sabato 2 febbraio 2013

Un utile promemoria di Bruno Steri


OLYMPUS DIGITAL CAMERA1- Mentre scriviamo queste righe sta già imperversando la bufera elettorale e, in particolare, prende quota la polemica sul cosiddetto “voto utile”. Sono i rappresentanti del Partito Democratico a muovere alla loro sinistra, alla lista Rivoluzione civile, l’accusa fatale: voi fate vincere le destre! Un affondo che lascia perlomeno interdetti, in quanto proviene da un partito che ha concesso ponti d’oro al berlusconismo, smobilitando l’intero impianto concettuale di quella che è stata la sinistra e, dagli scranni del governo, non riuscendo neppure a varare uno straccio di legge sul conflitto d’interessi né ad abrogare le leggi ad personam. Nel contesto di una gravissima crisi di sistema e in un Paese condotto al disastro sociale, la più consistente forza politica del centro-sinistra non può davvero chiamarsi fuori né, a maggior ragione, dare lezioni a chicchessia. Non può perché, oltre tutto, diabolicamente persevera nell’errore: porta la responsabilità di aver supportato un governo cinicamente antipopolare (non traggano in inganno le lacrime di coccodrillo di qualche ministro), dice oggi di voler “correggere” gli esiti socialmente nefasti di tale esecutivo, ma poi ribadisce la volontà di convergere dopo il verdetto elettorale verso il medesimo “centro” montiano. C’è più di qualcosa che non torna, in questo ambiguo impasto di generiche intenzioni di cambiamento e concrete scelte moderate: in tal senso, se l’obiettivo è quello di cambiare finalmente strada, il vero voto “inutile” sembra essere proprio quello dato al Pd.
2- In politica le parole contano, ma contano ancora di più i fatti. D’altra parte, i concreti comportamenti sono l’espressione di orientamenti di fondo. Ora, la parabola inaugurata alla Bolognina, quando fu consegnato alla “critica roditrice dei topi” il Partito Comunista Italiano, ha prodotto prima il Pds (Partito Democratico della Sinistra), poi i Ds (Democratici di Sinistra) e infine il Pd (Partito Democratico): nell’ultima dizione, è definitivamente caduta la parola “sinistra”. Circostanza non casuale, posto che i nomi siano il rispecchiamento delle cose. E, in effetti, le scelte operate dal Pd incarnano un tale progressivo slittamento semantico. Né si può ragionare come se lo sfasamento ideologico a ciò connesso non abbia prodotto momenti di netta discontinuità e punti di non ritorno. Un drammatico esempio di ciò è la messa in Costituzione del pareggio di bilancio: non un evento qualsiasi, ma un vero e proprio salto di qualità, una di quelle scelte che alludono a un secco cambio di paradigma (non a caso è in questione l’ispirazione della nostra carta fondamentale), un grumo politico-ideologico difficilmente trattabile nel solvente delle mediazioni. Non si tratta di astruserie teoriche, ma di orientamenti generali di politica economica che hanno pesanti ricadute sulla vita della gente: e che, dietro il velo della tecnica neutrale, celano una presa di posizione, un’opzione di parte a vantaggio di determinati interessi e a svantaggio di altri. Per noi comunisti, una scelta di classe. La tradizione dei comunisti italiani è lì a ricordarci che la politica deve essere soprattutto ricerca di una via percorribile, più che la sterile declamazione di frasi scarlatte: ciò detto, non vi è dubbio che scelte come quella appena richiamata pongano a tale ricerca vincoli pesanti e inaggirabili.
3- Al cuore della prossima scadenza elettorale sta la risposta che ciascuna forza politica è in grado di dare alla domanda: come si esce dalla crisi economica e sociale? In realtà l’interrogativo dovrebbe esser posto in termini più strutturali: come si esce da una crisi sistemica, che è ad un tempo istituzionale, sociale, economica, ambientale? Si tratta di aspetti di una medesima crisi capitalistica. Ma è evidente che la forma semplificata serve a porre in evidenza l’assoluta urgenza del dato materiale, la necessità di invertire la tendenza all’impoverimento e al degrado dei livelli di sostenibilità del vivere comune. Beninteso, ciò vale per la grande maggioranza della popolazione, non per quell’esigua percentuale di ricchi per i quali la crisi è occasione di ulteriore ricchezza. Lo specifica una recente indagine del Bloomberg Billionaires Index, secondo cui i cento più facoltosi del pianeta, nel 2012, hanno aumentato il loro reddito di 241 miliardi di dollari. Lo conferma per l’Italia il rapporto del Censis, nel quale si legge che la quota di famiglie con una ricchezza netta superiore a 500 mila euro è raddoppiata, mentre per i gradini inferiori della scala sociale (dal ceto medio in giù) la ricchezza è drasticamente diminuita. Così, l’acuirsi dell’ineguaglianza e l’inarrestabile peggioramento dei livelli di vita del grosso della popolazione rendono quanto mai dirimente la scelta tra strade alternative.
4- Non è quindi sorprendente che in questi mesi gli economisti “di sinistra”, cioè sensibili ad un’opzione antiliberista o più compiutamente anticapitalistica, abbiano avuto parecchio lavoro da svolgere: il loro specifico contributo è stato essenziale, arrivando a costituire una vera e propria fucina di controinformazione. Marxisti e keynesiani si sono trovati dalla stessa parte della barricata, uniti da un comune e prioritario obiettivo: colpire al cuore le cosiddette “politiche di austerità”, denunciando sulla scorta di incontrovertibili riscontri empirici la loro iniquità e il loro fallimento, ma anche contestandone in radice i presupposti teorici e l’impianto generale da cui muovono. Il quadro analitico e programmatico prevalentemente offerto dalle argomentazioni di questi nostri compagni di strada è in senso proprio “riformistico”: si tratta cioè di indicare soluzioni che guadagnino alle classi subalterne posizioni migliori quanto a vita materiale e potere decisionale. In breve, migliori “rapporti di forza”. Pur lasciando ai termini il loro contesto storicamente determinato, non andremmo lontani dal vero se dicessimo che in fondo viene così prospettata un’aggiornata propensione “socialdemocratica”. Ed è evidente che, essendo nel Pd tali propensioni assenti o – nel migliore dei casi – compresse e inconseguenti, è principalmente proprio la lista di Rivoluzione civile ad esserne oggettivamente la destinataria privilegiata.
5- Proviamo rapidamente a rivedere alcune emblematiche questioni. L’affermazione “siamo contro il governo Monti” (Rivoluzione civile) e l’altra “il governo Monti non è più sufficiente, ma è stato necessario” (Pd) sono espressione di due orientamenti diversi e incompatibili: segnatamente, la seconda è sbagliata sia in linea di principio (vuol separare ciò che non è separabile, quasi vi fosse nel montismo una parte buona, necessaria ed una cattiva o insufficiente, comunque da superare), sia sul piano fattuale (in quanto impraticabile, come se si potesse aggiungere la crescita al rigore montiano e ai diktat della signora Merkel, tenendo insieme ciò che insieme non va). Alla base di tali contorsioni vi è l’incapacità da parte del Partito Democratico di fare radicalmente i conti con l’impostazione neoliberista. In fondo vale ancora per questo partito l’attribuzione di “liberismo temperato”: un ossimoro, che denomina la disastrosa incompatibilità tra le politiche (europee e italiane) di questi anni e gli intenti di giustizia sociale – o almeno di sviluppo socialmente equilibrato – come la recente esperienza ha abbondantemente dimostrato. Monti (in linea con l’Unione europea) è artefice autorevole di tali politiche: da qui deriva la considerazione di cui gode negli ambienti che contano del Vecchio Continente (e più in generale internazionali). Ad ispirare il suddetto orientamento – che non è smembrabile ma è un tutto coerente – è l’idea che il libero dispiegarsi delle forze di mercato possa alla lunga assicurare per tutti i soggetti e i fattori implicati nel gioco economico la migliore allocazione, l’ottimo in termini di efficienza (secondo la terminologia di Vilfredo Pareto). Il tecnocrate o, se si vuole, il tecnico è il sacerdote di tale rito: alla politica non resta che assecondare quello che viene presentato come l’unico, neutrale (in quanto scientifico) cammino. Si può ben comprendere – come sanno italiani e greci – che, da questo punto di vista, elezioni e referendum possano essere considerati degli impacci ridondanti. Poco importa se in realtà il conto viene pagato sempre dai soliti noti: dalle classi popolari.
6- Ma, tant’è, i dati della crisi hanno la testa dura. E producono crepe persino nel fortino dell’establishment. Così accade che il capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard riconosca in un documento reso pubblico agli inizi di gennaio che “le previsioni del fondo hanno significativamente sottostimato l’aumento della disoccupazione e il declino della domanda interna associati al consolidamento fiscale”; che dunque le previsioni concernenti la Grecia e le altre economie europee risultano assai addolcite rispetto agli sviluppi reali, poiché non è stato tenuto nel dovuto conto quanto l’austerità praticata dai governi mini la crescita economica. Tecnicamente, ad esser preso di mira è l’uso improprio dei cosiddetti moltiplicatori fiscali, con i quali si misura l’impatto sulla crescita di un Paese dei tagli alla spesa pubblica e degli incrementi della tassazione: quanto più piccolo è l’effetto moltiplicatore, tanto minori e in breve tempo saranno riassorbibili i danni prodotti dal taglio di spesa e dall’aumento del carico fiscale. Il “grave errore” – che, secondo gli addetti dell’Fmi, è stato indotto dalle pressioni dei partners europei, in particolare tedeschi – è stato quello di non considerare che l’effetto dei moltiplicatori non è uniforme, varia nel tempo e a seconda delle condizioni generali delle economie considerate: se la fase economica è ascendente e il sistema bancario solido, i moltiplicatori saranno deboli e gli effetti negativi a breve contenuti; ma in tempi di crisi, l’effetto moltiplicatore aumenta (e, in luogo del rigore, diviene essenziale un ruolo pubblico che sia generatore di domanda interna). Nel 2010, in occasione del primo e tardivo finanziamento del debito della Grecia, si iniziò a stringere il cappio attorno all’economia e al popolo di quel Paese, promettendo che gli inumani sacrifici allora imposti sarebbero stati presto ripagati dalla ripresa dell’economia. Due anni dopo, grazie a quegli “aiuti”, la disoccupazione è passata dal 10 al 25% e il salario reale è diminuito del 21%. La popolazione è alla fame ma, nel contempo, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non solo non è diminuito ma al contrario si è ulteriormente impennato e viaggia ormai attorno al 180/190%.
7- Come si vede, pur mantenendo il ragionamento all’interno delle compatibilità di sistema, si può tuttavia esser colti da un sussulto di lucidità e, quanto meno, mostrare di voler prendere atto dei dati di realtà. Non è così per l’Europa: dove Mario Draghi prova ad attenuare il rigore della signora Merkel, senza tuttavia metterne in questione la sostanza e le concrete applicazioni. Nè è così per Monti. Il quale imperterrito, nella sua Agenda e nel corso delle recenti apparizioni televisive, insiste nel difendere il suo operato e nel confermare la necessità di ulteriori tagli di spesa pubblica (lui li chiama “riforme”): tali misure, ritenute inevitabili, sono dettate dal rispetto degli accordi europei (segnatamente, il pareggio di bilancio e il patto fiscale). In verità, su questo – che è il punto dirimente – la Carta d’intenti di Bersani non è da meno: There is no alternative. Qualcuno poi, in separata sede, assicura che il rigore imposto da tali patti possa essere attenuato dal punto di vista quantitativo (del resto, si dice, analoghi aggiramenti sono già avvenuti in passato a vantaggio dei più importanti Paesi dell’Unione). Magra controindicazione: ciò che conta infatti, al di là di futuri ipotetici aggiustamenti numerici, è la direzione di marcia, l’orientamento complessivo che tali patti si incaricano di concretizzare. Un orientamento decisamente antipopolare che, con le politiche di austerità e le “condizionalità” imposte ad eventuali aiuti, conferma “lacrime e sangue” per i più. Come detto, la tradizione keynesiana ha argomenti utili da contrapporre a tali politiche. Poco importa che Keynes li abbia concepiti non per superare ma per “migliorare il capitalismo”, per restituirlo alla sua vocazione produttiva di ricchezza (ancorchè ladra di plusvalore). Ciò che conta è che, con l’opposizione alle odiose misure antisociali – con la riproposizione della centralità dell’intervento pubblico, dell’obiettivo della piena occupazione, del salario come variabile indipendente, di un nuovo modo di produrre – si riaccenda il conflitto sociale e, con esso, la lotta per un’altra Europa e un’alternativa di società.
8- Ma da dove vengono l’imperativo dell’austerità e questa ossessione per il taglio della spesa pubblica? Intanto, onde evitare truffaldine astrazioni, è bene disaggregare i dati, specificando che i tagli hanno riguardato scuola, ospedali, redditi da lavoro, non certo le rendite di posizione e i trasferimenti a pioggia per le imprese (così come è vero che la pressione fiscale ha colpito soprattutto il lavoro dipendente). Ma, in generale, i suddetti dogmi vengono dall’idea, posta al cuore dell’ispirazione economica neoclassica, che col risparmio si tutelino le casse dello stato. Non è così, ci ricordano i nostri economisti. E’ anzi vero il contrario: meno lo Stato spende, più si indebita. Il paradosso è solo apparente: è sufficiente abbandonare la fallace analogia con il bilancio privato di una famiglia, con i risparmi di un capofamiglia giustamente parsimonioso, per capire meglio di che si tratta. Soprattutto in tempi di crisi e di sfiducia imprenditoriale, lo Stato deve stimolare l’economia, fornendo con l’acquisto di beni e servizi occasioni di investimento. Tagliare scriteriatamente la spesa pubblica riduce i mercati di sbocco interni, penalizzando quindi i profitti, le occasioni di investimento, la crescita. Né ciò serve a ridurre il fatidico rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (Pil): tagliando la spesa, diminuisce la domanda e l’occupazione; quindi cala la ricchezza prodotta (il Pil) e, anziché ridursi, aumenta il valore del suddetto rapporto. Da questo punto di vista, non è affatto dirimente che il saldo del bilancio pubblico sia tassativamente in pareggio: casomai è importante la composizione del bilancio, la scelta degli obiettivi fissati nei capitoli di spesa, se con essi si creino o si dissipino risorse. (E’ incredibile che il Pd, votando il pareggio di bilancio, dopo aver cestinato Marx, getti alle ortiche anche Keynes…). Quel che conta è insomma distinguere le spese “buone” da quelle “cattive”, selezionarle in base a quanta produzione rispettosa dell’ambiente, quanta buona occupazione, quanto reddito esse riescono a muovere. In tempo di crisi, l’inflazione è l’ultimo dei problemi; ed è bene che il bilancio statale sia in disavanzo, così da incentivare effetti espansivi. Esattamente l’opposto di quello che sta facendo l’Europa, e Monti con lei. Risultato: l’Eurozona è ufficialmente in recessione, le previsioni per il 2013 sono assai fosche e più di uno scricchiolio ne mette in pericolo la stessa tenuta politico-istituzionale. Quanto all’Italia di Monti, in un anno di governo, a colpi di manovre fiscali e leggi di stabilità, il debito pubblico è aumentato in cifra assoluta e in rapporto al Pil, la produzione e gli ordinativi industriali sono crollati, la disoccupazione è aumentata di 750 mila unità (+40%). In definitiva, l’evidenza empirica sta condannando senza attenuanti i dogmi ideologici del neoliberismo. Davanti a un simile fallimento, i timidi distinguo di Bersani servono a poco.
9- E’ comprensibile che la situazione sin qui descritta induca, sull’onda dell’emergenza, ad invocare interventi urgenti quanto drastici. Si tratta però di capire bene dove e come intervenire. Soprattutto, occorre contrastare le forzature strumentali costruite sull’emergenza: sia sul piano degli assetti democratici (com’è noto, gli “stati d’eccezione” conducono pericolosamente alla sospensione della democrazia), sia sul piano della spinta ideologica a promuovere la paura. Un esempio emblematico di questa interessata drammatizzazione è costituito dall’allarme sul debito pubblico inteso come male assoluto. A dire il vero, sul piano analitico, in pochi giungono ormai ad affermare che il debito pubblico sia la causa della crisi. Basta snocciolare i dati ufficiali sull’ammontare degli aiuti pubblici forniti in questi ultimi quattro anni agli istituti bancari per rendere immediatamente perspicua la verità: il debito pubblico non è la causa ma l’effetto di una crisi esplosa dentro il sistema finanziario occidentale (a partire dagli Usa) e da tempo alimentatasi nel cuore della cosiddetta economia reale. Certo si tratta di verità di cui è meglio parlare il meno possibile, così da far rimanere sul banco degli imputati l’effetto (appunto, il debito) invece che la causa. Se solo si volesse andare al fondo degli attuali squilibri (non dico per superare il capitalismo, cosa che comunque sarebbe opportuna, ma quanto meno per attenuarne le contraddizioni), bisognerebbe spostare lo sguardo dal dito alla luna: dai ricorrenti terremoti economico-finanziari e dal conseguente incremento dei debiti alle scelte consapevoli che hanno assecondato il precipitare di tali dissesti. Se, ad esempio, si prende in esame un grafico che mostri il succedersi dei punti di crisi nel secolo scorso (ad esempio quello contenuto in Alan M. Taylor, The Great Leveraging), si vedrà che c’è un solo arco di tempo storico, quello tra il 1945 e il 1970, in cui la linea è del tutto piatta, cioè in cui nessuna delle cosiddette “economie avanzate” ha vissuto una crisi finanziaria. E’ il periodo post-seconda guerra mondiale, in cui l’economia planetaria è stata regolata dagli accordi di Bretton Woods: grazie al controllo e alla limitazione dei movimenti di capitale che quegli accordi sancivano, le risorse finanziarie permanevano all’interno di ciascuno Stato, depositate nelle banche e reimpiegate nell’acquisto di titoli pubblici. Lo Stato, attraverso la sua Banca centrale, controllava il tasso di sconto e, conseguentemente, poteva acquisire risorse indebitandosi a interessi potabili e, nello stesso tempo, manteneva bassi i rendimenti del capitale monetario dei rentiers. Il debito pubblico era sotto controllo precisamente in virtù di questa “signoria pubblica sul denaro”. Come dichiarò Harry Dexter White, firmatario americano degli accordi (la citazione è di Luigi Cavallaro): si tratta di vincoli imposti ai “proprietari di capitali liquidi”, di una “restrizione ai diritti di proprietà di quel 5 o 10 per cento di persone che hanno abbastanza ricchezza per investirne una parte all’estero”. Con la fine di Bretton Woods (1971) e il ritorno a “meno Stato, più mercato”, sono ritornate le crisi: fino all’ultima più devastante, quella del 2008 in cui siamo ancora immersi. Occorrerebbe tornare all’ordine di grandezza delle misure appena descritte, per uscire oggi dal grave impasse e evitare di consumare lentamente diritti e qualità della vita della maggioranza delle popolazioni.
10- Purtroppo, l’impostazione neoliberista dell’Unione Europea è agli antipodi rispetto a tale esigenza (che è, ad un tempo, di giustizia sociale, ma anche in sintonia con l’applicazione di strumenti efficaci e non fallimentari) e continua a partorire politiche territorialmente e socialmente sperequate. L’Ue, per un verso, mostra di voler tutelare interessi e privilegi dei Paesi più forti (Germania su tutti), a svantaggio di quelli periferici, così che quella che doveva essere una comunità sempre più integrata sta viaggiando in direzione opposta: di fatto, le economie europee stanno sempre di più divergendo. Contemporaneamente, essa porta tutta l’acqua al mulino del capitale finanziario facendo pagare ai più il conto della crisi. Così, tra il 2008 e il 2011, la Commissione europea ha destinato soldi pubblici a favore delle banche private per 4.500 miliardi di euro, cui vanno aggiunti nel 2012 interventi come i 45 miliardi in cinque anni per salvare le banche spagnole i 3,9 miliardi per ricapitalizzare l’italiano Monte dei Paschi di Siena. Nel frattempo, secondo i dati Eurostat, la disoccupazione a ottobre 2012 ha raggiunto nella zona euro la percentuale record dell’ 11,7% (10,7% in tutti e 27 i Paesi Ue), per un totale di 18,7 milioni di disoccupati (26 milioni nell’Ue a 27). Ma l’orchestra europea continua a suonare sempre la stessa musica: ingenti risorse pubbliche al capitale finanziario, austerità e tagli per i popoli. E’ la disparità di trattamento riservata dalla Bce di Mario Draghi alle popolazioni dei singoli Stati (i quali, se saranno costretti ad attingere al nuovo Fondo “salvastati”, dovranno garantire il rispetto di un Memorandum capestro, che aggraverà ulteriormente la sofferenza sociale) e, di contro, ai principali istituti bancari (ai quali, com’è noto, sono stati graziosamente concessi 1000 miliardi di euro all’1% di interesse, reinvestiti poi in titoli pubblici a interessi triplicati o quadruplicati). Neanche un soldo all’economia reale. E oggi l’Europa è ufficialmente in “recessione tecnica”, con un arretramento del Pil su base annua dello 0,6%. Lo diciamo da convinti assertori del progetto europeo: in queste condizioni, reclamare genericamente “più Europa” non ha molto senso e anzi è quanto mai pericoloso. Occorre invece che si cominci a battere i pugni sui tavoli di Bruxelles e che si cominci a disubbidire a questa Europa, chiedendo risolutamente di rinegoziare quel che non va . Il fatto che nel programma di Rivoluzione civile figuri una netta opposizione al Fiscal compact è un giusto segnale di dignità.
Le questioni anzidette sono al centro della prossima scadenza elettorale. Il valore di un voto e la sua utilità dipendono da come ad esse si risponde.

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