Incontriamo
Vladimiro Giacché il 2 febbraio a Pisa, dove è venuto a partecipare
all’Assemblea pubblica di Rivoluzione Civile che si è tenuta al CEP, in
quanto membro del direttivo dei Comunisti Italiani e candidato alla
Camera in Toscana. Di formazione filosofica (alla Scuola Normale) e
tradizione comunista (il secondo nome è Ilio), ha lavorato nel settore
finanziario pubblico e privato. Negli ultimi anni Vladimiro è emerso in
Italia come un penetrante commentatore della crisi, intrecciando la
critica dell’ideologia (La fabbrica del falso, DeriveApprodi, seconda ed. 2011) con quella delle politiche economiche (oltre all’attività giornalistica su Il Fatto Quotidiano, Pubblico e altrove,Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato,
Aliberti, seconda ed. 2013). Insomma, con il contributo che Vladimiro
fornisce all’elaborazione delle linee di proposte economiche della lista
di Rivoluzione Civile (di cui abbiamo già discusso, e torneremo a
discutere, in altri articoli), ci ricorda che nella società civile ci
sono anche i comunisti. E, infine ma non ultimo, è sempre garantita una chiacchierata piacevole.
Qual è la posizione di Rivoluzione Civile in merito alla
crisi del Monte dei Paschi di Siena, in relazione, in particolare, al
problema dell’infiltrazione delle banche da parte della politica, da
molti considerata la causa scatenante di questa crisi?
Noi
riteniamo che l’infiltrazione dei partiti in una economia, si suppone,
sana non sia l’origine del crack di MPS. Pensiamo invece che questa
affondi le sue radici nel periodo della massiccia privatizzazione del
sistema bancario italiano: all’inizio degli anni ’90 il 73% delle banche
italiane era controllato dallo stato, mentre alla fine del decennio
questa percentuale risultava esattamente dello 0%. Erano state
privatizzate tutte le banche commerciali (ad esclusione del caso
particolare del credito cooperativo, comunque non pubblico in senso
stretto), tutte le banche di credito a medio-lungo termine ed infine
l’unica banca di sviluppo che avevamo, ossia il Mediocredito Centrale.
Alcuni degli omologhi stranieri di questi istituti sono tuttora
saldamente in mano pubblica.
A partire da questo momento le banche iniziano a ragionare,
correttamente dal loro punto di vista, in un’ottica squisitamente
privatistica e di breve periodo, volta soprattutto, come si dice, alla
creazione di valore per gli azionisti. Inoltre tendono a seguire le mode
del sistema bancario internazionale, una delle quali è la corsa al
“gigantismo bancario” che si è registrata intorno alla metà del primo
decennio del nuovo secolo: tra il 2006 e il 2007 si fondono Banca Intesa
e il San Paolo di Torino, Capitalia e Unicredit, ed infine a Novembre
2007, quando già sono chiari i segni della crisi economica imminente, il
Monte dei Paschi acquista Antonveneta ad un prezzo assolutamente
irragionevole. La ragione di questa corsa è in tutti i casi la stessa:
conseguire “dimensione” in modo da poter acquistare quote di mercato, in
altre parole una rendita oligopolistica, nonché valorizzare il
capitale. In tutti e tre i casi menzionati queste operazioni non hanno
impedito la svalorizzazione del capitale.
Questo caso dimostra però un’altra cosa: privatizzazione non
significa fine dell’influenza della politica all’interno del sistema
bancario. Metafora di ciò è il nuovo presidente dell’ABI, dopo le
dimissioni di Mussari, è Antonio Patuelli, il quale partecipava alle
tribune politiche per il Partito Liberale prima di Carosello quando ero
ragazzo.
Per quanto riguarda le cose da fare, certamente i cosiddetti
Monti-bond, cioè l’acquisto di titoli di MPS da parte dello stato per
una somma di 3.9 miliardi di euro, sono un errore. Non perché lo stato
non debba intervenire, ma al contrario perché deve farlo entrando nel
capitale della banca, e non con un prestito che non gli garantisce alcun
controllo sulla gestione della banca stessa. E deve farlo per due
motivi: da un lato tutelare l’investimento che si fa in banca, ma
soprattutto per iniziare a recuperare il concetto che il credito è un
bene pubblico, concetto completamente dimenticato negli anni della
privatizzazione selvaggia, ma recentemente tornato di moda ad esempio
nel Regno Unito dove è stata creata una banca pubblica per il credito
alle piccole e medie imprese. Questo si inserisce in una visione più
ampia che noi vorremmo riaffermare anche con la creazione di un nuovo
istituto pubblico per il credito a medio-lungo termine, ed in generale
una azione volta ad un riequilibrio tra settore pubblico e privato: è
proprio lo squilibrio a favore di quest’ultimo una delle cause della
crisi. Continuare nella direzione di un dimagrimento del settore
pubblico, aprendo ancora più spazio agli operatori privati (il
cosiddetto “mercato”), significa curare la malattia col veleno che l’ha
generata.
Tu sei non solo un addetto ai lavori nel mondo della finanza,
ma anche uno studioso dei meccanismi ideologici. La questione Monte dei
Paschi è interpretata dalla grande maggioranza della stampa attraverso
due classiche dicotomie: da un lato quella economia reale buona contro
finanza cattiva, dall’altro mercato sano contro politica corrotta. In
entrambe le opzioni una entità malata corromperebbe la salute del libero
mercato. Come si esce a livello di discorso pubblico da queste letture
che escludono in principio una posizione come quella che ci hai appena
presentato?
Se ne viene fuori, a mio parere, con la prassi e con la verità. In
questo senso è necessario far notare che nelle condizioni attuali ad una
banca gestita in vista della massimizzazione del valore privato,
prestare i soldi non è conveniente. Non perché si facciano molti soldi
in altri ambiti, i rendimenti su tutti gli asset reali sono piuttosto
bassi, e lo sono anche quelli puramente finanziari, ma piuttosto perché
le sofferenze dell’economia europea si riverberano sulle banche in
termini di crediti inesigibili o di dubbia esigibilità. Quindi investire
molto nel credito risulta rischioso. In questo quadro è necessario
l’intervento dello stato, poiché non si può costringere un operatore di
un istituto privato quotato in borsa, che deve sottoporsi a quello che
Hans Tietmeyer chiamava il «plebiscito permanente dei mercati», ad agire
contro i suoi interessi. Un esempio apparentemente lontano da quello di
cui stiamo parlando ma in realtà pertinente è la Porsche, che qualche
anno fa si è delistata dal listino tedesco in quanto le logiche del
mercato finanziario (“la dittatura delle trimestrali”), dissero i suoi
dirigenti, impedivano loro di ragionare nel lungo termine. E’
a questo livello che dobbiamo agire: un riequilibrio molto generale del
peso del settore pubblico e di quello privato, completamente
sbilanciato negli ultimi decenni a favore di quest’ultimo.
Il tuo ultimo libro, Titanic Europa, riporta molte
dichiarazioni di tecnocrati europei giunti ad una posizione critica
verso le politiche di austerity. Sull’analisi però anche economisti “di
sinistra” hanno punti di vista differenti: nel tuo libro si sottolinea
come il crollo del potere d’acquisto nei paesi periferici dell’UE incida
negativamente sulle esportazioni della Germania, creando potenzialmente
una spaccatura nelle classi dirigenti tedesche rispetto ad una tale
gestione della crisi. Altri studiosi, come Luciano Gallino o Giorgio
Gattei, ritengono invece che un dumping salariale generalizzato possa
essere nei migliori interessi degli imprenditori tedeschi in quanto
produrrebbe un ulteriore abbassamento delle retribuzioni anche in
Germania. Come vedi queste differenti letture ed in generale la
situazione europea?
La Germania
ha già effettuato in questi anni un dumping salariale molto forte al suo
interno, anche se in Italia se ne parla poco perché chi scrive di
queste cose in genere conosce molto poco della situazione tedesca. La
Germania ha avuto dal 2000 al 2013 un aumento di produttività del 13,4%,
di cui poco più del 2% è stato trasferito ai salari lordi. Questa è una
politica che, in particolare se applicata in un’area a moneta unica,
risulta distruttiva per i partner: oggi si vuole applicare un rimedio
che è peggiore della malattia, esportando questa deflazione salariale ai
paesi periferici della UE. Due sono i difetti di questa politica: da un
lato si tratta di un modo ingiusto di affrontare la crisi, ma
soprattutto, in un’ottica di sistema, si tratta di provvedimenti
distruttivi. Le politiche di deflazione salariale in un’area economica
fortemente integrate risultano infatti efficaci in un solo caso: quando
vengono fatte in un solo paese. Generalizzandole la contrazione dei
consumi diventa tale che nessuno, come si vede, ci guadagna, neanche con
le esportazioni. E’ un dibattito non nuovo, ma sul quale già Keynes
offrì il suo contributo.
Ora, tutto questo apre uno spazio, seppur stretto: il problema
infatti è che una politica centrata sulla deflazione salariale non
risulta da una scelta contingente, ma è un tratto saliente dei trattati
europei. E’ un aspetto su cui ho spesso insistito: vi sono, nei trattati
europei, un certo numero di politiche su cui si decide a maggioranza, e
che quindi sono “comunitarizzate”, cioè uguali per tutti, mentre
restano alcuni ambiti su cui si decide all’unanimità, e che di
conseguenza rimangono a discrezione dei singoli stati. Questi due ambiti
riguardano le politiche fiscali e le politiche di protezione del
lavoro. Non a caso, poiché è evidente che se uno stato intende tassare
le imprese quanto è giusto tassarle, senza trasferire il peso di queste
imposte sulle persone fisiche, ci sarà sempre un paese come l’Irlanda ad
esempio, che tassa le imprese al 12,5%, permettendo così una via di
fuga e una concorrenza fiscale al ribasso.
Questa roba qua è radicata nei trattati, e neanche una maggiore
unione politica, vagheggiata da qualcuno molto speranzoso anche dalle
nostre parti, risulta di per sé un fattore di riequilibrio. Un esempio
di unione politica che non ha favorito una convergenza economica tra le
varie zone del paese è esattamente quello dell’unificazione della
Germania: questo, che sarà probabilmente l’argomento del mio prossimo
libro, è un caso interessante perché dimostra come l’unificazione
politica e i conseguenti trasferimenti non siano sufficienti a rimettere
in piedi un paese in ginocchio a causa della deindustrializzazione. I
passaggi di questa storia sono molto simili a quello che vediamo oggi in
Europa: unione economica come driver dell’intero processo, conseguente
apprezzamento della moneta annessa (il marco della DDR ebbe un
apprezzamento del 300%) con conseguente uscita dal mercato dei prodotti
denominati in quella valuta, e quindi disoccupazione di massa,
deindustrializzazione, privatizzazioni a tappe forzate (spesso condotte
in modo dubbio), ed infine emigrazione dalla parte povera verso la parte
ricca. Tutte queste cose stanno accadendo oggi. A questo punto il paese
“forte”, che ha imposto l’apprezzamento della valuta al paese debole,
esporta merci e servizi, ma permane, e anzi si accentua nel tempo, uno
squilibrio territoriale molto forte. Questo esempio mostra quindi come
l’unificazione politica e i trasferimenti dal paese ricco al paese
povero non siano sufficienti, a queste condizioni economiche e
valutarie, per riequilibrare le differenze. In tal senso una
accelerazione sull’unificazione politica europea risulterebbe una “fuga
in avanti” e probabilmente un salto nel buio.
Attraverso alcuni documenti più o meno clandestini è emersa
nel corso dell’ultima settimana una posizione più definita del PD sulla
questione Europa e austerity: la soluzione indicata da Fassina sarebbe,
da un lato, un lavoro politico sulla SPD tedesca per allontanarla dalla
sostanziale identità di vedute che ha avuto in questi mesi con il
governo della Merkel, dall’altro la richiesta della celebre “golden
rule”, cioè la possibilità di non includere nel bilancio dello stato gli
investimenti produttivi, in vista di provvedimenti di sviluppo da
sbloccare subito dopo le elezioni. Il tutto nel quadro di uno scambio,
in cui all’Europa si concederebbe la richiesta del controllore esterno
sui bilanci dello stato, mentre all’interno si assicurerebbero a
Confindustria ulteriori anni di moderazione salariale. C’è una
sopravvalutazione dell’efficacia del triangolo socialdemocratico? E la
golden rule da sola può essere sufficiente per invertire la tendenza
recessiva dell’economia italiana?
La verità è
che la SPD è appunto sulle posizioni della CDU, avendone coperto
l’operato in questi anni, ed essendo risultata più volte decisiva per
l’approvazione di provvedimenti, aggiungendovi solamente qualche
clausola non molto rilevante. Wolfgang Münchau, giornalista del
Financial Times da noi noto per alcune, ineccepibili, critiche a Monti, ha scritto in un suo pezzo che la SPD
non ha fatto reale opposizione ai provvedimenti della Merkel, e che
l’unico partito che ha votato materialmente contro queste misure è stato
la Linke. Da questo punto di vista trovo che il profilo negoziale
scelto dal PD non sia accettabile: è masochistico insistere sul
controllore europeo dei bilanci, ed è singolare la scelta di non
adottare un approccio negoziale più duro, così come ha fatto Monti con
l’appoggio degli stessi democratici, ad esempio sulla supposta unione
bancaria europea. Mi riferisco in particolare ad uno dei tasselli di
questa unione, cioè la supervisione da parte della BCE sulle banche
nazionali, che è saltata sostanzialmente per volontà tedesca e ridotta
solo alle banche che hanno asset superiori ai 30 miliardi di euro. Tutto
ciò a tutela delle loro banche medio-piccole, che hanno un sacco di
problemi di bilancio. E’ quindi curioso che non si riesca a negoziare
con i tedeschi su una base di parità: loro perseguono ferocemente i loro
interessi, noi non facciamo altrettanto con i nostri. In questo quadro
l’atteggiamento del PD è per certi versi più pericoloso di quello del
PDL, il quale, per motivi ovviamente demagogici, sta però dicendo che
non bisogna limitarsi a fare i compiti a casa assegnati dalla Merkel.
Loro stessi in realtà non hanno, ad esempio, messo il veto durante la
costruzione del fiscal compact, ma dire, come fa Bersani in questi
giorni, che se avessimo fatto tutti i compiti a suo tempo oggi non
avremmo nessun problema, significa non aver capito nulla della vicenda
della costruzione europea.
A proposito di “nostri interessi”: che ruolo gioca nella
crisi la ripresa delle guerre dell’occidente ad esempio verso l’Africa
(Libia, Mali)? Stiamo assistendo ad una nuova fase di puro saccheggio,
sebbene l’Italia abbia perso numerosi contratti nel caso libico, si
tratta di puro e semplice servilismo, oppure c’è un tentativo di far
fronte alla crisi attraverso quello che ai tempi di Reagan era definito
keynesismo militare?
La forte
proiezione, anche militare, di Europa e Stati Uniti nei confronti
dell’Africa si spiega secondo me principalmente nell’ottica di un
contenimento dell’avanzata cinese. Al di là degli interessi per le
risorse, che ci sono, c’è proprio una questione geopolitica in Africa:
la Cina ha infatti una forte influenza sul continente, anche per merito
di un approccio molto intelligente nei confronti di questi paesi nel
periodo in cui l’occidente voltava loro completamente le spalle.
Emblematico il caso dell’Angola, paese molto indebitato a cui neanche la
Banca Mondiale prestava più, completamente reinfrastrutturato dai
cinesi, ovviamente in cambio dell’accesso al petrolio.
Del resto c’è in parte anche in atto qualcosa come una nuova politica
di keynesismo militare (definizione peraltro impropria), che però negli
Stati Uniti fa i conti con un debito che è crescente: ossia, se si
tenta come ha fatto Obama di ridurre le spese militari si registra
immediatamente un arretramento dell’economia nel suo complesso, come
accaduto nell’ultimo trimestre, proprio a causa dei tagli in questo
settore. C’è una stasi reale su questo proprio a causa del debito, ma
d’altra parte non viene meno l’importanza strategica che questo settore
ha in quel paese.
Ultima questione, evasione fiscale, di cui si parla molto in campagna elettorale, e di cui hai già parlato.
Qual’è la differenza tra la posizione di Rivoluzione Civile e la, per
così dire, posizione unificata di tutti gli altri su questo? In altre
parole, c’è bisogno di una lotta senza quartiere a tutti i livelli come
più volte annunciato da Monti ma poi fatto solo in parte, oppure è
necessario approcciare la questione senza moralismi e nella direzione di
un riequilibrio generale della fiscalità italiana, affiancando ad un
ripristino di una reale progressività delle imposte un lotta
all’evasione che parta dalle grandi ricchezze?
Il tema
dell’evasione fiscale, ed in generale della criminalità economica, nel
nostro paese non è un tema giudiziario o morale, ma un ambito che
impatta immediatamente sul nostro futuro economico. Questa infatti
incide in primo luogo sulla sostenibilità del bilancio pubblico, che non
può continuare a sostenere un mancato gettito per 120 miliardi ogni
anno. In secondo luogo sull’equità, in quanto le mancate entrate sono
“coperte” da una eccessiva pressione fiscale su chi paga, cioè i
lavoratori dipendenti principalmente a reddito fisso ed i pensionati.
Infine c’è un problema di competitività, poiché se una parte delle
imprese del paese attua questa autoriduzione totale o quasi dei costi si
genera qualcosa come una legge di Gresham per le aziende, per cui
l’impresa cattiva scaccia quella buona. Tutto ciò è in atto: il paese è
poco sostenibile, diseguale, e poco competitivo con grandi squilibri al
suo interno.
La lotta all’evasione deve essere fatta, ma fatta bene, facendo cioè
in modo che coloro che hanno sempre pagato beneficino immediatamente dei
risultati conseguiti: qui emerge nuovamente la questione del fiscal
compact, non è infatti possibile pensare di recuperare evasione ed
elusione per destinarla al ripianamento del debito. Questa ricchezza
deve rientrare nell’economia. Dire questo non è sintomo di un
atteggiamento particolarmente poliziesco, la prima patrimoniale in
Italia è proprio la lotta all’evasione fiscale. La stessa patrimoniale
propriamente detta dovrebbe essere calibrata, e ci stiamo lavorando,
rispetto alla coerenza tra beni e redditi.
Ragionando in questa maniera ritengo che potrebbe essere risolta una
parte significativa dei problemi fiscali di questo paese, che ruotano
tutti intorno a questa questione: la stessa alta pressione fiscale è
legata al fatto che molti pagano per altri.
Ma è possibile andare effettivamente a prendere le grandi
ricchezze, le quali hanno certamente più di altre la possibilità di
movimenti elusivi? La vulgata vuole infatti che queste ultime siano in
parte non identificabili, con la stretta che conseguentemente cade verso
il basso.
Gli
strumenti ci sono attraverso ad esempio gli incroci tra vari archivi (in
particolare tra quelli delle banche e quelli dell’amministrazione
finanziaria). Il problema è stato un altro: con Berlusconi, ma anche con
Monti, non è mai stato dato sufficiente empowerment a chi deve lavorare
sulla questione, non c’è mai stata una esplicita copertura politica
della lotta all’evasione, mandando messaggi anche allusivi quando non
complici sul ritiro del redditometro. Ripristinare un diverso concetto di Stato significa anche rimettere le cose in chiaro su questo fronte.
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