sabato 11 ottobre 2014

L’immensa ricchezza delocalizzata di Pero Bevilacqua, Il Manifesto

Economia delocalizzata. Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia a caccia di immensi profitti oltre confine, creano un gigantesco esercito di disoccupati in patria.
Quasi non passa giorno senza che il pre­si­dente della Bce, Mario Dra­ghi e gli altri stra­te­ghi che pre­si­diano il governo dell’Unione si affan­nino a ram­men­tarci che in man­canza di "riforme strut­tu­rali" l’Italia non ripren­derà il cam­mino della cre­scita. Le riforme strut­tu­rali: espres­sione iro­nica della sto­ria. Chi ha memo­ria del nostro pas­sato ricor­derà che la frase «riforme di strut­tura» è stata coniata da Pal­miro Togliatti, diven­tando uno degli slo­gan del Pci tra gli anni ’50 e ’60. Allu­deva a pro­fonde tra­sfor­ma­zioni da rea­liz­zare negli assetti dell’economia e nei rap­porti di potere tra le classi.
Ora è finita in bocca ai mana­ger finan­ziari euro­pei, e ai gover­nanti ita­liani, e serve a dare una accen­tua­zione di radi­ca­lità all’intervento invo­cato, quasi si trat­tasse di miglio­rare più pro­fon­da­mente le con­di­zioni del paese.
In realtà, oltre a masche­rare il vuoto di prospettiva, essi cer­cano di nobi­li­tare la sostanza clas­si­sta della più impor­tante di que­ste “riforme”: una mag­giore fles­si­bi­lità e una più com­pleta dispo­ni­bi­lità della forza lavoro nelle scelte dell’impresa. Il Job Act in can­tiere nel governo Renzi, evi­den­te­mente non basta. Occorre poter licen­ziare con più faci­lità, per atti­rare i capi­tali che girano per il mondo. Oggi noi sap­piamo bene quanta fon­da­tezza ha la teo­ria su cui si fonda tale pre­tesa. Come ha scritto di recente Luciano Gal­lino, «La cre­denza che una mag­giore fles­si­bi­lità del lavoro, attuata a mezzo di con­tratti sem­pre più brevi e sem­pre più insi­curi, fac­cia aumen­tare o abbia mai fatto aumen­tare l’occupazione, equi­vale quanto a fon­da­menta empi­ri­che alla cre­denza che la terra è piatta». (Vite rinviate.Lo scan­dalo del lavoro pre­ca­rio, Laterza 2014).
Ma per la verità noi non abbiamo sol­tanto que­sta cer­tezza scien­ti­fica, oltre alla prova empi­rica di una eco­no­mia capi­ta­li­stica che con­ti­nua a gene­rare disu­gua­glianze, pre­ca­rietà e disoc­cu­pa­zione. Noi pos­se­diamo un inqua­dra­mento sto­rico quale forse mai si era rag­giunto in età con­tem­po­ra­nea per una fase così rav­vi­ci­nata. Sap­piamo come sono andate le cose negli ultimi 30 anni gra­zie a una let­te­ra­tura ormai di con­si­de­re­vole ampiezza. E pos­se­diamo una let­tura strut­tu­rale della crisi che nes­suna altra rico­stru­zione di parte capi­ta­li­stica può mini­ma­mente scal­fire. Ha comin­ciato in anti­cipo Serge Halimi, con il Grande Balzo all’indietro (Fazi 2006, ma uscito in Fran­cia nel 2004) – un testo ricco di infor­ma­zioni e d’intelligenza poli­tica che meri­tava un più ampio suc­cesso — seguito l’anno dopo dalla Breve sto­ria del neo­li­be­ri­smo ( tra­dotto dal Sag­gia­tore nel 2007) di D. Har­vey, e a seguire una lunga serie di saggi in varie lin­gue suc­ces­sivi al tra­collo del 2008, cui non è nep­pure pos­si­bile far cenno.
Quest’anno si è aggiunto a tanta let­te­ra­tura storico-analitica – oltre al grande lavoro di T. Piketty, Il capi­tale nel XXI secolo, Bom­piani, già suf­fi­cien­te­mente osan­nato — un sag­gio che merita di essere ripreso per la lim­pi­dezza della scrit­tura e la forza docu­men­ta­ria con cui con­ferma la let­tura del tren­ten­nio neo­li­be­ri­sta: Chi ha cam­biato il mondo? di Igna­zio Masulli per Laterza. Masulli mostra con dovi­zia di tabelle e dati sta­ti­stici uffi­ciali le ten­denze di fondo che hanno gover­nato lo svi­luppo del capi­ta­li­smo negli ultimi trent’anni: la delo­ca­liz­za­zione indu­striale (inda­gata nei suoi effetti nei vari paesi in cui si è inse­diata), l’innovazione tec­no­lo­gica basata sull’automazione microe­let­tro­nica e la finan­zia­riz­za­zione dell’economia.
Son pro­cessi noti ma a cui l’autore aggiunge infor­ma­zioni spesso sor­pren­denti. Si pensi alle dimen­sioni degli inve­sti­menti all’estero dei paesi di antica indu­stria­liz­za­zione. In Fran­cia essi rap­pre­sen­ta­vano il 3,6% del Pil nel 1980 e sono arri­vati a toc­care tra il 60 e il 57% nel 2009 e nel 2012. La Ger­ma­nia da un 4,7% è pas­sata al 45,6% nel 2012. Anche l’Italia ha fatto la sua parte, pas­sando dall’ 1,6% del Pil del 1980 al 28% del 2012. Dimen­sioni di inve­sti­menti ana­lo­ghi anche dagli gli altri paesi, con un dato impres­sio­nante per la Gran Bre­ta­gna, le cui imprese, nel 2010, hanno inve­stito all’estero 1.689 miliardi di dol­lari, pari a oltre il 75% del Pil».
Dun­que, i nostri capi­ta­li­sti hanno tra­sfe­rito e inve­stito all’estero ric­chezze immense, fon­dando quasi nuove società indu­striali fuori dalla rispet­tiva madre patria, uti­liz­zando a man bassa il lavoro sot­to­pa­gato e senza diritti dei paesi poveri, facendo man­care risorse fiscali gigan­te­sche ai vari stati. E ora gli stra­te­ghi dell’Unione vor­reb­bero far tor­nare un po’ di capi­tali in patria ridu­cendo la classe ope­raia euro­pea alle con­di­zioni in cui è stata sfrut­tata negli ultimi 30 anni in Cina o in altre pla­ghe del mondo. Ma il qua­dro deli­neato da Masulli con­ferma e appro­fon­di­sce, anche per altri aspetti noti, con dati quan­ti­ta­tivi, le linee sto­ri­che di evo­lu­zione delle eco­no­mie nel periodo con­si­de­rato. Tale qua­dro mostra ad es. come l’innovazione tec­no­lo­gica sia ser­vita pre­va­len­te­mente a sosti­tuire forza lavoro, ingi­gan­tendo l’esercito indu­striale di riserva. Su que­sto punto forse l’autore sot­to­va­luta l’innovazione di pro­dotto rea­liz­zata con la microe­let­tro­nica, soprat­tutto negli Usa. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avve­nuto in pas­sato con lo svi­luppo delle fer­ro­vie, l’espansione della chi­mica, l’industria auto­mo­bi­li­stica del ‘900, quella dure­vole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi.
Men­tre la pro­du­zione, come sap­piamo, è dimi­nuita rispetto ai decenni pre­ce­denti il 1980: e qui tutta la glo­ria del capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta pre­ci­pita nell’ignominia di una scon­fitta sto­rica. Nel frat­tempo i salari sono rista­gnati, è aumen­tata la disoc­cu­pa­zione. Ma ovvia­mente sono cre­sciuti i pro­fitti. Que­sti si! Cre­scita dei pro­fitti, nota l’autore, cui però non cor­ri­sponde un aumento del pro­cesso di accu­mu­la­zione, vale a dire gua­da­gni dell’impresa rein­ve­stiti nel pro­cesso pro­dut­tivo. Una parte sem­pre più con­si­stente di tali pro­fitti se ne è andato e con­ti­nua ad andar­sene in divi­dendi e paga­mento di oneri al capi­tale finan­zia­rio. E così il cer­chio si chiude per­fet­ta­mente, dando un pro­filo netto alla sto­ria eco­no­mica degli ultimi 30 anni: asser­vi­mento della classe ope­raia, disoc­cu­pa­zione cre­scente e lavoro pre­ca­rio, debole cre­scita eco­no­mica, ingi­gan­ti­mento del potere finan­zia­rio e amplia­mento delle disu­gua­glianze. E’ que­sta la musica al cui suono dan­ziamo ormai da anni. Men­tre la poli­tica degli stati e quella dell’Unione in primo luogo pro­pon­gono di riper­corre il sen­tiero che ha con­dotto al pre­sente disor­dine mondiale.
Ora, l’aspetto più cla­mo­roso della pre­sente situa­zione, soprat­tutto in Europa, è l’ostinazione con cui i diri­genti dell’Unione e soprat­tutto i gover­nanti tede­schi e nord-europei si osti­nano al restar cie­chi di fronte alla realtà che trent’anni di sto­ria ci con­se­gnano. Saremmo inge­nui se pen­sas­simo solo al dog­ma­ti­smo fana­tico che è nel genio nazio­nale dei tede­schi. E sap­piamo che a ispi­rare la poli­tica dell’austerità che ci sof­foca, come ha ricor­dato Paul Krug­man, è l’interesse dei cre­di­tori. Ma io credo che l’Europa di oggi e gran parte degli stati di antica indu­stria­liz­za­zione testi­mo­nino un muta­mento sto­rico finora inos­ser­vato, che ormai emerge alla luce del sole. Non solo i vec­chi par­titi comu­ni­sti, socia­li­sti, social­de­mo­cra­tici sono stati strap­pati alle loro radici popo­lari e gua­da­gnati al campo avversario.
E’ cam­biata la forma di razio­na­lità dei gover­nanti. Hei­deg­ger diceva che : è la tec­nica che non pensa. La ragione tec­nica applica dispo­si­tivi dot­tri­nari alla realtà, atten­dendo che essi fun­zio­nino per­ché così accade nei labo­ra­tori o nelle simu­la­zioni mate­ma­ti­che. Nella loro ratio se il dispo­si­tivo non ha suc­cesso è per­ché si sba­glia nella sua appli­ca­zione o que­sta non è com­pleta. Se il Job Act non fun­zio­nerà è per­ché qual­che resi­dua norma impe­di­sce all’imprenditore di licen­ziare i suoi ope­rai quando più gli aggrada. Dun­que, la verità che nes­suno vuol dire è che oggi siamo gover­nati da uomini che non pen­sano. Dove il verbo pen­sare ha una ric­chezza seman­tica ormai andata per­duta nel les­sico cor­rente: signi­fica lo sforzo crea­tivo di rispon­dere alle sfide della realtà ascol­tan­done la com­ples­sità, cer­cando solu­zioni con­di­vise e di uti­lità gene­rale con l’arte della poli­tica. I tec­nici con­ti­nuano ad appli­care dot­trine scon­fitte dalla realtà . Ma i poli­tici senza dot­trina, come il nostro Renzi e prima Ber­lu­sconi, non pen­sano più dei tec­nici. Eser­ci­tano l’arte red­di­ti­zia della comunicazione.

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