1-
Mentre scriviamo queste righe sta già imperversando la bufera
elettorale e, in particolare, prende quota la polemica sul cosiddetto
“voto utile”. Sono i rappresentanti del Partito Democratico a muovere
alla loro sinistra, alla lista Rivoluzione civile, l’accusa fatale: voi
fate vincere le destre! Un affondo che lascia perlomeno interdetti, in
quanto proviene da un partito che ha concesso ponti d’oro al
berlusconismo, smobilitando l’intero impianto concettuale di quella che è
stata la sinistra e, dagli scranni del governo, non riuscendo neppure a
varare uno straccio di legge sul conflitto d’interessi né ad abrogare
le leggi ad personam. Nel contesto di una gravissima crisi di
sistema e in un Paese condotto al disastro sociale, la più consistente
forza politica del centro-sinistra non può davvero chiamarsi fuori né, a
maggior ragione, dare lezioni a chicchessia. Non può perché, oltre
tutto, diabolicamente persevera nell’errore: porta la responsabilità di
aver supportato un governo cinicamente antipopolare (non traggano in
inganno le lacrime di coccodrillo di qualche ministro), dice oggi di
voler “correggere” gli esiti socialmente nefasti di tale esecutivo, ma
poi ribadisce la volontà di convergere dopo il verdetto elettorale verso
il medesimo “centro” montiano. C’è più di qualcosa che non torna, in
questo ambiguo impasto di generiche intenzioni di cambiamento e concrete
scelte moderate: in tal senso, se l’obiettivo è quello di cambiare
finalmente strada, il vero voto “inutile” sembra essere proprio quello
dato al Pd.
2- In politica le parole contano, ma
contano ancora di più i fatti. D’altra parte, i concreti comportamenti
sono l’espressione di orientamenti di fondo. Ora, la parabola inaugurata
alla Bolognina, quando fu consegnato alla “critica roditrice dei topi”
il Partito Comunista Italiano, ha prodotto prima il Pds (Partito
Democratico della Sinistra), poi i Ds (Democratici di Sinistra) e infine
il Pd (Partito Democratico): nell’ultima dizione, è definitivamente
caduta la parola “sinistra”. Circostanza non casuale, posto che i nomi
siano il rispecchiamento delle cose. E, in effetti, le scelte operate
dal Pd incarnano un tale progressivo slittamento semantico. Né si può
ragionare come se lo sfasamento ideologico a ciò connesso non abbia
prodotto momenti di netta discontinuità e punti di non ritorno. Un
drammatico esempio di ciò è la messa in Costituzione del pareggio di
bilancio: non un evento qualsiasi, ma un vero e proprio salto di
qualità, una di quelle scelte che alludono a un secco cambio di
paradigma (non a caso è in questione l’ispirazione della nostra carta
fondamentale), un grumo politico-ideologico difficilmente trattabile nel
solvente delle mediazioni. Non si tratta di astruserie teoriche, ma di
orientamenti generali di politica economica che hanno pesanti ricadute
sulla vita della gente: e che, dietro il velo della tecnica neutrale,
celano una presa di posizione, un’opzione di parte a vantaggio di
determinati interessi e a svantaggio di altri. Per noi comunisti, una
scelta di classe. La tradizione dei comunisti italiani è lì a ricordarci
che la politica deve essere soprattutto ricerca di una via
percorribile, più che la sterile declamazione di frasi scarlatte: ciò
detto, non vi è dubbio che scelte come quella appena richiamata pongano a
tale ricerca vincoli pesanti e inaggirabili.
3- Al cuore della prossima scadenza
elettorale sta la risposta che ciascuna forza politica è in grado di
dare alla domanda: come si esce dalla crisi economica e sociale? In
realtà l’interrogativo dovrebbe esser posto in termini più strutturali:
come si esce da una crisi sistemica, che è ad un tempo istituzionale,
sociale, economica, ambientale? Si tratta di aspetti di una medesima
crisi capitalistica. Ma è evidente che la forma semplificata serve a
porre in evidenza l’assoluta urgenza del dato materiale, la necessità di
invertire la tendenza all’impoverimento e al degrado dei livelli di
sostenibilità del vivere comune. Beninteso, ciò vale per la grande
maggioranza della popolazione, non per quell’esigua percentuale di
ricchi per i quali la crisi è occasione di ulteriore ricchezza. Lo
specifica una recente indagine del Bloomberg Billionaires Index, secondo
cui i cento più facoltosi del pianeta, nel 2012, hanno aumentato il
loro reddito di 241 miliardi di dollari. Lo conferma per l’Italia il
rapporto del Censis, nel quale si legge che la quota di famiglie con una
ricchezza netta superiore a 500 mila euro è raddoppiata, mentre per i
gradini inferiori della scala sociale (dal ceto medio in giù) la
ricchezza è drasticamente diminuita. Così, l’acuirsi dell’ineguaglianza e
l’inarrestabile peggioramento dei livelli di vita del grosso della
popolazione rendono quanto mai dirimente la scelta tra strade
alternative.
4- Non è quindi sorprendente che in
questi mesi gli economisti “di sinistra”, cioè sensibili ad un’opzione
antiliberista o più compiutamente anticapitalistica, abbiano avuto
parecchio lavoro da svolgere: il loro specifico contributo è stato
essenziale, arrivando a costituire una vera e propria fucina di
controinformazione. Marxisti e keynesiani si sono trovati dalla stessa
parte della barricata, uniti da un comune e prioritario obiettivo:
colpire al cuore le cosiddette “politiche di austerità”, denunciando
sulla scorta di incontrovertibili riscontri empirici la loro iniquità e
il loro fallimento, ma anche contestandone in radice i presupposti
teorici e l’impianto generale da cui muovono. Il quadro analitico e
programmatico prevalentemente offerto dalle argomentazioni di questi
nostri compagni di strada è in senso proprio “riformistico”: si tratta
cioè di indicare soluzioni che guadagnino alle classi subalterne
posizioni migliori quanto a vita materiale e potere decisionale. In
breve, migliori “rapporti di forza”. Pur lasciando ai termini il loro
contesto storicamente determinato, non andremmo lontani dal vero se
dicessimo che in fondo viene così prospettata un’aggiornata propensione
“socialdemocratica”. Ed è evidente che, essendo nel Pd tali propensioni
assenti o – nel migliore dei casi – compresse e inconseguenti, è
principalmente proprio la lista di Rivoluzione civile ad esserne
oggettivamente la destinataria privilegiata.
5- Proviamo rapidamente a rivedere
alcune emblematiche questioni. L’affermazione “siamo contro il governo
Monti” (Rivoluzione civile) e l’altra “il governo Monti non è più
sufficiente, ma è stato necessario” (Pd) sono espressione di due
orientamenti diversi e incompatibili: segnatamente, la seconda è
sbagliata sia in linea di principio (vuol separare ciò che non è
separabile, quasi vi fosse nel montismo una parte buona, necessaria ed
una cattiva o insufficiente, comunque da superare), sia sul piano
fattuale (in quanto impraticabile, come se si potesse aggiungere la
crescita al rigore montiano e ai diktat della signora Merkel, tenendo
insieme ciò che insieme non va). Alla base di tali contorsioni vi è
l’incapacità da parte del Partito Democratico di fare radicalmente i
conti con l’impostazione neoliberista. In fondo vale ancora per questo
partito l’attribuzione di “liberismo temperato”: un ossimoro, che
denomina la disastrosa incompatibilità tra le politiche (europee e
italiane) di questi anni e gli intenti di giustizia sociale – o almeno
di sviluppo socialmente equilibrato – come la recente esperienza ha
abbondantemente dimostrato. Monti (in linea con l’Unione europea) è
artefice autorevole di tali politiche: da qui deriva la considerazione
di cui gode negli ambienti che contano del Vecchio Continente (e più in
generale internazionali). Ad ispirare il suddetto orientamento – che non
è smembrabile ma è un tutto coerente – è l’idea che il libero
dispiegarsi delle forze di mercato possa alla lunga assicurare per tutti
i soggetti e i fattori implicati nel gioco economico la migliore
allocazione, l’ottimo in termini di efficienza (secondo la terminologia
di Vilfredo Pareto). Il tecnocrate o, se si vuole, il tecnico è il
sacerdote di tale rito: alla politica non resta che assecondare quello
che viene presentato come l’unico, neutrale (in quanto scientifico)
cammino. Si può ben comprendere – come sanno italiani e greci – che, da
questo punto di vista, elezioni e referendum possano essere considerati
degli impacci ridondanti. Poco importa se in realtà il conto viene
pagato sempre dai soliti noti: dalle classi popolari.
6- Ma, tant’è, i dati della crisi hanno la testa dura. E producono crepe persino nel fortino dell’establishment.
Così accade che il capo economista del Fondo Monetario Internazionale
Olivier Blanchard riconosca in un documento reso pubblico agli inizi di
gennaio che “le previsioni del fondo hanno significativamente
sottostimato l’aumento della disoccupazione e il declino della domanda
interna associati al consolidamento fiscale”; che dunque le previsioni
concernenti la Grecia e le altre economie europee risultano assai
addolcite rispetto agli sviluppi reali, poiché non è stato tenuto nel
dovuto conto quanto l’austerità praticata dai governi mini la crescita
economica. Tecnicamente, ad esser preso di mira è l’uso improprio dei
cosiddetti moltiplicatori fiscali, con i quali si misura l’impatto sulla
crescita di un Paese dei tagli alla spesa pubblica e degli incrementi
della tassazione: quanto più piccolo è l’effetto moltiplicatore, tanto
minori e in breve tempo saranno riassorbibili i danni prodotti dal
taglio di spesa e dall’aumento del carico fiscale. Il “grave errore” –
che, secondo gli addetti dell’Fmi, è stato indotto dalle pressioni dei
partners europei, in particolare tedeschi – è stato quello di non
considerare che l’effetto dei moltiplicatori non è uniforme, varia nel
tempo e a seconda delle condizioni generali delle economie considerate:
se la fase economica è ascendente e il sistema bancario solido, i
moltiplicatori saranno deboli e gli effetti negativi a breve contenuti;
ma in tempi di crisi, l’effetto moltiplicatore aumenta (e, in luogo del
rigore, diviene essenziale un ruolo pubblico che sia generatore di
domanda interna). Nel 2010, in occasione del primo e tardivo
finanziamento del debito della Grecia, si iniziò a stringere il cappio
attorno all’economia e al popolo di quel Paese, promettendo che gli
inumani sacrifici allora imposti sarebbero stati presto ripagati dalla
ripresa dell’economia. Due anni dopo, grazie a quegli “aiuti”, la
disoccupazione è passata dal 10 al 25% e il salario reale è diminuito
del 21%. La popolazione è alla fame ma, nel contempo, il rapporto tra
debito pubblico e prodotto interno lordo non solo non è diminuito ma al
contrario si è ulteriormente impennato e viaggia ormai attorno al
180/190%.
7- Come si vede, pur mantenendo il
ragionamento all’interno delle compatibilità di sistema, si può tuttavia
esser colti da un sussulto di lucidità e, quanto meno, mostrare di
voler prendere atto dei dati di realtà. Non è così per l’Europa: dove
Mario Draghi prova ad attenuare il rigore della signora Merkel, senza
tuttavia metterne in questione la sostanza e le concrete applicazioni.
Nè è così per Monti. Il quale imperterrito, nella sua Agenda e nel corso
delle recenti apparizioni televisive, insiste nel difendere il suo
operato e nel confermare la necessità di ulteriori tagli di spesa
pubblica (lui li chiama “riforme”): tali misure, ritenute inevitabili,
sono dettate dal rispetto degli accordi europei (segnatamente, il
pareggio di bilancio e il patto fiscale). In verità, su questo – che è
il punto dirimente – la Carta d’intenti di Bersani non è da meno: There is no alternative.
Qualcuno poi, in separata sede, assicura che il rigore imposto da tali
patti possa essere attenuato dal punto di vista quantitativo (del resto,
si dice, analoghi aggiramenti sono già avvenuti in passato a vantaggio
dei più importanti Paesi dell’Unione). Magra controindicazione: ciò che
conta infatti, al di là di futuri ipotetici aggiustamenti numerici, è la
direzione di marcia, l’orientamento complessivo che tali patti si
incaricano di concretizzare. Un orientamento decisamente antipopolare
che, con le politiche di austerità e le “condizionalità” imposte ad
eventuali aiuti, conferma “lacrime e sangue” per i più. Come detto, la
tradizione keynesiana ha argomenti utili da contrapporre a tali
politiche. Poco importa che Keynes li abbia concepiti non per superare
ma per “migliorare il capitalismo”, per restituirlo alla sua vocazione
produttiva di ricchezza (ancorchè ladra di plusvalore). Ciò che conta è
che, con l’opposizione alle odiose misure antisociali – con la
riproposizione della centralità dell’intervento pubblico, dell’obiettivo
della piena occupazione, del salario come variabile indipendente, di un
nuovo modo di produrre – si riaccenda il conflitto sociale e, con esso,
la lotta per un’altra Europa e un’alternativa di società.
8- Ma da dove vengono l’imperativo
dell’austerità e questa ossessione per il taglio della spesa pubblica?
Intanto, onde evitare truffaldine astrazioni, è bene disaggregare i
dati, specificando che i tagli hanno riguardato scuola, ospedali,
redditi da lavoro, non certo le rendite di posizione e i trasferimenti a
pioggia per le imprese (così come è vero che la pressione fiscale ha
colpito soprattutto il lavoro dipendente). Ma, in generale, i suddetti
dogmi vengono dall’idea, posta al cuore dell’ispirazione economica
neoclassica, che col risparmio si tutelino le casse dello stato. Non è
così, ci ricordano i nostri economisti. E’ anzi vero il contrario: meno
lo Stato spende, più si indebita. Il paradosso è solo apparente: è
sufficiente abbandonare la fallace analogia con il bilancio privato di
una famiglia, con i risparmi di un capofamiglia giustamente
parsimonioso, per capire meglio di che si tratta. Soprattutto in tempi
di crisi e di sfiducia imprenditoriale, lo Stato deve stimolare
l’economia, fornendo con l’acquisto di beni e servizi occasioni di
investimento. Tagliare scriteriatamente la spesa pubblica riduce i
mercati di sbocco interni, penalizzando quindi i profitti, le occasioni
di investimento, la crescita. Né ciò serve a ridurre il fatidico
rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (Pil): tagliando
la spesa, diminuisce la domanda e l’occupazione; quindi cala la
ricchezza prodotta (il Pil) e, anziché ridursi, aumenta il valore del
suddetto rapporto. Da questo punto di vista, non è affatto dirimente che
il saldo del bilancio pubblico sia tassativamente in pareggio: casomai è
importante la composizione del bilancio, la scelta degli obiettivi
fissati nei capitoli di spesa, se con essi si creino o si dissipino
risorse. (E’ incredibile che il Pd, votando il pareggio di bilancio,
dopo aver cestinato Marx, getti alle ortiche anche Keynes…). Quel che
conta è insomma distinguere le spese “buone” da quelle “cattive”,
selezionarle in base a quanta produzione rispettosa dell’ambiente,
quanta buona occupazione, quanto reddito esse riescono a muovere. In
tempo di crisi, l’inflazione è l’ultimo dei problemi; ed è bene che il
bilancio statale sia in disavanzo, così da incentivare effetti
espansivi. Esattamente l’opposto di quello che sta facendo l’Europa, e
Monti con lei. Risultato: l’Eurozona è ufficialmente in recessione, le
previsioni per il 2013 sono assai fosche e più di uno scricchiolio ne
mette in pericolo la stessa tenuta politico-istituzionale. Quanto
all’Italia di Monti, in un anno di governo, a colpi di manovre fiscali e
leggi di stabilità, il debito pubblico è aumentato in cifra assoluta e
in rapporto al Pil, la produzione e gli ordinativi industriali sono
crollati, la disoccupazione è aumentata di 750 mila unità (+40%). In
definitiva, l’evidenza empirica sta condannando senza attenuanti i dogmi
ideologici del neoliberismo. Davanti a un simile fallimento, i timidi
distinguo di Bersani servono a poco.
9- E’ comprensibile che la situazione
sin qui descritta induca, sull’onda dell’emergenza, ad invocare
interventi urgenti quanto drastici. Si tratta però di capire bene dove e
come intervenire. Soprattutto, occorre contrastare le forzature
strumentali costruite sull’emergenza: sia sul piano degli assetti
democratici (com’è noto, gli “stati d’eccezione” conducono
pericolosamente alla sospensione della democrazia), sia sul piano della
spinta ideologica a promuovere la paura. Un esempio emblematico di
questa interessata drammatizzazione è costituito dall’allarme sul debito
pubblico inteso come male assoluto. A dire il vero, sul piano
analitico, in pochi giungono ormai ad affermare che il debito pubblico
sia la causa della crisi. Basta snocciolare i dati ufficiali
sull’ammontare degli aiuti pubblici forniti in questi ultimi quattro
anni agli istituti bancari per rendere immediatamente perspicua la
verità: il debito pubblico non è la causa ma l’effetto di una crisi
esplosa dentro il sistema finanziario occidentale (a partire dagli Usa) e
da tempo alimentatasi nel cuore della cosiddetta economia reale. Certo
si tratta di verità di cui è meglio parlare il meno possibile, così da
far rimanere sul banco degli imputati l’effetto (appunto, il debito)
invece che la causa. Se solo si volesse andare al fondo degli attuali
squilibri (non dico per superare il capitalismo, cosa che comunque
sarebbe opportuna, ma quanto meno per attenuarne le contraddizioni),
bisognerebbe spostare lo sguardo dal dito alla luna: dai ricorrenti
terremoti economico-finanziari e dal conseguente incremento dei debiti
alle scelte consapevoli che hanno assecondato il precipitare di tali
dissesti. Se, ad esempio, si prende in esame un grafico che mostri il
succedersi dei punti di crisi nel secolo scorso (ad esempio quello
contenuto in Alan M. Taylor, The Great Leveraging), si vedrà che
c’è un solo arco di tempo storico, quello tra il 1945 e il 1970, in cui
la linea è del tutto piatta, cioè in cui nessuna delle cosiddette
“economie avanzate” ha vissuto una crisi finanziaria. E’ il periodo
post-seconda guerra mondiale, in cui l’economia planetaria è stata
regolata dagli accordi di Bretton Woods: grazie al controllo e alla
limitazione dei movimenti di capitale che quegli accordi sancivano, le
risorse finanziarie permanevano all’interno di ciascuno Stato,
depositate nelle banche e reimpiegate nell’acquisto di titoli pubblici.
Lo Stato, attraverso la sua Banca centrale, controllava il tasso di
sconto e, conseguentemente, poteva acquisire risorse indebitandosi a
interessi potabili e, nello stesso tempo, manteneva bassi i rendimenti
del capitale monetario dei rentiers. Il debito pubblico era sotto
controllo precisamente in virtù di questa “signoria pubblica sul
denaro”. Come dichiarò Harry Dexter White, firmatario americano degli
accordi (la citazione è di Luigi Cavallaro): si tratta di vincoli
imposti ai “proprietari di capitali liquidi”, di una “restrizione ai
diritti di proprietà di quel 5 o 10 per cento di persone che hanno
abbastanza ricchezza per investirne una parte all’estero”. Con la fine
di Bretton Woods (1971) e il ritorno a “meno Stato, più mercato”, sono
ritornate le crisi: fino all’ultima più devastante, quella del 2008 in
cui siamo ancora immersi. Occorrerebbe tornare all’ordine di grandezza
delle misure appena descritte, per uscire oggi dal grave impasse e evitare di consumare lentamente diritti e qualità della vita della maggioranza delle popolazioni.
10- Purtroppo, l’impostazione
neoliberista dell’Unione Europea è agli antipodi rispetto a tale
esigenza (che è, ad un tempo, di giustizia sociale, ma anche in sintonia
con l’applicazione di strumenti efficaci e non fallimentari) e continua
a partorire politiche territorialmente e socialmente sperequate. L’Ue,
per un verso, mostra di voler tutelare interessi e privilegi dei Paesi
più forti (Germania su tutti), a svantaggio di quelli periferici, così
che quella che doveva essere una comunità sempre più integrata sta
viaggiando in direzione opposta: di fatto, le economie europee stanno
sempre di più divergendo. Contemporaneamente, essa porta tutta l’acqua
al mulino del capitale finanziario facendo pagare ai più il conto della
crisi. Così, tra il 2008 e il 2011, la Commissione europea ha destinato
soldi pubblici a favore delle banche private per 4.500 miliardi di euro,
cui vanno aggiunti nel 2012 interventi come i 45 miliardi in cinque
anni per salvare le banche spagnole i 3,9 miliardi per ricapitalizzare
l’italiano Monte dei Paschi di Siena. Nel frattempo, secondo i dati
Eurostat, la disoccupazione a ottobre 2012 ha raggiunto nella zona euro
la percentuale record dell’ 11,7% (10,7% in tutti e 27 i Paesi Ue), per
un totale di 18,7 milioni di disoccupati (26 milioni nell’Ue a 27). Ma
l’orchestra europea continua a suonare sempre la stessa musica: ingenti
risorse pubbliche al capitale finanziario, austerità e tagli per i
popoli. E’ la disparità di trattamento riservata dalla Bce di Mario
Draghi alle popolazioni dei singoli Stati (i quali, se saranno costretti
ad attingere al nuovo Fondo “salvastati”, dovranno garantire il
rispetto di un Memorandum capestro, che aggraverà ulteriormente la
sofferenza sociale) e, di contro, ai principali istituti bancari (ai
quali, com’è noto, sono stati graziosamente concessi 1000 miliardi di
euro all’1% di interesse, reinvestiti poi in titoli pubblici a interessi
triplicati o quadruplicati). Neanche un soldo all’economia reale. E
oggi l’Europa è ufficialmente in “recessione tecnica”, con un
arretramento del Pil su base annua dello 0,6%. Lo diciamo da convinti
assertori del progetto europeo: in queste condizioni, reclamare
genericamente “più Europa” non ha molto senso e anzi è quanto mai
pericoloso. Occorre invece che si cominci a battere i pugni sui tavoli
di Bruxelles e che si cominci a disubbidire a questa Europa,
chiedendo risolutamente di rinegoziare quel che non va . Il fatto che
nel programma di Rivoluzione civile figuri una netta opposizione al Fiscal compact è un giusto segnale di dignità.
Le questioni anzidette sono al centro
della prossima scadenza elettorale. Il valore di un voto e la sua
utilità dipendono da come ad esse si risponde.
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