venerdì 15 marzo 2013

Ma quant’è minoritario il sistema maggioritario di Alessandro Robecchi

arobecchiAlla fine è una questione di corpi contundenti: c’è una destra che usa Grillo per picchiare il Pd, Renzi che si traveste da grillino come prima era agghindato da montiano, Scilipoti sulle scale di Palazzo di Giustizia che consiglia di processare i magistrati, Grillo che mena tutti aspettando il cento per cento e la dissoluzione del Parlamento in un’immensa homepage, e Alfano che spera di usare Napolitano per picchiare la Boccassini. La democrazia in rete è una clava a intermittenza: è bella dal basso, quando si urla “a casa!”, è affascinante dall’alto, quando guru e paraguru minacciano di togliere le tende e di lasciare senza guida i loro eletti: cicca-cicca, non gioco più. Il Pd si difende come può dagli attacchi concentrici e dalle divisioni interne, un po’ come spararsi per impedirsi di fare harakiri, roba assai contorta, la Gelmini (sentita con queste orecchie) prega di pensare ai problemi reali del Paese, e Monti aspetta acquattato nell’ombra di durare fino a ottobre e alle nuove elezioni, che è l’unico modo di rivendere la sua agenda. Ecco, sicuro che mi sono scordato qualcosa.
Da cittadino, ma anche da mammifero, italiano, bipede, titolare di patente B ed elettore, un caro pensiero va a tutti quegli impareggiabili geni che anni e anni fa caldeggiarono il famoso referendum di riforma della legge elettorale, convincendo l’Italia che il proporzionale ci paralizzava, mentre invece col maggioritario, wow, che figata! Era il 1993 (primo atto della commedia nel ’91), andavano di moda Mariotto Segni, gli 883, Bill Clinton e le giacche con le spalline. Mirabolanti intellettuali di centro, destra, sinistra, di profilo come gli egizi nelle piramidi e pensatori a volo radente ammonivano la popolazione: chiarezza! Normalità! Uno vince e uno perde, e si va avanti così, alternandosi come nelle democrazie vere. Affascinante.
Ora siamo qui che festeggiamo il ventennale di quella mirabolante impresa. Nel frattempo abbiamo avuto governi privati forgiati alla scuola dei venditori di spot. O responsabilissimi governi progressisti che sbandieravano la parola “flessibilità” per inventarsi il precariato. O fragili compagini di centro-centro-centrosinistra aggrappate a poveri senatori centenari. O compravendite di parlamentari un tanto al chilo. O maggioranze amplissime impegnate a certificare con il voto le parentele illustri di ragazze minorenni concupite dal premier. E ora – trionfo del maggioritario – tre minoranze con lo stesso peso elettorale, ognuna delle quali implora (Silvio a Pierluigi, Pierluigi a Beppe) un’alleanza come ai tempi di Remo Gaspari. Un po’ come prendere la malaria per curarsi il raffreddore.
Certo, la storia non è una cosa così meccanica. Eppure di quel 1993 rimangono alcuni apprezzati standard, come per esempio il potere d’acquisto delle famiglie, che è rimasto uguale, mentre tutto il resto costa di più. Brutti tempi, eh, intendiamoci. Pensate che c’erano ancora le ideologie, quelle cose cattive per cui dietro una politica c’era un’idea. Mentre dopo, quando “ideologia” è diventata una parolaccia da sbertucciare nei talk show, abbiamo guadagnato alcune cosucce notevoli come la Lega, la Santanché, la bicamerale di D’Alema, le cene eleganti, i parlamentari in corteo a palazzo di Giustizia, i microchip sottopelle e la democrazia liquida, che chissà perché a me piacerebbe solida. Insomma, non buttiamoci giù, però mettiamo a verbale: mentre decidevamo se il bicchiere era mezzo pieno o mezzo vuoto, qualcuno si è fregato il bicchiere.

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