sabato 9 marzo 2013

Una sconfitta che rinvia al 1924 di Alberto Burgio


Interrogarsi sul risultato delle elezioni politiche significa chiedersi che cosa bolle nella pancia della società italiana e quali previsioni si possano fare, secondo noi, sulle sorti della sinistra. Nessuno – tranne Bersani – nega che il Pd sia stato sconfitto. Bisogna aggiungere che è l’unica, tra le forze maggiori, ad aver perso. Se Grillo ha sbancato, anche il Pdl ha raggiunto l’obiettivo, realizzando una rimonta spettacolosa. C’è riuscito grazie alla scialuppa lanciata dal presidente della Repubblica. Un capo dello stato così affezionato al bipolarismo (nei progetti di Napolitano Monti avrebbe dovuto sostituire Berlusconi) da congelare la crisi verticale del centrodestra con il governo tecnico. Ma il Pdl tiene ancora la scena anche perché in tutti questi anni ha mostrato di rappresentare efficacemente il proprio blocco sociale. Nonostante tutti gli scandali che poco o nulla incidono sulla condizione materiale delle persone, la maggior parte dell’elettorato di centrodestra mostra di nutrire ancora fiducia nei propri rappresentanti tradizionali. Qui veniamo subito al Pd. Di sicuro Bersani ha commesso molti errori. Ma siccome in questi giorni va di moda sostenere che le cose sarebbero andate meglio se al suo posto ci fosse stato Renzi, è bene chiarirsi. Forse (non lo sapremo mai) Renzi avrebbe contenuto le perdite, ma non avrebbe risolto il problema. La sconfitta del Pd deriva invece dalla stessa logica che ha premiato il Pdl. In questi vent’anni la cosiddetta sinistra moderata ha visto costantemente ridursi il proprio peso, sino al 10 per cento del totale (tanto vale all’incirca, al netto delle astensioni, la componente post-comunista del Pd). Di fronte a questo trend la proverbiale arroganza di taluni dirigenti storici del Pd è roba da psicanalisti. Come spiegare questa emorragia cronica se non col fatto che gran parte del blocco sociale della sinistra si è visto abbandonato da chi avrebbe dovuto tutelarlo? Non è il caso di ripetere quanto andiamo scrivendo da anni a proposito della frustrazione del mondo del lavoro, dei giovani, del Mezzogiorno, sistematicamente sacrificati nel nome del mercato, del privato e, da ultimo, del risanamento. Ridotto all’osso il ragionamento, questa sembra l’unica chiave in grado di spiegare la debâcle . Purtroppo, il fatto che nessun dirigente del Pd la prenda sul serio non fa ben sperare chi si augura che la musica da quelle parti finalmente cambi. Anche l’ exploit del M5S riposa, a ben guardare, su questa logica. Grillo ha intercettato l’enorme massa di delusioni e di risentimenti di un popolo lasciato senza voce e persino senza sogni (la plumbea retorica dell’austerità è la morte del sogno, di cui, come Berlusconi ha capito benissimo, la gente ha gran bisogno, con piena legittimità). Lo ha fatto non soltanto con l’attacco alla casta o simulando la democrazia diretta. Come mi pare suggerisse Felice Roberto Pizzuti ( il manifesto , 2 marzo) l’arma vincente (che spiega anche il flop di Monti e del terzo polo) è stato il discorso sulla crisi come figlia dell’ingiustizia di un sistema che non smette di produrre ricchezza, ma la distribuisce in modo sempre più iniquo. Le fluviali esternazioni di Grillo saranno anche caotiche (debbono esserlo, perché più che alla testa delle folle puntano alla pancia), ma lasciano emergere con forza un dato che le altre forze politiche cercano di nascondere. La crisi non è una maledizione o una malattia misteriosa. È la conseguenza logica di una direzione del sistema economico che in tutto il mondo, in assenza di oppositori, sta scaraventando all’inferno le classi medie e il proletariato. Per chi perde (o teme di perdere) lavoro e reddito, e vede crescere intorno a sé ricchezze smisurate, non ci vuole una scienza per capire che le cose stanno così e che quelle dei sacerdoti dell’austerità sono balle. Grillo libera la rabbia di chi ha paura e al tempo stesso lo rassicura e lo galvanizza. Per questo raccoglie enormi consensi, lucrando su una sacrosanta domanda di sicurezza e giustizia sociale. Il risultato, disastroso per Rifondazione comunista e Pdci, che rimangono per la seconda volta fuori dal parlamento in forza di una legge elettorale anticostituzionale (se fosse stata in coalizione Rivoluzione civile avrebbe 26 deputati e 765mila cittadini non sarebbero stati privati del proprio diritto alla rappresentanza), è deludente anche per Sel, che incassa molti meno consensi del previsto ed elegge 37 deputati grazie a un premio di maggioranza che moltiplica oltre misura il peso dei suoi voti. Se è vero che vince chi è credibile quando promette di rappresentare interessi e aspettative, in questo caso la credibilità non è stata compromessa tanto dalle cose dette – più o meno limpidamente, più o meno coerentemente – in campagna elettorale o fatte in questi anni di battaglie fuori dal parlamento. Il problema consiste piuttosto nella scarsa efficacia, constatata e prevista, di forze divise tra loro e per ciò stesso ininfluenti. Tanto più considerati i grandi compiti trasformativi che costituiscono la ragion d’essere di forze critiche. Nessuno, a sinistra, ha motivo di rallegrarsi per questi risultati. Anche chi si consola per essere rientrato in parlamento vede bene che i problemi esplosi nel 2008, in primo luogo la frammentazione delle forze, sono ancora tutti aperti e non meno gravi di allora. D’altra parte non tutto il male viene per nuocere. Questo terremoto impone un bilancio degli ultimi vent’anni, che sinora si è evitato di fare. Nessuno sa quanto la nuova legislatura durerà, ma non è improbabile che si concluda presto ed è bene che sia così, perché il travaglio del sistema politico non deve fermarsi finché non si sarà rotta definitivamente la gabbia del bipolarismo che ha deformato la rappresentanza e consentito lo sterminio pianificato della sinistra. Il che non riguarda – si badi – solo la sfera politica. Anche se la storia non si ripete mai uguale a se stessa, è bene considerare che la situazione sociale oggi, in Italia e in parte dell’Europa, presenta inquietanti analogie non col 1994, ma col 1924. Sarebbe un disastro se l’enorme potenza del rancore e della collera, che Grillo mantiene ancora dentro la logica democratica, dovesse sfuggire di mano. E non c’è modo migliore per alimentare questo rischio che negarle rappresentanza. Su come affrontare i guai della sinistra, le sue divisioni, Alfonso Gianni ( il manifesto , 28 febbraio) ha parlato di una comune ricerca ideale, altri di una costituente della sinistra. Se, al di là del lessico, questo significa affrontare finalmente la questione dell’unità della sinistra diffusa e delle sue organizzazioni sulla base del moltissimo che esse condividono (a cominciare dalla priorità dell’occupazione, del reddito, della tutela ambientale, della pace e della formazione), credo si tratti dell’unica proposta razionale, che ci si dovrebbe augurare attragga anche le componenti più avanzate del Pd. Da qui si tratta di ripartire al più presto. Nella consapevolezza che mai come oggi i tempi della politica sono stati incalzanti e tali da mettere alla prova intelligenza, coraggio e ben inteso senso di responsabilità.

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