sabato 2 giugno 2012

L’offensiva liberal liberista verso il punto di rottura di Carlo Formenti, Micromega

La controrivoluzione liberal liberista è iniziata trent’anni fa in Inghilterra, cioè nella culla dell’ideologia del laissez faire. La guerra di classe che la “lady di ferro”, Margaret Thatcher, scatenò negli anni ’80 contro i minatori, per costringere il proletariato inglese ad abbassare la testa di fronte alle “leggi” del mercato, rappresenta, del resto, una sorta di ritorno alle origini.
Come ci ha raccontato Polanyi ne “La grande trasformazione”, fra fine Ottocento e primo Novecento lo Stato era dovuto intervenire per fermare il genocidio provocato da tassi di sfruttamento (già ben descritti da Marx ed Engels) così spietati che, se non si fosse provveduto a mitigarli, avrebbero rischiato di uccidere la gallina dalle uova d’oro (cioè le classi lavoratrici).
Con la svolta voluta dalla Thatcher, proseguita dal “laburista” Tony Blair e rilanciata dal governo conservatore in carica, l’intera società inglese sembra ripiombata negli anni bui descritti dai romanzi di Dickens. Del tutto simile il percorso della società e dell’economia statunitensi: dopo le grandi riforme del welfare, imposte dalla Grande Crisi del ’29, la guerra di classe che Reagan ha condotto contro i controlli di volo (in contemporanea con quella della Thatcher contro i minatori) ha inaugurato un trentennio micidiale che ha visto democratici e repubblicani compiere scelte del tutto simili, consentendo a un’esigua minoranza di concentrare enormi ricchezze nelle proprie mani, mentre quasi tutti gli altri sprofondavano in una inedita (per gli Stati Uniti) condizione di povertà.
Oggi questo processo sta arrivando a un punto di rottura ben simbolizzato da due eventi recenti. In Inghilterra, a coronamento di una serie di provvedimenti forcaioli destinati a ridurre drasticamente le risorse necessarie a garantire la sopravvivenza di un esercito crescente di disoccupati, il ministro del lavoro Iain Duncan Smith ha annunciato che, a partire dal 2013, le politiche di workfare (leggi: come costringere i disoccupati a “guadagnarsi” i loro miserabili sussidi) faranno un ulteriore “salto di qualità”.
Non è bastato affidare ai privati la gestione del collocamento, non è bastato costringere chi percepisce l’indennità di disoccupazione a lavorare gratuitamente per le imprese (che ne hanno subito approfittato per ridurre i dipendenti retribuiti): chi gestisce il collocamento avrà anche il compito di appurare se i disoccupati “alzano il gomito” (comportamento che in gente depressa e umiliata, che vive ai margini della società, è ovviamente diffuso) e chi non accetterà di farsi “curare” perderà il sussidio. Un altro passo verso il terrore biopolitico.
Intanto sull’altra sponda dell’oceano (questa volta in Canada) il governo del Quebec ha assunto provvedimenti che definire repressivi è un eufemismo contro gli studenti che protestano per l’aumento della tasse universitarie. Per evitare che il movimento si estenda, saldandosi a quello di Occupy Wall Street, si è varata una legge ad hoc che proibisce assembramenti di più di cinquanta persone e subordina anche questi a rigide procedure di autorizzazione. Ma il risultato è stato invece quello di portare decine di migliaia di persone – non solo studenti – in piazza, così come è prevedibile che la follia repressiva del governo conservatore sta iniettando nelle masse inglesi una carica di frustrazione e rabbia tali che finirà per esplodere in nuovi riot.
Forse la guerra dei trent’anni che i capitalisti e governanti hanno scatenate contro le classi subordinate sta per finire, e forse sta per cominciare quella di chi ha finora subito passivamente contro gli oppressori. E forse noi “continentali”, che da qualche anno stiamo assaggiando gli effetti degli sforzi dei nostri dirigenti impegnati a imitare il modello anglosassone,  faremmo bene ad anticipare i tempi della controffensiva, senza aspettare di essere ridotti ai minimi termini.

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