domenica 12 ottobre 2014

RIDATEMI IL LIBERO ARBITRIO! di Sebastiano Isaia

0616d30ecc95c72c26ea22be39ec10d5 La scienza introduce un sapere che non ha da preoccuparsi più di tanto dei propri fondamenti di verità (J. Lacan).

In molti scritti mi sono occupato di un concetto che a ragione può essere considerato un peso massimo della filosofia e della teologia (una distinzione, questa, che va presa con le molle): il concetto di libero arbitrio. Ho persino dato il titolo di Illibero arbitrio (*) a un modesto studio dedicato ai concetti di libertà, umanità e responsabilità, e pure L’Angelo Nero sfida il Dominio (con ricercata allusione al Padre di tutti i mali e di tutti i vizi) ha al centro l’abissale questione della libertà umana.
Scrivevo su un post dello scorso settembre dedicato alla Crisi della democrazia: «Oggi il libero arbitrio si dà interamente dentro la società strutturata fin nei minimi dettagli dai rapporti sociali capitalistici. È dentro la dimensione dominata dal discorso del Capitale, per dirla con Lacan, che esercitiamo la nostra libertà di scelta sul mercato della vita: mercato delle merci, delle idee (politiche, religiose, filosofiche, ecc.), delle relazioni affettive e via di seguito. Parlare “dei cittadini” nei termini di “soggetti politici responsabili” significa dunque fare dell’ideologia, ossia negare una realtà che fa degli individui degli oggetti sociali sussunti da una prassi che per l’essenziale essi non controllano e che piuttosto li controlla. Posto tutto questo, ha senso parlare di responsabilità personale? Comunque sia, la ricerca del significato e dei limiti di questa responsabilità non può prescindere dal quadro di radicale disumanità e illibertà (due modi di alludere alla stessa cosa) qui solo abbozzato. Questo, naturalmente, se non si vuole fare dell’ideologia e dell’apologia dello status quo sociale».
Un altro passo, che tornerà utile tra poco: «Una volta Arthur Schopenhauer scrisse che “Dove c’è colpa ci deve anche essere responsabilità” (La libertà del volere umano). Ebbene, la Colpa che a mio avviso fa luce (non sto dicendo che annulla ma che relativizza, contestualizza, spiega) su ogni altra colpa che ha come protagonista il singolo individuo deve essere individuata nella struttura classista della società. “Se infatti un’azione cattiva proviene dalla natura, cioè dall’innata qualità dell’uomo, la colpa è evidentemente dell’autore di questa natura. Per questo si è inventata la libertà del volere”. Inutile dire che l’autore del Mondo come volontà e rappresentazione alludeva all’Artefice Massimo di tutte le cose, a Dio. “Pertanto”, concludeva Schopenhauer, “l’uomo rimarrebbe innocente in ogni caso… mentre lo si fa responsabile”. Aggiungo: di tutto».

Oggi scopro che il materialismo delle scienze naturali mi ha completamente scavalcato, non so dire se a “sinistra” o a “destra”. Ma certamente la sua radicale negazione del libero arbitrio spiazza completamente le mie tesi fondate su ragionamenti storici, sociali, filosofici. Tutto inutile, tutto da rifare, tutto da riscrivere! Soprattutto le neuroscienze mi danno torto. Torto marcio.
imagesEcco ad esempio come su La Stampa del 9 ottobre Claudio Gallo presentava al lettore La strana coppia (Carocci), il nuovo saggio del neurofisiologo «di fama internazionale» Piergiorgio Strata: «L’aspetto non pare certo minaccioso, il libretto sta nella tasca posteriore dei jeans. Il titolo, giudiziosamente tecnico, è per nulla allarmante: La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze. L’autore, Piergiorgio Strata, è una garanzia di serietà. Eppure bisogna valutare bene se decidere di leggerlo oppure no. Qualcosa dal profondo suggerisce: “Non aprite quella porta”. Perché se per caso lo farete e prenderete sul serio le sue documentate tesi, il mondo non sarà più come prima. Vi sveglierete in un inquietante Day After. Apprenderete, ad esempio, come la decisione di leggerlo non l’avete presa voi, ma la vostra macchina cerebrale, qualche secondo prima che la coscienza intervenisse nel processo. Libero arbitrio addio, l’io cosciente sarebbe più un notaio che certifica i fatti quando sono già accaduti (anche se poi si attribuisce ingiustamente la scelta) che non uno stratega. La valanga è appena partita: se non c’è possibilità di scegliere sarebbe logico dire addio anche un pilastro della nostra società come il sistema giudiziario, che considera gli individui responsabili e li giudica nei tribunali».
Addio soggetto cartesiano, addio Io (e Super-Io) freudiano, addio Anima: congediamo tutti i concetti che in qualche modo presupponevano l’esistenza di un soggetto libero o potenzialmente tale. Il materialista della sostanza biologica ci invita ad abbandonare i vecchi e illusori paradigmi cari alla filosofia e alla teologia. Non solo non esiste Dio, ma non esiste neanche un vero Io. Dio è morto, ma anche l’Io non sembra godere di ottima salute. Responsabile di questo complotto contro il libero arbitrio è dunque il cervello, questo nostro Nemico.
Ma se cade il libero arbitrio; se si scopre che a decidere non è la mente secondo coscienza ma il cervello secondo biochimica, se si prende atto che siamo meri esecutori di decisioni prese in altra sede (ad esempio, nel lobo frontale, o nell’ippocampo), con ciò stesso non si dichiara la totale irresponsabilità dei cittadini? Chiudiamo dunque tribunali e carceri; gettiamo senza indugi di sorta nella pattumiera (della filosofia e del diritto) quanto trovava la propria legittimità in una libertà di scelta che, come abbiamo finalmente appreso, la natura stessa ci nega.
Ma Strata non è d’accordo con queste estremizzazioni “ontologiche”, e per giustificare la sua inclinazione alla difesa dell’ordine sociale (se ha ancora un senso questa antica locuzione dopo le ultime scoperte scientifiche intorno al cervello) ricorre a una ben nota astuzia della filosofia orientata in senso pragmatico: «Anche Strata, benché in sede teorica e sperimentale ne smonti le premesse, riconosce il valore sociale dei tribunali e della deterrenza della pena. Dopotutto la nostra società funzionerebbe lo stesso anche se davanti a tutto mettessimo un “come se”. Io sarò giudicato “come se” fossi libero di scegliere. Ammettere il contrario sarebbe la madre di tutti gli incubi. In ogni caso, saranno questi i temi su cui i giuristi dovranno confrontarsi nel prossimo futuro». Ma si, comportiamoci “come se”! Cosa che d’altra parte facciamo, ma in un senso che ovviamente sfugge completamente alla coscienza del materialista biochimico.
È appena il caso di ricordare che l’utilitaristica filosofia della finzione è, per i teorici del come se,  «al servizio della vita», ossia dello status quo sociale.
Umanoide_01Ma se improvvisamente ci scopriamo privi di libero arbitrio e sottoposti a una dispotica struttura cerebrale che non controlliamo e che, in ultima analisi, determina le nostre relazioni sociali e le nostre azioni, possiamo almeno consolarci pensando ai successi che si registrano nella ricerca tesa alla creazione dell’umanoide perfetto. Rallegriamoci: la fantascienza è a un passo dal diventare realtà. Il premio Nobel per la medicina assegnato quest’anno, infatti, parla chiaro a tal proposito. «Studiato per secoli, fino a scomodare filosofi come Immanuel Kant, il rapporto fra mente e cervello è diventato un tema da affrontare in laboratorio solo da qualche decennio. E solo ora per la prima volta si è scoperta la relazione fra una particolare architettura del cervello e la mente, in particolare con la consapevolezza di occupare un luogo preciso nello spazio. Un risultato da Nobel, grazie alle ricerche dell’anglo-americano John O’Keefe e dei norvegesi May-Britt e Edvard Moser. “È la prima volta che viene fatta una correlazione così chiara tra la mente e il cervello”, osserva il neurofisiologo Piergiorgio Strata [sempre lui!]. ”I ricercatori – prosegue – hanno scoperto dove è localizzata la mappa spaziale che ci fa riconoscere la strada di casa, come una sorta di un Gps all’interno della rete fatta da circa 170.000 chilometri di fibre nervose e un milione e mezzo di sinapsi. È una ricerca di base e non ci sono applicazioni possibili domani, ma in futuro le scoperte lungo questa direzione potrebbero portare a macchine di nuova generazione”» (Ansa.it). Roberto Cingolani, presidente dell’Istituto Italiano di Tecnologia, conferma la prospettiva che sorride all’umanità: «Al momento non è possibile avere la più pallida idea sulle applicazioni, ma è evidente che in alcuni casi il settore delle neuroscienze ha caratteristiche interessanti per noi che ci occupiamo di tecnologie umanoidi».
Le tecnologie umanoidi mi riempiono il cuore (metaforico: non vorrei che il lettore materialista alzasse il sopracciglio) di eccellenti sentimenti, esattamente come il concetto di “capitale umano”. Mi sforzo di essere ironico. Uno sforzo che, a quanto pare, va attribuito non alla mia “coscienza di classe” (che vetusta illusione della mente!) ma al mio cervello – da intendersi come massa e struttura biochimica, si capisce.
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Proprio oggi apprendo da un notiziario televisivo che due scienziati americani hanno realizzato un potentissimo scanner capace di mostrare i pensieri. «Quello che fino a ieri si riteneva essere l’ultimo rifugio segreto dei nostri pensieri, dei nostri sogni è alla fine crollato»: questo è il solo laconico commento che l’annunciatrice di nefaste notizie ha saputo fare.
Naturalmente il problema non sta tanto nell’invenzione del potentissimo scanner, quanto nell’impotenza della gente che le parole dell’annunciatrice esprimono. Si dirà che sono dettagli, che continuo a perdermi in quisquilie; ma come disse una volta Adorno, «prolungate, le linee conducono all’intreccio sociale», e «l’intreccio sociale» diventa sempre più ostile all’uomo, o meglio, a ciò che ne residua. E da ultimo, pare che le neuroscienze siano ad un passo dal mettere le mani sulla base biologica del libero arbitrio, con buona pace di quel fesso di Kant e della millenaria speculazione filosofica che si è affaticata e intristita inutilmente intorno a quel concetto, il quale, garantiscono i nostri neuroscienziati, ha una natura tutt’altro che metafisica e problematica. Non bisogna dunque stupirsi se un individuo sensibile come Dostoevskij sostenesse già nel 1864 la fuga dal palazzo di cristallo del progresso, e la discesa nel sottosuolo dell’irrazionalismo come ultima trincea contro la falsa razionalità – falsa dal punto di vista dell’uomo umano – del mondo civile (1). C’è più verità in questa impossibile fuga dalla società disumana, rivendicata contro i «sapienti amanti del genere umano», che in tutti i discorsi intorno agli «aspetti positivi» del progresso reso possibile dalle conoscenze scientifiche.
La natura totalitaria del sociale in questa epoca storica si coglie, ad esempio, nel tentativo praticato dalla scienza di ricondurre ogni manifestazione della vita umana alla sua base organica, al suo sostrato biologico, in modo da trovare un rimedio farmacologico praticamente per tutte le «problematiche» esistenziali. La mitica pillola della felicità pare sia dietro l’angolo, bisogna solo aver pazienza, e nel frattempo sopravvivere alla meno peggio. Pure di prossima produzione sembra essere la pillola che cancella i cattivi ricordi, sviluppata in ambito militare dai soliti americani, preoccupati dai contraccolpi emotivi che le loro guerre «umanitarie» hanno sul morale degli ex soldati. La chimica ci salverà! Ovvero: chi ci salverà dalla chimica?
Contro il determinismo della scienza, la quale insegna «che prima di tutto nel mondo dominano le leggi della natura», e che seguendo ciecamente e ossessivamente questo dogma crede di poter carpire tutti i segreti della vita umana «secondo queste leggi, matematicamente, come per mezzo delle tavole dei logaritmi», Dostoevskij proclamò il libero arbitrio degli individui, «il nostro proprio volere, libero e autonomo, i nostri propri capricci, per quanto folli essi possano essere, la nostra propria fantasia, eccitata qualche volta fino alla frenesia – ecco (ciò) … che non cade sotto alcuna classificazione e che manda al diavolo tutti i sistemi e tutte le teorie» (2). 
Egli non comprese che il libero arbitrio non è di questo mondo, ma dell’altro, quello che può venir costruito in futuro, insomma del mondo umano. Il Palazzo di cristallo non va per così dire evaso – impresa appunto impossibile, anche per il singolo individuo –, ma piuttosto mandato senz’altro in frantumi; esso va relegato nell’archeologia preumana, per venir sostituito dalla casa dell’uomo in quanto uomo, dalla comunità umana che ha imparato a nutrire amore non per le leggi della natura, ma per la natura, non per le «leggi di sviluppo» che regolano la vita degli individui, ma per gli «individui in carne ed ossa», non per la conoscenza del mondo, ma per il mondo in quanto tale, proprio secondo gli auspici dell’uomo ridicolo magistralmente schizzato dallo scrittore russo nel 1877 (3). Leggendo Il Sogno di un uomo ridicolo, con il quale Dostoevskij tocca insieme le massime punte di nichilismo e di utopia, vien voglia di esclamare, mutuando un altro famoso titolo, miseria della scienza!
Alcuni esponenti più radicali della tendenza antiumana sognano di poter ricreare in laboratorio le condizioni della Creazione, in modo da poter dare scacco matto una volta per sempre a Dio, il quale evidentemente turba i loro razionalissimi sogni. D’altra parte, la «teoria inflazionaria» del fisico e cosmologo americano Alan Guth sembrerebbe in grado di dirci tra poco cosa accadde nel «primo miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo» dopo il «momento zero» (o Big Bang che dir si voglia). Inutile dire che tutte le più accreditate teorie cosmologiche non “riflettono” un ben nulla, ma si limitano a postulare, a prevedere, a ipotizzare, allo scopo di lanciare ponti conoscitivi sopra il maledetto ignoto ed estendere il dominio teorico e pratico della società sulla natura. Fini euristici e fini economici tendono sempre più a coincidere, a fondersi. 

Ma i super materialisti sono l’altra faccia della medaglia di una società che produce a ritmi industriali ogni sorta di religione più o meno «alternativa», perché il «disagio sociale» nelle metropoli del capitalismo mondiale è tanto, e il bisogno di misticismo, chiamato a lenire le sofferenze e a dare un senso al caos generale, non smette di crescere. Il Cristo del Code da Vinci piuttosto che il Buddha americanizzato; «il flusso cosmico» piuttosto che i cristalli, o l’accozzaglia di “concetti” ritagliati qua e là e appiccicati sul librone di Scientology: il mercato dello Spirito è vasto, e promette di soddisfare tutte le esigenze: generazionali, professionali, sessuali, razziali, ecc. Ce n’è per tutti e per tutte le tasche, checché ne dica il povero Pastore Tedesco assiso al Sacro Soglio Romano, scandalizzato da cotanta babele mistica, da questo sacrilego mercato della fede, perché solo una religione è scientificamente corretta, quella Cattolica, naturalmente. Una volta Jacques Lacan disse che «se la religione trionfa, sarà il segno che la psicoanalisi è fallita». Forse egli si era fatto qualche illusione sulle capacità illuministiche della psicoanalisi. In effetti, se la religione – di qualsiasi genere essa sia: compreso lo scientismo più rigido – trionfa è segno del fallimento dell’umanità, la quale continua ad averne bisogno, come e forse più di quanto non ne avesse nelle epoche in cui la razionalità scientifica occupava un posto irrisorio.  […]
«Come posso aiutarlo io che sono maledetto! – gridò una volta Nietzsche, in uno dei suoi ultimi slanci di compassione per un uomo ormai ridotto ai minimi termini – Ma qualcuno deve essere responsabile, altrimenti sarebbe troppo insopportabile». Qualcuno o qualcosa? Signori, la notizia del giorno è questa: non ci sono responsabili, ovvero, il che poi ha lo stesso significato, siamo tutti responsabili, vittime e carnefici, buoni e cattivi, sfruttati e sfruttatori. Nessuno può chiamarsi fuori dal male, perché finché non lo si riconosce per quel che veramente è, esso non ci lascia altra funzione che quella di riprodurlo sempre di nuovo.
La diffusione tra le persone più sensibili delle società capitalisticamente avanzate di religioni e «filosofie» più o meno in regola con i certificati di «affidabilità» e «serietà» rilasciati dalle agenzie che monopolizzano la diffusione del pensiero filosofico e scientifico, dell’etica, della morale e della cultura in generale (lo Stato, la Chiesa, l’Accademia delle scienze e così via); questa diffusione, dicevo, testimonia l’incomprimibile bisogno di quelle persone di resistere in qualche modo alle annichilenti pressioni che sorgono soprattutto dal meccanismo che crea e distribuisce la ricchezza sociale – sotto forma di denaro e di merci d’ogni genere. Attesta il loro bisogno di cercare un senso a una vita sociale che appare sempre più insensata, precaria e irrazionale, nonostante vi domini una prassi sempre più assoggettata, fin nei più minimi dettagli, al controllo della scienza e della tecnica. E questo falso paradosso, che cela una stringente necessità radicata nella natura della società disumana, la dice lunga sulla funzione e sul carattere della scienza odierna, sulla sua diretta responsabilità nella riduzione degli individui a cose, a tecnologie più o meno “intelligenti”, a «risorse», a «capitale umano» altamente produttivo di profitti.
A differenza della Chiesa di Roma, forte della sua millenaria esperienza al servizio del dominio sociale di volta in volta vigente, i politici e gli intellettuali «progressisti» che si attendono dai successi della scienza e della tecnica la definitiva liberazione dell’umanità dalla «credulità religiosa», mostrano di non saper cogliere l’intimo legame che insiste tra lo sviluppo accelerato della cosiddetta «struttura sociale», che proprio nella scienza e nella tecnica ha il suo fondamentale supporto, e la «disarmonia» che regna nella vita e nelle teste degli individui, costretti a vivere in una società sempre più rapida nelle sue trasformazioni, sempre più competitiva e stressante in ogni suo ambito, anche nelle «sfere esistenziali» che un tempo si potevano ritenere – a torto – al riparo dalle dinamiche «strutturali». Si pensi a cosa sono diventate le relazioni affettive, o puramente «sociali», tra gli individui, o all’evaporazione della famiglia cosiddetta tradizionale – con tutti i pesanti risvolti osservabili nel «privato» e nel «pubblico» –, o ancora al dilagare dell’uso degli psicofarmaci, non solo tra gli adulti ma anche tra gli adolescenti e i bambini, e via di seguito. I «progressisti» non comprendono come la fede nella potenza miracolosa dei cristalli, o dei colori, o dei numeri, delle stelle – ce n’è per tutti i gusti, a seconda del censo, della professione, dell’età, del sesso e così via: anche il mercato della fede è ricco di prodotti alla moda, basta scegliere la giusta taglia “spirituale” –; ovvero in qualche santone più o meno accreditato dalle agenzie culturali e spirituali cui si accennava sopra, non sia che l’altra faccia, forse la meno crudele e ostile, della moneta che mostra al lato opposto la fede nella potenza benigna della scienza e della tecnica. «Razionale» e «irrazionale» non sono che due diverse modalità di padroneggiare alla meglio una condizione sociale altamente complessa, che esige altrettanto complesse strategie di sopravvivenza.
Nella società irrazionale, le vie che conducono alla «razionalità» sono – quasi – infinite, e mostra di non saper afferrare la radice del problema chi stabilisce arbitrarie graduatorie di serietà fra quelle numerosissime vie. Seria, nel senso di grave, è la condizione (dis)umana. Per questo fede e scienza non sono che le due facce, del tutto intercambiabili, della stessa medaglia che mostra quella triste condizione. D’altra parte, solo nella testa di chi non si sente conciliato con il sistema di dominio, di chi avverte in qualche modo l’immenso scarto tra realtà e possibilità, può fare capolino l’impellente esigenza di andare oltre le apparenze, di ricercare le radici della disumanità, di non accontentarsi dei freddi «dati di fatto», e questo bisogno sociale la scienza non può capirlo. Irretita dal suo stesso avvizzito illuminismo, essa non può capire che anche nelle manifestazioni più irrazionali di quel fondamentale bisogno, del bisogno «esistenziale» di trascendere, alligna la più radicale condanna della società disumana. Lo scientismo è la malattia senile dell’illuminismo, è la vecchia razionalità scientifica che si è infine sclerotizzata in un ottuso dogmatismo.

(1) «Per quanto è a mia cognizione, o signori, voi avete formato il vostro registro degli interessi umani con una cifra media presa dalle statistiche e dalle formule scientifico-economiche. Eccoli i vostri interessi: prosperità, ricchezza, libertà, riposo e così via e così via, di modo che l’uomo, il quale, per esempio, manifestamente e coscientemente si ribellasse contro il vostro registro, sarebbe secondo voi un oscurantista o addirittura un pazzo» (F. M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, in Racconti e romanzi brevi, III, p. 96, Sansoni, 1962).
(2) Ivi, p. 109.
(3) Ecco qualche passo dell’utopia onirica raccontata dal «progressista russo contemporaneo e abietto pietroburghese» ai ferri corti con l’irrazionalità della scienza razionale (borghese): «I figli del sole, del loro sole … mi indicavano i loro alberi, ma io non potevo comprendere l’intensità dell’amore con cui essi li guardavano: sembrava che parlassero di esseri simili a loro … Così consideravano anche tutta la natura, anche gli animali che con loro pacificamente vivevano, senza aggredirli, e li amavano, vinti dal loro stesso amore … Non possedevano la nostra scienza (e) non aspiravano alla conoscenza della vita come aspiriamo a conoscerla noi, perché la loro vita era già piena. Ma il loro sapere era più profondo e più alto di quello della nostra scienza; giacché la nostra scienza cerca di spiegare che cosa sia la vita, per insegnare agli altri a vivere; quelli invece anche senza scienza sapevano come dovessero vivere» (F. M. Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo, in Racconti e romanzi brevi, III, p. 718, Sansoni, 1962).

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