venerdì 22 febbraio 2013

La laurea è mia e me la invento io di Alessandro Robecchi, Micromega

Avanti, dottò… Un po’ indietro, dottò… La mancia, dottò… grazie, dottò… Non c’è bisogno che ritorni Carosello per ricordare agli italiani quel delicato profumo di anni Sessanta in cui chi aveva la cravatta aveva anche un titolo, una laurea, un “pezzo di carta”, come lo chiamavano i nostri nonni. E però il mondo cambia. Un esempio? Eccolo: è sempre stato un errore tipico dei comunisti quello di credere alla propria propaganda. E ora, invece, ecco: anche fior di liberisti ci cascano con tutte le scarpe. E così abbiamo passato anni e anni a sentirci dire in tutte le lingue che ci vuole la laurea, senza laurea non sei nessuno. E poi anche: la laurea non basta, ci vuole il master. Il master? Sì, ma all’estero! Eccetera eccetera. Una specie di rilancio continuo nel poker di una sostanza melmosa e fragile chiamata “merito”.
E così tutti, presi dal sogno dell’ascensore sociale – peraltro guasto da tempo, usate le scale! – esibiscono la loro laurea e il loro master come una medaglietta. E quando non ce l’hanno se lo inventano. Elenco lungo e variegato. C’è il proto-finanziere Alessandro Proto, per dire, che si fregia del titolo di bocconiano costringendo la Bocconi a smentire (mai visto da queste parti). Un tipo schietto che amava allargarsi (anche se attualmente risulta ristretto, come dicono i caramba).
Poi c’era il notevolissimo Belsito, tesoriere della Lega di Bossi (parlandone da vivo) che millantava anche lui lauree mai conseguite, e non era certo il peggiore dei suoi barbatrucchi. Il giovane Bossi Trota, invece, che la laurea se la comprava all’estero, dagli odiati albanesi, in un’Università dal nome evocativo di buone gelaterie sul lungomare (Kristal, ma tu dimmi!). Dilettanti.
C’è chi fa meglio e di più, tipo Giuseppe Biesuz, candidato della regione Lombardia, cioè di Formigoni, alla guida delle Ferrovie Nord Milano, anche lui millantatore di laurea, che ha pure l’ardire di dirlo al magistrato: titolo di studio? Laurea. Ahi, ahi, ahi: puoi dirlo alla zia e anche alla moglie, come faceva il Bossi Umberto giovinetto uscendo di casa la mattina con la valigetta da medico per andare al bar. Ma al magistrato è meglio di no, trattasi di falso, che non essendo “in bilancio” è un reato tutt’ora esistente.
E va bene, dai, restiamo umani. La millantata laurea, il titolo di studio made in Albania, il fregio accademico pazientemente realizzato coi trasferelli, sono vezzi che inducono tenerezza, scorciatoie proletarie per aprirsi la porta di affarucci molto borghesi. Ma poi. Ma poi mi ci casca anche un Giannino, uno così liberista e meritocratico che strabuzza gli occhi e li fa roteare selvaggio al solo sentire la parola “Stato”.
Tu quoque, mannaggia, a inventarti un master esotico in quel di Chicago, città di studi e di Blues Brothers. Peraltro sbugiardato dal suo economista di riferimento, quello Zingales che tanto vorrebbe una rivoluzione liberista (un’altra? Eccheccazzo!). Lui, che nell’università del presunto master insegna, e che fa scoppiare il petardo a cinque giorni dalle elezioni. Segue marcia indietro, scuse, timidi balbettii del Giannino Oscar, tanto diversi per intensità e volume di quando grida “ladro!” allo Stato e “merito!” a tutti gli altri.
Ma perché, alla fine, tanto astio? Perché tanta acredine su un vezzo così deliziosamente italiano? Perché in Germania i ministri si dimettono per aver copiato la tesi? Andiamo, e l’italianità dove la mettiamo? In fondo, per dirti, “venga avanti, dottò” il posteggiatore mica ti chiede una pergamena, no?

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