Uno scontro giocato sul simbolico. E che non apre nessun spazio politico
Non sappiamo quali siano stati i motivi che hanno indotto la
Rete No Expo a rinviare l’assemblea prevista per domenica 3 maggio
(l’assemblea, si legge nel sito della rete, «si riconvoca nei prossimi giorni»). Resta il fatto che, dopo quanto avvenuto in piazza durante la Mayday, un importante spazio di confronto politico si è chiuso.
E quelle che dovevano essere le «cinque giornate di Milano»,
preludio a sei mesi di «alterexpo», sono state fagocitate, non
solo sui media mainstream ma anche nell’esperienza di migliaia di
attivisti/e, da un paio d’ore di duri scontri.
Il risultato è un certo spaesamento diffuso, la difficoltà nel
prendere parola e nel rilanciare la mobilitazione (cosa che
comunque la Rete No Expo fa con un comunicato).
Meno di due mesi fa, a Francoforte,
le cose erano andate in modo diverso. Il tentativo di blocco
dell’inaugurazione della nuova sede della Bce era stato accompagnato
da azioni e comportamenti non dissimili da quelli che si sono visti
a Milano (pur in altre condizioni, dispiegandosi parallelamente
a un insieme di blocchi appunto, e non durante il corteo che ha
attraversato la città).
E tuttavia la coalizione Blockupy,
sottoposta a duri attacchi da parte dei media e delle
istituzioni, era stata in grado di riaffermare immediatamente le
ragioni dell’opposizione all’austerity e della costruzione di uno
spazio transnazionale di azione politica contro il management
europeo della crisi. Le stesse iniziative «militanti» assunte da
gruppi esterni alla coalizione avevano finito per illuminare quelle
ragioni, o comunque non le avevano oscurate.
È quel che non è avvenuto a Milano. A noi pare che nella
preparazione delle iniziative contro expo siano convissute due
prospettive piuttosto diverse: da una parte quella che individuava
nella manifestazione espositiva un grande laboratorio sociale,
in cui venivano sperimentate nuove forme di sfruttamento e di
messa al lavoro della cooperazione sociale, in cui si forgiavano
nuovi spazi urbani, nuove gerachie e nuovi immaginari (e se ne
rilanciavano al contempo altri, niente affatto nuovi, come segnalato
ad esempio dalla campagna contro «We-Women for Expo»); dall’altra
quella che considerava l’Expo come la realizzazione
paradigmatica di una «grande opera».
Ci sembra evidente che la prima prospettiva, attorno a cui in
questi anni sono nate importanti esperienze di inchiesta e sono
stati messi in campo generosi tentativi di auto-organizzazione e di
lotta, è risultata completamente spiazzata durante la Mayday: non
è cioè riuscita a imporsi come polo di aggregazione e di indirizzo
politico. A prevalere è stata la seconda: assunta l’Expo come
simbolo delle «grandi opere», il simbolismo è dilagato tra le
fiamme e le bombe carta, con una serie di slittamenti che dalle
banche e dalle agenzie immobiliari sono giunti a investire normali
negozi e qualche utilitaria.
È un punto che va ribadito: a Milano tutto si è giocato sul piano
del simbolico. Non v’è stata espressione di una rabbia sociale
diffusa (che pure non manca), ma azione organizzata di soggetti che
hanno scelto di attaccare i simboli del «potere» e del «capitale»
perché convinti – almeno una parte significativa di essi – che non
vi sia alternativa a una politica di pura distruzione, che non vi
sia alcuno spazio per una lotta capace di distendersi nel tempo, di
consolidare delle conquiste e di affermare nuovi principi di
organizzazione della vita e della cooperazione sociale. Davvero
il paragone con Ferguson e Baltimora, con movimenti di rivolta
sociale che attraversano, coinvolgono e dividono intere comunità,
è fuori luogo, a meno che non ci si voglia fissare esclusivamente
sulle apparenze, sulle forme e sulle immagini dello scontro!
Si potrà poi dire che qualche vetrina infranta, qualche banca
e qualche automobile in fiamme non sono nulla di fronte alla
violenza quotidiana della crisi, della povertà e delle guerre, che il
disordine e la violenza che regnano nel mondo si sono palesati per
una volta con segno rovesciato.
Si potrà aggiungere che il riot milanese ha rovinato lo
spettacolo della città tirata a lustro per l’Expo, ha offerto un
controcanto alle fiamme tricolori e agli orribili pennacchi dei
carabinieri in tenuta di gala, alle penose retoriche del «futuro che
comincia adesso» e dell’«aspirazione di rimettersi all’onor del
mondo». A noi sembrano, nel migliore dei casi, magre consolazioni:
nelle strade di Milano, il primo di maggio, abbiamo visto piuttosto
l’immagine della nostra impotenza, della nostra incapacità di
mettere in campo forme efficaci di azione politica orientata alla
destrutturazione dei rapporti di sfruttamento e alla
trasformazione radicale dell’esistente.
Abbiamo sempre pensato che l’esercizio della forza da parte dei
movimenti debba essere commisurato prima di tutto a un principio:
quello degli spazi politici che è in grado di aprire, dell’effettivo
avanzamento del terreno di scontro che determina, delle conquiste
e delle mediazioni che garantisce e consolida. Difficilmente
questo principio può essere applicato a quanto abbiamo visto
a Milano: il simbolismo dello scontro è stato esasperato fino ad
assumere forme iperboliche, secondo una logica della messa in scena
e della rappresentazione (mai troppo lontana dall’aborrita
rappresentanza) di una rivolta che continua a non manifestarsi
nella quotidianità.
Ripensare forme conflittuali espansive e condivisibili,
radicarle nei rapporti e nelle lotte sociali in modi capaci di
moltiplicare la partecipazione, il consenso e il «contagio»
torna a essere un problema politico fondamentale.
Non auspichiamo certo piazze e manifestazioni pacificate (del
resto, la «nuova etica» della polizia celebrata dai media, si
è estinta nel giro di due giorni spaccando le teste senza casco nero di
chi fischiava Renzi a Bologna): si tratta piuttosto di costruire
collettivamente, e dunque politicamente, le condizioni perché
la stessa espressione di antagonismo e rabbia trovi forme di
canalizzazione affermativa, al di là di ogni estetica della
distruzione.
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