venerdì 10 ottobre 2014

Brancaccio: “L’Ue è fallita, la sinistra ragioni sull’euro”

Per l’economista Emiliano Brancaccio l’Europa, sposando l’austerity, ha intrapreso un sentiero insostenibile dove non ci sono più i presupposti politici per un reale cambiamento degli indirizzi politici ed economici. Per questo si deve attuare una discussione sull’uscita dalla moneta unica: “Il tema è complesso e va analizzato attentamente per sgombrare il campo dalle farneticazioni”.

intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena
 
“Proseguendo con le politiche di austerity l’eurozona è destinata a deflagrare. Per questo, una sinistra degna di questo nome avrebbe il dovere di ragionare anche sulle modalità di uscita dalla moneta unica, per non lasciare il campo soltanto alle destre”. L’economista Emiliano Brancaccio è un convinto europeista. Nel 2011 fu invitato a Parigi dal Partito socialista europeo a presentare lo ‘standard retributivo’, una proposta per interrompere la gara al ribasso tra i salari dei paesi membri dell’Unione. “Ma i tedeschi si opposero. Di quella, come di altre ipotesi di coordinamento europeo, anche le più blande, non se ne fece nulla. Anzi, da allora i conflitti tra paesi sono aumentati”. Di fronte alla dura realtà dei fatti, Brancaccio intravede la rottura del giocattolo Europa. Per questo, accantonando utopie e impossibili riformismi, si batte da tempo per una vera discussione sul destino della moneta unica: “Il tema è complesso e va analizzato attentamente, per sgombrare il campo dalle farneticazioni”.

Pochi giorni fa una Napoli blindata ha ospitato l’incontro della Bce. Si è deciso di continuare con la linea della “austerità espansiva”, ovvero con le politiche del rigore. Di questo passo sarà mai possibile una ripresa economica dei Paesi ora in maggiore difficoltà?

Sotto l’influenza del governo tedesco, il vertice Bce ha ribadito che i singoli stati nazionali dovranno restare fedeli alla linea dell’austerity. Inoltre, dal vertice di Napoli è emerso un altro elemento che getta nuove ombre sul futuro dell’eurozona. Draghi ha annunciato che la Bce immetterà sul mercato nuova liquidità per un ammontare complessivo fino a 1000 miliardi in due anni. Sembrano tanti soldi, eppure da molti è stato considerato un intervento insufficiente. Il motivo possiamo comprenderlo facendo un confronto con altre banche centrali, ad esempio la Federal Reserve. Dall’inizio della crisi la banca centrale statunitense ha effettuato acquisti di titoli e conseguenti emissioni di moneta per un ammontare tale da quintuplicare il suo bilancio. La Bce, invece, non lo ha nemmeno raddoppiato. Questo raffronto chiarisce che dovremmo sfatare l’opinione comune secondo cui Draghi sarebbe pronto a fare “tutto ciò che è necessario” per stabilizzare l’eurozona. In realtà, messi a confronto con quelli di altre istituzioni, i suoi interventi sono stati abbastanza modesti.


Intanto la Francia di Hollande si è ribellata all’austerity e ha dichiarato che sforerà il 3% di deficit. La cancelliera tedesca Merkel si è affrettata a ribadire che “si devono fare i compiti a casa”. Il premier Renzi è a metà strada: si è schierato con la Francia ma rispetterà i vincoli. Intravede reali prospettive di cambiamento?
Nell’eurozona registriamo da tempo un dissidio sulle interpretazioni dei vincoli europei, che vede la Germania e i suoi satelliti da un lato e l’Italia e gli altri stati del Sud Europa dall’altro. Adesso nel conflitto viene coinvolta apertamente anche la Francia, che per un certo periodo si era tenuta un po’ in disparte ma che adesso inizia anch’essa a patire gli effetti dell’austerity. La controversia di questi giorni tra Francia e Germania è l’ennesima conferma del quadro delineato dal “monito degli economisti” che abbiamo pubblicato un anno fa sul Financial Times: l’eurozona si sta muovendo lungo un sentiero insostenibile.
Anche altri economisti, come Joseph Stiglitz, sostengono da tempo che l’Europa o cambia direzione con misure di condivisione del debito, riforma della Bce e fine dell’austerity o si arriverà all’implosione dell’eurozona. Esistono le condizioni politiche per convincere il governo tedesco ad accettare finalmente una svolta negli indirizzi europei?
Temo di no, non vedo svolte di politica economica all’orizzonte. La mia opinione è che i paesi del Sud Europa avrebbero dovuto insistere sul fatto che in gioco è il futuro non solo della moneta unica ma anche del mercato unico europeo. Solo così, forse, avremmo potuto persuadere i tedeschi. Ma una trattativa del genere non è mai nemmeno iniziata. Ora mi sembra tardi. Il problema è che, come è stato ormai evidenziato dalla più autorevole letteratura scientifica, insistere con le politiche di austerity e di precarizzazione significa accrescere i divari tra paesi forti e paesi deboli. A lungo andare, come segnala il “monito degli economisti”, la forbice risulterà insostenibile e ai decisori politici non resterà altro che una scelta tra modi alternativi di uscita dall’eurozona, ognuno dei quali può avere effetti diversi sulle diverse classi sociali. Sarebbe ora che tale punto entrasse nell’agenda politica delle forze politiche e sociali che si considerano eredi, più o meno degne e dirette, della tradizione del movimento dei lavoratori. Le destre nazionaliste, reazionarie e al limite xenofobe, appaiono prontissime a cogliere l’occasione di una crisi dell’euro. Le sinistre europee, invece, sembrano del tutto imbambolate. Verso una débacle storica.
L’ex viceministro Pd Stefano Fassina in un suo ultimo articolo su Huffinghton Post parla di “disintegrazione caotica della moneta unica” e di “insostenibilità dell’euro”. Anche altri osservatori iniziano a riflettere su quella che Lei ha da tempo definito una “uscita da sinistra” dall’eurozona. Fuori tempo massimo o nobili tentativi?
Se si volesse far sul serio, bisognerebbe ripartire dai fondamenti. Per lungo tempo a sinistra ha prevalso un’idea astratta e retorica della globalizzazione e dell’europeismo. Un’idea basata sul convincimento che l’indiscriminata apertura ai mercati globali e l’unificazione monetaria europea potessero creare le condizioni per una maggiore convergenza tra lavoratori di diversi paesi e quindi per un nuovo internazionalismo del lavoro. Ma la realtà si è rivelata molto più complessa. Basti notare che dall’introduzione dell’euro i differenziali salariali tra i diversi paesi non sono diminuiti ma al contrario sono aumentati. Anche questo ha reso difficile l’avvio di qualsiasi forma di coordinamento europeo della contrattazione. La sinistra, se ne esiste ancora una, dovrebbe partire da una revisione critica di quell’europeismo retorico e privo di aderenza ai fatti che per tanti anni l’ha caratterizzata.
Ma non pensa che l’uscita dall’euro sarebbe un salto nel buio ancora più pericoloso per le nostre già fragili economie? Ad esempio non teme una massiccia fuga di capitali?
Bisognerebbe iniziare a sgombrare il campo dalle farneticazioni degli ultras, sia quelli anti-euro che pro-euro. Abbiamo mostrato, dati alla mano, che i nemici della moneta unica sottovalutano i problemi di una eventuale uscita dall’eurozona, per esempio riguardo ai salari o alle possibili acquisizioni estere di capitali nazionali. Questi problemi evidenziano che una uscita dall’euro andrebbe accompagnata da opportune politiche di salvaguardia, in primo luogo dei lavoratori. Ma i difensori dell’euro, che agitano il pericolo del salto nel buio, sono talvolta capaci di errori analitici anche più gravi. Prendiamo ad esempio il rischio di fughe di capitali. La verità è che queste già avvengono dentro l’eurozona. I capitali sono fuggiti dalla Grecia nel 2010, da Italia, Spagna e Irlanda nel 2011, e più di recente le fughe di capitale hanno colpito Cipro, dove per arginarle è stato persino ipotizzato un ripristino dei controlli sui movimenti di capitale. Un tipico errore in malafede degli apologeti dell’euro è quello di evocare lo spettro di quel che succederebbe fuori senza considerare che i disastri che già si stanno già verificando dentro l’eurozona.
La Troika detta le politiche di austerity che portano a maggiore flessibilità, privatizzazioni e smantellamento di quel che resta dello Stato sociale. Qual è il suo giudizio sul Jobs Act e sulla ipotesi di Tfr in busta paga?
Il governo giustifica il Jobs Act sostenendo che occorre rendere il mercato del lavoro italiano più flessibile, più equo e più simile a quello della Germania. In realtà i dati OCSE mostrano che le riforme Treu, Biagi e Fornero hanno determinato una caduta delle tutele dei lavoratori italiani che è stata addirittura tripla rispetto alla riduzione delle protezioni che nello stesso periodo si è registrata in Germania. Gli indici dell’OCSE mostrano che ormai i lavoratori a tempo indeterminato in Italia sono meno protetti che in Germania. Inoltre, quando si parla di “apartheid” del mercato del lavoro, cioè di un divario tra protetti e precari, bisognerebbe ricordare che in Germania quel divario è triplo rispetto all’Italia. Infine, bisognerebbe smetterla con questa litania secondo cui una maggiore precarizzazione del mercato del lavoro riduce la disoccupazione. Questa tesi è stata seccamente smentita da vent’anni di ricerche empiriche. Dunque il Jobs Act si fonda su tesi false e per questo andrebbe respinto al mittente. Quanto al Tfr in busta paga, è un’anticipazione che rischia solo di deteriorare ulteriormente i risparmi dei lavoratori e che avrà effetti sulla crescita risibili. E’ l’ennesima dimostrazione che quella di Renzi non è una politica definibile tradizionalmente di “centro”. In realtà il governo segue una linea demagogica e populista.
Qualcuno però dice che Renzi possa diventare un nuovo Tony Blair. Che ne pensa?
La somiglianza con Blair si ferma alla determinazione con cui Renzi intende definitivamente sganciare il suo partito dal rapporto col sindacato. Per il resto governano cicli economico-politici molto diversi. Quella di Blair era un’epoca di rose e fiori. L’ex premier inglese poteva effettivamente incarnare una opzione, per così dire, “centrista”. Credo che Renzi abbia intuito che in questa durissima fase storica il “centrismo” esce sempre perdente, come dimostra l’esperienza di Monti. Temo che l’attuale premier abbia in mente una modalità di governo sempre più populista, plebiscitaria. Al limite dell’autoritarismo. Renzi a mio avviso incarnerà questo profilo politico. Del blairismo è una sorta di degenerazione, adatta a questo tempo di crisi.

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