Personalità di primo piano della cultura democratica italiana hanno sottoscritto un appello
, primo firmatario Umberto Eco, per un voto a favore del centrosinistra
alle ormai vicine elezioni. Il più eminente esponente della sinistra
italiana, Pietro Ingrao, si è espresso autonomamente nella stessa
direzione. Malgrado l’autorevolezza dei firmatari, se si trattasse solo
di una scelta di voto, non troverei ragione, oggi, per dibatterne
pubblicamente.
Lo stato drammatico della politica e del sistema
politico-istituzionale del paese, la crisi di prospettiva della
sinistra, testimoniate, da ultimo, anche da un’orribile campagna
elettorale, rende la scelta di voto legata alla storia personale di
ognuno e a propensioni individuali di non facile diffusione. Del resto
altre personalità della sinistra si accingono a votare per la lista
Ingroia e ne conosco direttamente altre ancora che voteranno per la
lista di Grillo.
Quelle che, invece, andrebbero discusse in uno spazio pubblico sono
le tesi che vengono affacciate nell’appello perché esse, secondo il
linguaggio della tradizione, sono di ordine strategico. Esse riguardano,
infatti, la relazione tra il governo del paese, la democrazia, il
rapporto tra le classi e tra queste e l’assetto istituzionale. Ed è
proprio il ragionamento su questo ordine di cose che nell’appello non
convince affatto. C’è, alla sua base, un’omissione non innocente e, io
credo, capace di falsarne l’intera argomentazione.
L’omissione riguarda l’Europa reale, la costituzione materiale che ne
sta definendo la natura sociale regressiva e il connesso ritorno
dell’élites in un ordinamento postdemocratico, sostanzialmente
oligarchico. Di fronte alla tremenda sfida che promana da questo
processo l’unico cenno che si trova nell’appello riguarda l’esigenza,
per il prossimo governo, di essere “rispettabile a livello europeo”, ma
per questo basta Monti. Il punto è che, nell’appello, si ragiona come se
si trattasse, con il voto di domenica, di scegliere il governo di uno
stato nazionale autonomo e sovrano e non piuttosto, com’è nella realtà,
di una tessera di quel mosaico che forma la governabilità di questa
Europa reale.
Ma trascurare di fare i conti con il vincolo esterno, ora che si è
fatto tanto stringente da introdurre nella Costituzione il dogma
liberista della parità di bilancio, significa ridurre ogni programma di
governo a parola scritta sulla sabbia. Mario Draghi, lucidamente, dal
punto di vista del processo economico e sociale che si sta imponendo, ha
prospettato l’avanzamento dell’integrazione europea e del suo governo
unitario sotto la guida della condizionabilità, cioè subordinandola
all’accettazione, da parte dei governi nazionali, del vincolo esterno al
fine di demolire sistematicamente lo stato sociale e il contratto
collettivo di lavoro, cioè quei capisaldi del compromesso democratico
del ciclo storico precedente, considerati oggi incompatibili con la
nuova Europa del capitalismo finanziario globale. La disoccupazione di
massa, la crisi della coesione sociale, l’esplodere delle diseguaglianze
che ci hanno investito sono le conseguenze sociali della crisi e della
risposta che l’Europa ha dato ad essa.
Come si fa ad attendersi “un colossale mutamento di rotta nei
confronti delle classi lavoratrici e dei ceti dirigenti” senza che venga
messo in discussione ciò che determina gli attuali rapporti sociali?
Però nessun governo in carica lo fa e nessun programma per un nuovo
governo se lo propone. Il centrosinistra in tutta Europa si colloca
all’interno di questo quadro, con una propria ispirazione, ma al suo
interno. L’ispirazione è una ennesima variante di quella
social-liberale: ferme le politiche di rigore, rinnovata l’adesione alla
filosofia della competitività, si affermano parimente l’esigenza di
integrarle con dei correttivi sociali e per lo sviluppo. Nel
centro-sinistra hanno abitato anche monocolori socialisti, non bisognosi
di quale che sia alleanza, autosufficienti.
L’esperienza di governo nella crisi ha devastato il Pasok. Oggi, in
un grande paese come la Francia, il governo di Hollande, dopo una bella
vittoria elettorale, sprofonda, secondo tutti i sondaggi, nel consenso
popolare. La resa del governo ai mercati nella vicenda della Mittal non è
apparsa affatto come un caso eccezionale. Del resto domenica
nell’editoriale di Le Monde si leggeva: “Dans les semaines qui viennent,
pour convaincre Bruxelles, le gouvernement va donc devoir présenter un
programme précis d’économies. Toutes seront douloureuses”. (“ Nelle
settimane che arrivano, per convincere Bruxelles, il governo deve
dunque presentare un programma preciso di economie. Tutte saranno
dolorose “). L’accettazione della parità di bilancio, del fiscal
compact, il compromesso sistemico con la guida tedesca del convoglio,
definisce la collocazione strategica del centro-sinistra in Europa. Su
quel versante, rien ne va plus. Il centro-sinistra italiano non è certo
l’eccezione. Del suo profilo programmatico si dovrebbe perciò discutere
piuttosto che dell’alleanza con Monti. Del resto è stata la sua
esposizione alle politiche di rigore che non ha consentito al Pd di
impedire la nascita del governo Monti, come avrebbe potuto, con il
ricorso alle elezioni.
Così come quella stessa cultura politica ha impedito di vedere il
carattere costituente dello stesso governo Monti nel concerto della
costruzione di questa Europa reale. Persino in una campagna elettorale
in cui se lo è trovato come competitore, Monti è stato criticato dal
centro-sinistra per delle sgrammaticature politiche, per certe sue idee
di relazioni tra i soggetti politici, per qualche spezzone di proposta,
ma mai è stato denunciato il suo impianto generale. Torna la questione
illustrata dall’Europa reale; quello è lo spartiacque per chi voglia
intraprendere la via delle riforme sociali. Semmai la specificità
italiana lo accentua, dunque lo rende ancor più insormontabile
politicamente, un aut aut. Da noi il rovesciamento del conflitto di
classe, di cui ha parlato Luciano Gallino, è del tutto squadernato.
Marchionne ne è la punta di lancia con la proposta di un modello
aziendale intrinsecamente autoritario.
Diversamente dalla Fiom, il centro-sinistra ha scelto di non vederne
il carattere più generale, di società. Come a livello macroeconomico,
per le politiche di bilancio, così a livello microeconomico, per le
politiche dell’impresa, non è stato messo in campo un pensiero critico,
né la ricerca di un’alternativa di società, né la ricerca della forza
per riaffermarla. Perché dal governo dovrebbe venire quel cambiamento
che neppure è stato prima prospettato dalle forze che lo dovrebbero
comporre? E come potrebbe esso realizzarsi nell’accettazione di quella
cornice europea che porta con sé già l’essenziale del quadro? Se poi si
volesse davvero insistere sul caso italiano non ci si potrebbe ormai più
sottrarre al suo specifico, cioè al collasso del suo sistema politico e
alla crescente delegittimazione della sua classe dirigente.
Basti pensare a quel che sta accadendo in queste settimane, alla
bufera che investe grandi aziende pubbliche, grandi banche e tanta parte
della finanza privata, cosicché la corruzione diventa un grande
problema politico. Ma questa classe dirigente non è anche tanta parte
della forza messa in campo in questi anni per perseguire le linee di
politica economica e i rapporti sociali affermatisi con la costruzione
dell’Europa reale, al contrario di quella di cui ci sarebbe stato
bisogno? Eppure non si vede all’orizzonte alcuna idea di rottura, di
costruzione di una nuova classe dirigente del paese in discontinuità con
l’attuale, sicché la questione del governo del paese se da un lato
risulta sussunto dentro l’Europa della Troika, dall’altro, nel paese,
risulta come un caciocavallo appeso, privo della nervatura sociale
necessaria per essere protagonista della sua storia futura.
L’autorevolezza di un appello al voto può allora favorire una qualche
propensione a compiersi, ma il suo contenuto politico non convince
affatto, se il tema è quello del cambiamento. Se no, perché il voto di
protesta sta diventando un’onda imponente che scavalca le sinistre per
depositarsi su altri lidi?
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