venerdì 8 marzo 2013

GLI ITALIANI NON VOTANO MAI A CASO? di Norberto Fragiacomo



Un fantasma si aggira per la rete, e sa pure scrivere (anche se non firma gli articoli).
L’ho intravisto, all’indomani delle elezioni, sul blog per antonomasia – quello di Beppe Grillo triumphator – e, al principio, l’ho scambiato per Massimo Fini, ospite, in video, della stessa pagina; invece no, si trattava presumibilmente del titolare (o del suo alter ego) che distillava verità a cinque stelle ad uso e consumo di masse stordite dall’ebbrezza della vittoria.

Il titolo, che abbiamo ripreso con la sola aggiunta di un punto di domanda, suonava perentorio: “Gli italiani non votano mai a caso [1]”. Davvero? mi sono chiesto. Gente che fa caterve di errori, spesso irreparabili, nella vita privata e professionale ritrova una dose di lucidità solo entrando nella cabina elettorale? Mi permetto di dubitarne, e allego come prove le mie incertezze, i miei svarioni passati: i cittadini, persino quelli provvisti di un po’ di intelligenza e cultura, scelgono spesso in base alle emozioni, le speranze, i timori, le infatuazioni del momento. Questo senza parlare delle greggi, che si fanno incantare dagli slogan del pifferaio di turno, o banalmente accorrono dove si bela più forte. Sono in pochi, oggi, a votare secondo ragione, cioè non a caso: i cinici, gli interessati (a un condono o a un più modesto scambio di favori), i fedeli a un’ortodossia religiosa o laica. Ci sono anche gli analisti, è vero; ma soltanto il futuro dirà se la loro intuizione è stata corretta, oltre che acuta.
Ecco: più che una generalizzazione, quel titolo è un atto di fede, che però scolora quando si passa all’analisi del contenuto.
In Italia, ci assicura l’anonimo articolista, “ci sono due blocchi sociali. Il primo, che chiameremo blocco A, è fatto da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o disoccupati, spesso laureati, che sentono di vivere sotto una cappa (…). A questo gruppo appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e, se presi dalla disperazione, si suicidano.” Costoro hanno votato, secondo Lui, per il MoVimento 5 Stelle, e la tesi è fondata. Esisterebbe poi un blocco B, composto da quelli che vogliono “mantenere lo status quo”. Chi sono questi conservatori? “Tutti coloro che hanno attraversato la crisi più o meno indenni, gran parte dei dipendenti statali, chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, gli evasori, quanti vivono di politica.” Questi parassiti voterebbero “in generale per il Pld (sic) o il pdmenoelle.”
La chiusa è minacciosa: “Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto. Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, lo status quo è insostenibile, è possibile alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico, i cui interessi sono pagati anch’essi dalle tasse. E’ una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.”
La morale della favola compare con qualche riga di anticipo: “Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c’è l’età.”
Caro lettore, non è per riempire un foglio con poca fatica che ho riportato ampi stralci dell’articolo, né è per vezzo o pigrizia lessicale che ho adoperato la parola “favola”.
Grillo, o chi per lui, ci sta raccontando la medesima favola o fiaba o storiella narrata, negli ultimi tempi, da Monti e Fornero, e prima ancora da schiere di politicanti proni al sistema capitalista. Lo “scontro generazionale” che egli maliziosamente preconizza serve ad aizzare i miserabili contro i poveri, il precario contro i genitori che, con sempre maggiori sforzi, lo mantengono, l’esodato contro l’ex collega che porta a casa, mensilmente, una pensione da 1300 euro non più rivalutabili. Perché attenzione: nell’insostenibile pagamento di “19 milioni di pensioni” sono conteggiati anche gli assegni medio-bassi, quelle “due lire” – come si diceva un tempo – che permettono a tanti anziani di sopravvivere.
Si sente l’eco dell’odiosa propaganda montiana contro i “garantiti” (cioè i residui lavoratori con diritti), che crea le precondizioni culturali per un drammatico livellamento verso il basso. Il traguardo è l’assenza di tutele, la schiavitù salariata.
Grillo è un furbissimo comunicatore, ma il suo gioco è scoperto: mescolando con la feccia della società “gran parte dei dipendenti statali”, addita il capro espiatorio ideale. I funzionari pubblici sono pochissimo amati, perché nella vulgata popolare percepiscono alti stipendi per grattarsi la pancia, e sono ipergarantiti. In questa leggenda nera, sedimentatasi nel corso dei decenni, c’è qualcosa di vero. Poco, però: come riconoscono i giuslavoristi più seri, il patto non scritto tra amministrazione e dipendenti prevede(va) la garanzia del posto in cambio di stipendi modesti. Da modesti, gli stipendi stanno diventando semplicemente miseri: il blocco delle retribuzioni, in atto dal 2010, sta per essere prorogato di un altro anno. Anno per anno, da qui all’eternità: una scala mobile all’incontrario, che porta in un sottoscala. Però gli impiegati pubblici avrebbero “attraversato la crisi più o meno indenni”, ci suggeriscono i multimilionari Grillo e Casaleggio, e il popolo “che non vota mai a caso” presta loro fede, perché ha in mente il travet che sfoglia il giornale, non l’infermiera del pronto soccorso o il vecchio maestro delle elementari. Per quel che riguarda la scarsa produttività (peraltro difficile da quantificare) di statali e affini, il duo “scorda” una serie di fatti notori: in primis, che la produttività del singolo dipende dalla sua collocazione (giusta o sbagliata) all’interno della struttura, oltre che dalla presenza di strumenti motivazionali; in secondo luogo, che più vasta è l’organizzazione (il discorso vale per il pubblico come per il privato), minore è il controllo esercitato dai vertici sull’attività di ciascun impiegato che, talvolta, risulta letteralmente abbandonato a se stesso. Il dirigente, tra l’altro, ha i poteri del datore di lavoro, ma non è il datore – e oltretutto, in un Paese corrottissimo, è scelto di solito in base alle conoscenze, non al livello di conoscenza.
Inutile approfondire un tema mille volte svolto: è opportuno notare, invece, che gli imprenditori sono elencati tra i “buoni”, gli innovatori, non tra gli odiosi reprobi.
Questo spiega i salamelecchi degli industrialotti veneti nei confronti di Grillo che, come osservava Luca Ricolfi, ha fatto loro promesse berlusconiane: taglio dell’Irap, azzeramento dei contributi da versare per i nuovi assunti ecc. L’incontro mica è avvenuto sulla pubblica piazza: il duo si è seduto a un tavolo, e pacatamente ha ragionato, discusso, concordato. Lontano dal palco il trascinante showman ricorda di essere, anzitutto, un borghese, e come tale si comporta.
La domanda è: sono più attendibili le parole “di sinistra” (ripristino dell’articolo 18, diminuzione delle ore di lavoro settimanali ecc.) gridate a piazze mediamente proletarizzate o quelle attentamente soppesate e limate dinanzi a una platea di imprenditori benestanti? Rispondo con una seconda domanda, sdoppiata: Mussolini attuò il (socialmente avanzato) programma di San Sepolcro o gli accordi sottobanco con gli agrari? E quale interesse prevaleva in seno alle corporazioni, quello dei padroni o quello dei salariati? Lo Storia, poco accusabile di simpatie politiche, ha già risposto con obiettività ad ambedue i quesiti. Sia chiaro: non intendo tacciare Grillo di essere un “fascista” del XXI secolo, ma solo di far coincidere il suo interesse di alto borghese italiano con quello generale. Cosa sembra attualmente utile alla sua classe? Un rilancio della produzione nazionale, e dunque dell’economia (attraverso le esportazioni), da favorire con una deregulation che presuppone uno smantellamento dell’amministrazione pubblica e, naturalmente, con tanta flessibilità. In quest’ottica non è difficile comprendere la ratio del famoso reddito di cittadinanza: assicurare ai lavoratori un minimo di sostentamento nei periodi di pausa forzata e, grazie ad esso, la quiete (non la pace) sociale. La generosa dazione non è a costo zero: verrebbe finanziata con un drastico taglio degli assegni pensionistici – d’oro, d’argento e di stagno – e con il licenziamento di centinaia di migliaia di civil servants.
L’ipotizzata uscita dall’euro sarebbe da destra (=spese a carico del ceto lavoratore, ridotto a livelli di sussistenza), non certo da sinistra. D’altro canto, nei suoi proclami Beppe Grillo ha sempre rivendicato di essere “sopra”: peccato che impiegati e operai stiano sotto.
“E’ arrivata la primavera. Ripeto: è arrivata la primavera”: così il capo dei Borg conclude il suo inquietante post. La stagione, però, è nota per le improvvise gelate e la violenza degli acquazzoni: se i sondaggi danno il M5S già intorno al 30%, le trattative in corso per il governo potrebbero riservare alcune sorprese. Beppe Grillo non può concedersi al PD senza smentire se stesso (perderebbe l’elettorato antitutto), ma nemmeno dare l’impressione di voler impedire la nascita di un esecutivo “a progetto” per mero lucro elettorale: milioni di elettori “di sinistra” non glielo perdonerebbero. Incede sul filo del rasoio: dopo aver logorato Bersani gli toccherà, tosto o tardi, presentare un ultimatum (i suoi 8 punti!), che sia, ma non appaia, inaccettabile. Un poco agevole esercizio di equilibrismo, quindi, anche perché Mario Monti – testimonial di una cordata internazionale assai più influente di quella lombardo veneta – è in agguato, e pontifica con la voce dei mercati.
Non so come andranno le cose, ma mi persuado ogni giorno di più che il tratto caratteristico del grillismo sia l’ambiguità, un’ambiguità che gli strilli e la veste patriottica non potranno nascondere a lungo.


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