubblicate dall'Istat, il Pil del secondo trimestre del 2014 è calato del -0,3% rispetto allo stesso periodo del 2013 e del -0,2% rispetto al trimestre precedente. Il risultato peggiore dei vari Paesi d'Europa che pure ancora annaspano tutti, chi più chi meno, nella peggiore crisi del capitale dal '29.

Eppure, i tanto sbandierati 80 euro in busta paga non dovevano rilanciare l'economia? Un po' difficile se con una mano dai 100 a qualche lavoratore e con l'altra togli 200 a tutti i salariati. Ad esempio, l'Iva sugli scambi interni nel primo semestre 2014 cresce del +4,4%, malgrado i consumi siano stagnanti. Si tratta di 1,7 miliardi in più che portano il gettito fiscale totale dell’Iva a +1,4 miliardi totali rispetto al secondo trimestre 2013. Altro che riduzione del fisco! La pressione fiscale è stata ridotta solo al capitale e compensata in parte con l'aumento di quella sui consumi e sui redditi popolari. Infatti, la leggera riduzione del gettito fiscale complessivo (-0,8%) dipende dalla flessione di 3 miliardi del gettito dell’Ires, l’imposta sul reddito delle imprese. Tale flessione è dovuta ad alcuni strumenti introdotti dal governo come l’aiuto alla crescita economica (Ace), che però proprio sulla crescita non hanno sortito alcun effetto.

La politica economica di questo governo è fallimentare come quelle dei governi Monti e Letta con cui è in linea di continuità, basandosi sulle politiche di bilancio restrittive e di controriforma europee. Padoan non sa commentare i dati Istat se non dicendo che vanno fatte al più presto le controriforme, a partire da quella del mercato del lavoro, in modo da rendere più facile licenziare. Ci dovrebbe spiegare in che modo, con oltre 3 milioni di disoccupati già oggi, avere più facilità di licenziamento dovrebbe aiutare l'economia.

Il vero problema dell’economia italiana è il crollo degli investimenti privati. Questi derivano dalla “scarsa” redditività degli investimenti per le imprese private, interessate solamente al grado di profitto raggiungibile. Le imprese non sono interessate ad ampliare gli investimenti, ma a renderli più profittevoli. Quindi, ogni facilitazione in termini fiscali e salariali e ogni liberalizzazione della possibilità di licenziamento non si tradurrà in maggiori investimenti, ma andrà ad aumentare i profitti delle imprese che riescono a sopravvivere, che sono poi quelle più grandi, multinazionali e dedicate all’export. Ora il governo si aggrappa agli investimenti dall’estero, esaltando il recente ingresso di investitori cinesi e arabi in alcune imprese italiane.
Ma non è sufficiente e poi si tratta di cifre relativamente piccole rispetto ad una economia grande come quella italiana, la Cina ad esempio ha investito quest’anno in tutto 50 miliardi, con quote piccole sul capitale totale delle singole imprese. Inoltre, come nel caso degli arabi di Ethiad con Alitalia, gli investitori esteri a volte chiedono contropartite in termini di licenziamenti.

L’unica soluzione praticabile è l’esatto contrario di quello che si sta facendo da vent’anni e in maniera più massiccia negli ultimi cinque anni: compensare il calo degli investimenti privati con l’aumento degli investimenti pubblici. Apparentemente si tratta una politica classica e riformista, in realtà si tratta di una politica che attacca direttamente la composizione del capitale attuale, ribaltando radicalmente l’indirizzo della classe dirigente italiana, politica ed economica, mirante a concentrare il potere economico e a renderlo transnazionale, cioè integrato a livello internazionale, anche attraverso una politica massiccia di privatizzazioni. Qui non si tratta di difendere la “nazionalità” delle imprese italiane, ma di capire le implicazioni per il lavoro salariato e per la società italiana delle trasformazioni in atto.

L’integrazione transnazionale dei capitali, basata sulla massiccia presenza di fondi esteri (il 38% della Borsa italiana), soprattutto statunitensi, francesi e britannici, rende le imprese partecipate sempre più dipendenti dai mercati internazionali dei capitali e quindi dipendenti dai risultati a breve delle borse, accentuando la corsa al massimo profitto immediato invece che incentrarsi su una strategia di lungo periodo di investimenti e di crescita.

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