Sono passate solo poche settimane da quando,
parlando dei rapporti con il governo Renzi e quindi della legislazione
di favore da ottenere, Giorgio Squinzi si lasciò scappare un “non
abbiamo più niente da chiedere”. Dopo l'approvazione del Jobs Act, in
effetti, poteva sembrare che gli imprenditori di questo paese e di
qualsiasi altro volesse venir qui, fossero satolli di incentivi e
facilitazioni, ancorché a corto di idee industriali.
E invece no. Squinzi torna a dettare la linea al
governo, aprendo il fronte del welfare, genericamente inteso, tutto “da
rivedere”.
«La sostenibilità del nostro modello sociale passerà necessariamente dalla rivisitazione del sistema di Welfare. È tempo di avviare una riflessione complessiva su ammortizzatori sociali, sulle politiche attive, i servizi del lavoro e la formazione». Parlava davanti agli scarsi sopravvissuti di un settore evaporato, in questo paese: la chimica.
Ma non si è certo limitato a un discorso settoriale...
Addirittura vorrebbe una “rivoluzione culturale”, mettendo
definitivamente al centro l'impresa e i suoi “valori”, invece che quelli
del lavoro. Insomma: un art, 1 della Costituzione che recitasse “la
Repubblica italiana è fondata sull'impresa”. Con tutto quel che ne
consegue.
L'elenco delle cose da cambiare fatto da Squinzi è molto
lungo e variopinto. Ci infila dentro microtasse cervellotiche, pensate
dai suoi quasi amici governanti per fare cassa nei momenti difficili e
poi “rimaste lì”, come la accisa per il terremoto di Messina (1910!) che
paghiamo tutti facendo benzina.
«La cultura anti industriale da noi è ancora ben diffusa e radicata. Questa è la riforma più difficile che dobbiamo realizzare. Gli imprenditori hanno bisogno di sentire intorno a sé una società che considera l'impresa come un patrimonio e un valore da difendere. Invece le migliaia di norme che si sono stratificate negli anni per renderci dura la vita dobbiamo ammettere che hanno avuto successo. E ancora non è finita. La manina anti industriale ogni tanto si affaccia nelle pieghe dei provvedimenti. I reati ambientali, il nuovo falso in bilancio, nuove autorizzazioni di varia natura, il canone sugli imbullonati - che faccio sempre fatica a raccontare all'estero tanto è assurdo - in generale una giurisprudenza studiata e scientificamente realizzata contro l'impresa, non nascono dal caso ma da una cultura, da un abito mentale diffuso che pensa ancora all'imprenditore come a un nemico della collettività».
Diciamo che se non ci avesse messo dentro anche i reati
ambientali avrebbe potuto passare come un discorso di buon senso. Però
proprio su questi reati, e soprattutto su alcune condanne comminate
dalla magistratura (assai poche in confronto all'estensione del disastro
ambientale doloso perpetrato da quasi tutte le imprese, finché non
vengono colte sul fatto), Squinzi si era già speso molto, parlando
appunto di “cultura anti-industriale”.
Risulta difficile per chiunque dotato di normale
raziocinio capire perché, se lo sversamento di liquami industriali
cancerogeni è un reato, questa sia una dimostrazione di “cultura
anti-industriale”. Seguendo, con difficoltà, la sua logica, potremmo
dire che un certo modo disinvolto di fare industria è una dimostrazione
di “cultura stragista”. Ma non è necessario buttarla in ideologia.
Bastano i fatti, per (s)qualificare l'argomentazione di Squinzi
(peraltro titolare di un'industria chimica – la Mapei – specializzata in
materiali per l'edilizia; due in uno, insomma).
Per il falso in bilancio, invece, si tratta forse di una
incomprensione imputabile a scarse nozioni giuridiche: la Cassazione ha
appena mostrato che la versione Renzi del "falso in bilancio" è anche
più permissiva, per l'impresa, di quella voluta da Berlusconi...
Questa cultura, secondo Squinzi,
«ha radici lontane e si è alimentata nei decenni della diffidenza per il successo, per l'individualità, per il profitto. È una cultura che combatte il rischio, la valutazione e la responsabilità, e che cresce in un liquido di coltura fatto di un falso egualitarismo che vuole schiacciare il Paese sulla mediocrità. Tutto ciò non si risolve per legge, ma con valori civili diversi e noi abbiamo il dovere di costruire un percorso di crescita sociale collettiva fondato su chi investe e rischia, sul premiare chi è responsabile e crea lavoro, sull'imparare a restituire i risultati di ciò che si promette».
Oh, e diciamolo... Bisogna valorizzare le diseguglianze,
anzi farne un esempio di virtù. Basta con quella pretesa novecentesca
di voler campare soltanto perché si è venuti al mondo... Se non sei
“competitivo”, crepa! E se non trovi lavoro, in effetti, per farti
crepare basta tagliarti gli ammortizzatori sociali, la sanità pubblica,
l'edilizia popolare (già fatto, da decenni...), l'istruzione pubblica
(ma non più gratuita, anzi..), le pensioni.
E qui non poteva non scattare, pena l'esser qualificato
un “gufo”, l'applauso al governo messo lì da Confindustria. «Le riforme
avviate e alcune misure di politica economica adottate, testimoniano
dell'impegno al cambiamento del Governo e, lasciatemi orgogliosamente
dire, sono testimonianza importante anche del ruolo di Confindustria a
favore delle imprese».
Mica ideologia, soldi e decreti contro il lavoro dipendente!
«Numeri e provvedimenti misurano la dimensione degli interventi avviati: 40 miliardi di soldi nostri che la pubblica amministrazione ha finalmente pagato, 5,6 miliardi di riduzione dell'Irap, 2,6 miliardi di abbattimento degli oneri sociali nel 2015, diminuzione del costo dell'energia, la nuova moratoria sui debiti bancari; nuovi incentivi agli investimenti privati, anche in innovazione; il decreto Poletti e il Jobs Act sul mercato del lavoro, la delega fiscale, l'alternanza scuola-lavoro, il credito d'imposta sulla ricerca e il patent box, l'impegno sull'internazionalizzazione».
Potrebbe bastare, no? No.
«Oggi al Governo non possiamo che chiedere di non smarrire la determinazione, perché la nostra società è ancora densa di rendite da demolire per lasciare spazio a equità, a competizione e mercato».
Non lasciatevi ingannare dalle aprole. “Equità”, se ricordate Monti e
Fornero, è un principio da sviluppare verso il basso, non verso livelli
migliori. Per esempio: esisteva un doppio mercato del lavoro, quello
dei “garantiti” che avevano in contratto a tempo indeterminato e la
protezione dell'art. 18, mentre i giovani e i vecchi precari non avevano
nessuna tutela. Per “equità” sono state tolte tutte a tutti! Ora ogni
lavoratore è spiabile e licenziabile in qualsiasi momento... Paradosso
verbale: ora c'è un altro “egualitarismo”, è l'assenza di diritti sul
lavoro.
Squinzi suggerisce anche la prima mossa, e come
argomentarla per non apparire troppo impopolari: la riforma
dell'assistenza e del welfare devono «orientare la spesa a chi ne ha
veramente bisogno». Sembra di sentire la telefonata al direttore del Corriere della Sera
perché scateni gli Stella e i Rizzo contro le “posizioni di rendita”.
Naturalmente sbattendo per ora in prima pagina, com'è giusto, ristoranti
di lusso che pagano un affitto inesistente al Comune di Roma. Ma la
conseguenza desiderata è già scritta: una stretta generalizzata su tutti
gli assegnatari di un alloggio pubblico, un elevamento drastico “ma
equo” degli affitti popolari per portarli a valori di mercato (tacendo
sulla rendita immobiliare e i palazzi tenuti sfitti in attesa che i
prezzi risalgano, in modo da “tenere su” - contemporaneamente – anche il
livello degli affitti a libero mercato). Sia che ci sia dentro un
ristorante alla moda o un pensionato ultraottantenne...
Basta con il '900 (e le sue rivoluzioni), avanti con l'800 e il suo darwinismo sociale!
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