domenica 2 novembre 2014

Il futuro è solo il passato che ritorna? di Domenico Gallo




“Il futuro è solo l’inizio” è l’inquietante slogan della Leopolda che esprime bene la pulsione di coloro che guidano il Governo ad infrangere le barriere del presente per catapultare l’Italia in una nuova dimensione dove tutto è cambiato: le istituzioni, la società, lo Stato.

E’ stato annunciato un “cambiamento violento”, un rovesciamento totale degli equilibri di potere, di assetti consolidati, di tradizioni politiche, che consentirà – secondo la narrazione dominante – di far ripartire l’Italia, di recuperare efficienza e funzionalità al sistema Paese, schiacciando le resistenze corporative di sindacati, ceti professionali e corpi intermedi.

In realtà i criteri che guidano i processi di riforme costituzionali ed elettorali corrispondono ad esigenze politiche, che si sono riaffacciate in varie occasioni nella vita delle nostre istituzioni, non sono delle novità bensì delle costanti che riaffiorano nei momenti di gravi crisi economiche e di smarrimento morale.

Quando ci viene annunziato un salto nel futuro, non possiamo guardare al futuro ignorando il passato da cui proveniamo. E non dobbiamo ignorare gli insegnamenti che abbiamo tratto dal passato.
Fatte le dovute proporzioni, ci sono molte somiglianze fra la situazione attuale e le esperienze istituzionali che abbiamo vissuto in un passato non troppo lontano.

Anche in quell’epoca il nostro Paese era attanagliato da una grave crisi economica e da un ancor più grave smarrimento morale, dovuto alle inenarrabili sofferenze e alle mutilazioni che la guerra aveva provocato nel corpo sociale. C’era una diffusa insoddisfazione che si esprimeva con scioperi, manifestazioni e violenti conflitti fra opposte fazioni politiche.

In questo contesto un leader politico ottenne la nomina a Presidente del Consiglio, con una procedura extraparlamentare (che si svolse attraverso una sorta di primarie del manganello), promettendo un rinnovamento totale che avrebbe pacificato ogni conflitto e consolidato l’unità e la forza della Nazione italiana.

Questo giovane leader politico, che – come il nostro Presidente – all’epoca non aveva ancora compiuto 40 anni, propugnava il mito della velocità e della giovinezza e si mostrava estremamente deciso a portare avanti il suo programma, incurante delle resistenze che provenivano da ogni dove, tanto che il suo motto preferito era: “me ne frego”.

Tuttavia il Parlamento non era ancora un bivacco di manipoli, per ottenerne la fiducia il giovane Presidente del Consiglio fu costretto ad imbarcare nella maggioranza una serie di partiti e partitini, alcuni dei quali recalcitranti rispetto alla riforme che il Capo politico voleva attuare. Addirittura il principale dei suoi alleati in Parlamento, il Partito Popolare, fece un congresso a Torino, dove il suo Segretario, pur non rinnegando l’alleanza, delegittimò il movimento del Presidente del Consiglio, qualificando come “pagane” le sue teorie.

Allora emerse un problema istituzionale: come poteva il Presidente del Consiglio realizzare le profonde trasformazioni di cui l’Italia aveva bisogno se i suoi stessi alleati recalcitravano?
Sorse quindi l’esigenza per il decisore politico di liberarsi dei ricatti di partiti e partitini.
Quale fu la risposta? Cambiare la legge elettorale per cambiare la natura del Parlamento e renderlo docile ai comandi del Capo politico. Il dibattito che si svolse in occasione dell’approvazione della legge Acerbo è attuale ancora oggi, data la notevole somiglianza di quella riforma con le riforme elettorali attualmente in discussione. Giovanni Amendola osservò che la riforma elettorale cambiava la natura del Parlamento perché attribuiva al Governo la facoltà di nominarsi la sua maggioranza.

E così avvenne! Grazie al premio di maggioranza assegnato ad una sola lista, il Partito della Nazione guidato dal giovane Presidente, pagando il modesto prezzo di imbarcare nel listone qualche fuoriuscito dei partiti alleati, ottenne una schiacciante maggioranza formata da uomini di fiducia “nominati” dal Capo politico. La nuova legge elettorale ottenne l’effetto voluto, consentì al Capo politico di sbarazzarsi del ricatto di partiti e partitini e determinò l’avvento di un partito unico al governo che, per vicende successive, si impose come unico partito.

Tuttavia la legge Acerbo, alla prova dei fatti, presentava un grave difetto, non riuscì ad escludere dal Parlamento quelle forze dell’opposizione che più davano fastidio al Capo politico.

Il povero Presidente del Consiglio dell’epoca fu costretto ad affidarsi ad una banda di bravi per togliere di mezzo Matteotti, i cui discorsi in Parlamento, venivano ripresi dai giornali e contraddicevano il mito dell’unità della nazione italiana, screditando il movimento.

Non fu un’operazione politicamente indolore perché si misero di mezzo i giudici.
La magistratura, che aveva quasi sempre chiuso un occhio di fronte alle operazioni delle camicie nere, quella volta non lo chiuse; forse perché le indagini furono affidate ad un giudice istruttore che si chiamava Occhiuto, il quale scopri immediatamente autori materiali e mandanti, inchiodandoli con prove schiaccianti, prima che il processo gli venisse tolto per avere una gestione più accomodante.

In realtà la responsabilità politica di questo evento tragico non fu del Presidente del Consiglio, ma del suo vice. Se Acerbo avesse adottato la soglia di sbarramento all’8%, prevista dal Patto del Nazareno, né Matteotti, né Gramsci sarebbero mai entrati in Parlamento. Attraverso gli opportuni accorgimenti la legge elettorale avrebbe potuto consentire al Capo del Governo dell’epoca (e può consentire ai governanti attuali) di sbarazzarsi dell’opposizione più fastidiosa senza la necessità di ricorrere ad atti di violenza.

Oggi, attraverso i progetti di riforme costituzionali, istituzionali ed elettorali, si sono aperte le porte di un grande cambiamento. A questo punto sorge spontanea la domanda: questo grande cambiamento ci indica la strada del futuro, oppure apre le porte al passato che ritorna?

Nessun commento: