Un fantasma si aggira per la rete, e sa pure scrivere (anche se non firma gli articoli).
L’ho intravisto, all’indomani delle elezioni, sul blog per antonomasia – quello di Beppe Grillo triumphator –
e, al principio, l’ho scambiato per Massimo Fini, ospite, in video,
della stessa pagina; invece no, si trattava presumibilmente del titolare
(o del suo alter ego) che distillava verità a cinque stelle ad uso e consumo di masse stordite dall’ebbrezza della vittoria.
Il titolo, che abbiamo ripreso con la sola aggiunta di un punto di domanda, suonava perentorio: “Gli italiani non votano mai a caso [1]”. Davvero? mi sono chiesto. Gente che fa caterve di errori, spesso irreparabili, nella vita privata e professionale ritrova una dose di lucidità solo entrando nella cabina elettorale? Mi permetto di dubitarne, e allego come prove le mie incertezze, i miei svarioni passati: i cittadini, persino quelli provvisti di un po’ di intelligenza e cultura, scelgono spesso in base alle emozioni, le speranze, i timori, le infatuazioni del momento. Questo senza parlare delle greggi, che si fanno incantare dagli slogan del pifferaio di turno, o banalmente accorrono dove si bela più forte. Sono in pochi, oggi, a votare secondo ragione, cioè non a caso: i cinici, gli interessati (a un condono o a un più modesto scambio di favori), i fedeli a un’ortodossia religiosa o laica. Ci sono anche gli analisti, è vero; ma soltanto il futuro dirà se la loro intuizione è stata corretta, oltre che acuta.
Ecco: più che una generalizzazione, quel titolo è un atto di fede, che però scolora quando si passa all’analisi del contenuto.
In Italia, ci assicura l’anonimo articolista, “ci sono due blocchi sociali.
Il primo, che chiameremo blocco A, è fatto da milioni di giovani senza
un futuro, con un lavoro precario o disoccupati, spesso laureati, che
sentono di vivere sotto una cappa (…). A questo gruppo appartengono
anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da
fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di
polizia fiscale e, se presi dalla disperazione, si suicidano.” Costoro
hanno votato, secondo Lui, per il MoVimento 5 Stelle, e la tesi è
fondata. Esisterebbe poi un blocco B, composto da quelli che vogliono
“mantenere lo status quo”. Chi sono questi conservatori? “Tutti coloro che hanno attraversato la crisi più o meno indenni, gran parte dei dipendenti statali,
chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, gli evasori,
quanti vivono di politica.” Questi parassiti voterebbero “in generale
per il Pld (sic) o il pdmenoelle.”
La chiusa è minacciosa:
“Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza
avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per
molto. Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici.
Questo peso è insostenibile, lo status quo è insostenibile, è possibile
alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico, i cui
interessi sono pagati anch’essi dalle tasse. E’ una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.”
La morale della favola compare con qualche riga di anticipo: “Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c’è l’età.”
Caro lettore, non è per
riempire un foglio con poca fatica che ho riportato ampi stralci
dell’articolo, né è per vezzo o pigrizia lessicale che ho adoperato la
parola “favola”.
Grillo, o chi per lui,
ci sta raccontando la medesima favola o fiaba o storiella narrata, negli
ultimi tempi, da Monti e Fornero, e prima ancora da schiere di
politicanti proni al sistema capitalista. Lo “scontro generazionale” che
egli maliziosamente preconizza serve ad aizzare i miserabili contro i
poveri, il precario contro i genitori che, con sempre maggiori sforzi,
lo mantengono, l’esodato contro l’ex collega che porta a casa,
mensilmente, una pensione da 1300 euro non più rivalutabili. Perché
attenzione: nell’insostenibile pagamento di “19 milioni di pensioni”
sono conteggiati anche gli assegni medio-bassi, quelle “due lire” – come
si diceva un tempo – che permettono a tanti anziani di sopravvivere.
Si sente l’eco
dell’odiosa propaganda montiana contro i “garantiti” (cioè i residui
lavoratori con diritti), che crea le precondizioni culturali per un
drammatico livellamento verso il basso. Il traguardo è l’assenza di
tutele, la schiavitù salariata.
Grillo è un
furbissimo comunicatore, ma il suo gioco è scoperto: mescolando con la
feccia della società “gran parte dei dipendenti statali”, addita il
capro espiatorio ideale. I funzionari pubblici sono pochissimo amati,
perché nella vulgata popolare percepiscono alti stipendi per grattarsi
la pancia, e sono ipergarantiti. In questa leggenda nera, sedimentatasi
nel corso dei decenni, c’è qualcosa di vero. Poco, però: come
riconoscono i giuslavoristi più seri, il patto non scritto tra
amministrazione e dipendenti prevede(va) la garanzia del posto in cambio
di stipendi modesti. Da modesti, gli stipendi stanno diventando
semplicemente miseri: il blocco delle retribuzioni, in atto dal 2010,
sta per essere prorogato di un altro anno. Anno per anno, da qui
all’eternità: una scala mobile all’incontrario, che porta in un
sottoscala. Però gli impiegati pubblici avrebbero “attraversato la crisi più o meno indenni”,
ci suggeriscono i multimilionari Grillo e Casaleggio, e il popolo “che
non vota mai a caso” presta loro fede, perché ha in mente il travet che
sfoglia il giornale, non l’infermiera del pronto soccorso o il vecchio
maestro delle elementari. Per quel che riguarda la scarsa produttività
(peraltro difficile da quantificare) di statali e affini, il duo
“scorda” una serie di fatti notori: in primis, che la
produttività del singolo dipende dalla sua collocazione (giusta o
sbagliata) all’interno della struttura, oltre che dalla presenza di
strumenti motivazionali; in secondo luogo, che più vasta è
l’organizzazione (il discorso vale per il pubblico come per il privato),
minore è il controllo esercitato dai vertici sull’attività di
ciascun impiegato che, talvolta, risulta letteralmente abbandonato a se
stesso. Il dirigente, tra l’altro, ha i poteri del datore di lavoro, ma
non è il datore – e oltretutto, in un Paese corrottissimo, è scelto di
solito in base alle conoscenze, non al livello di conoscenza.
Inutile approfondire un
tema mille volte svolto: è opportuno notare, invece, che gli
imprenditori sono elencati tra i “buoni”, gli innovatori, non tra gli
odiosi reprobi.
Questo
spiega i salamelecchi degli industrialotti veneti nei confronti di
Grillo che, come osservava Luca Ricolfi, ha fatto loro promesse
berlusconiane: taglio dell’Irap, azzeramento dei contributi da versare
per i nuovi assunti ecc. L’incontro mica è avvenuto sulla pubblica
piazza: il duo si è seduto a un tavolo, e pacatamente ha ragionato,
discusso, concordato. Lontano dal palco il trascinante showman ricorda
di essere, anzitutto, un borghese, e come tale si comporta.
La domanda
è: sono più attendibili le parole “di sinistra” (ripristino
dell’articolo 18, diminuzione delle ore di lavoro settimanali ecc.)
gridate a piazze mediamente proletarizzate o quelle attentamente
soppesate e limate dinanzi a una platea di imprenditori benestanti?
Rispondo con una seconda domanda, sdoppiata: Mussolini attuò il
(socialmente avanzato) programma di San Sepolcro o gli accordi
sottobanco con gli agrari? E quale interesse prevaleva in seno alle
corporazioni, quello dei padroni o quello dei salariati? Lo Storia, poco
accusabile di simpatie politiche, ha già risposto con obiettività ad
ambedue i quesiti. Sia chiaro: non intendo tacciare Grillo di essere un
“fascista” del XXI secolo, ma solo di far coincidere il suo interesse di
alto borghese italiano con quello generale. Cosa sembra attualmente
utile alla sua classe? Un rilancio della produzione nazionale, e dunque dell’economia (attraverso le esportazioni), da favorire con una deregulation che
presuppone uno smantellamento dell’amministrazione pubblica e,
naturalmente, con tanta flessibilità. In quest’ottica non è difficile
comprendere la ratio del famoso reddito di cittadinanza:
assicurare ai lavoratori un minimo di sostentamento nei periodi di pausa
forzata e, grazie ad esso, la quiete (non la pace) sociale. La generosa
dazione non è a costo zero: verrebbe finanziata con un drastico taglio
degli assegni pensionistici – d’oro, d’argento e di stagno – e con il
licenziamento di centinaia di migliaia di civil servants.
L’ipotizzata uscita
dall’euro sarebbe da destra (=spese a carico del ceto lavoratore,
ridotto a livelli di sussistenza), non certo da sinistra. D’altro canto,
nei suoi proclami Beppe Grillo ha sempre rivendicato di essere “sopra”:
peccato che impiegati e operai stiano sotto.
“E’
arrivata la primavera. Ripeto: è arrivata la primavera”: così il capo
dei Borg conclude il suo inquietante post. La stagione, però, è nota per
le improvvise gelate e la violenza degli acquazzoni: se i sondaggi
danno il M5S già intorno al 30%, le trattative in corso per il governo
potrebbero riservare alcune sorprese. Beppe Grillo non può concedersi al
PD senza smentire se stesso (perderebbe l’elettorato antitutto), ma
nemmeno dare l’impressione di voler impedire la nascita di un esecutivo
“a progetto” per mero lucro elettorale: milioni di elettori “di
sinistra” non glielo perdonerebbero. Incede sul filo del rasoio: dopo
aver logorato Bersani gli toccherà, tosto o tardi, presentare un
ultimatum (i suoi 8 punti!), che sia, ma non appaia, inaccettabile. Un
poco agevole esercizio di equilibrismo, quindi, anche perché Mario Monti
– testimonial di una cordata internazionale assai più influente di
quella lombardo veneta – è in agguato, e pontifica con la voce dei
mercati.
Non so come andranno le cose, ma mi persuado ogni giorno di più che il tratto caratteristico del grillismo sia l’ambiguità, un’ambiguità che gli strilli e la veste patriottica non potranno nascondere a lungo.
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