Interrogarsi sul risultato delle elezioni politiche significa
chiedersi che cosa bolle nella pancia della società italiana e quali
previsioni si possano fare, secondo noi, sulle sorti della sinistra.
Nessuno – tranne Bersani – nega che il Pd sia stato sconfitto. Bisogna
aggiungere che è l’unica, tra le forze maggiori, ad aver perso. Se
Grillo ha sbancato, anche il Pdl ha raggiunto l’obiettivo, realizzando
una rimonta spettacolosa. C’è riuscito grazie alla scialuppa lanciata
dal presidente della Repubblica. Un capo dello stato così affezionato al
bipolarismo (nei progetti di Napolitano Monti avrebbe dovuto sostituire
Berlusconi) da congelare la crisi verticale del centrodestra con il
governo tecnico. Ma il Pdl tiene ancora la scena anche perché in tutti
questi anni ha mostrato di rappresentare efficacemente il proprio blocco
sociale. Nonostante tutti gli scandali che poco o nulla incidono sulla
condizione materiale delle persone, la maggior parte dell’elettorato di
centrodestra mostra di nutrire ancora fiducia nei propri rappresentanti
tradizionali. Qui veniamo subito al Pd. Di sicuro Bersani ha commesso
molti errori. Ma siccome in questi giorni va di moda sostenere che le
cose sarebbero andate meglio se al suo posto ci fosse stato Renzi, è
bene chiarirsi. Forse (non lo sapremo mai) Renzi avrebbe contenuto le
perdite, ma non avrebbe risolto il problema. La sconfitta del Pd deriva
invece dalla stessa logica che ha premiato il Pdl. In questi vent’anni
la cosiddetta sinistra moderata ha visto costantemente ridursi il
proprio peso, sino al 10 per cento del totale (tanto vale all’incirca,
al netto delle astensioni, la componente post-comunista del Pd). Di
fronte a questo trend la proverbiale arroganza di taluni dirigenti
storici del Pd è roba da psicanalisti. Come spiegare questa emorragia
cronica se non col fatto che gran parte del blocco sociale della
sinistra si è visto abbandonato da chi avrebbe dovuto tutelarlo? Non è
il caso di ripetere quanto andiamo scrivendo da anni a proposito della
frustrazione del mondo del lavoro, dei giovani, del Mezzogiorno,
sistematicamente sacrificati nel nome del mercato, del privato e, da
ultimo, del risanamento. Ridotto all’osso il ragionamento, questa sembra
l’unica chiave in grado di spiegare la debâcle . Purtroppo, il fatto
che nessun dirigente del Pd la prenda sul serio non fa ben sperare chi
si augura che la musica da quelle parti finalmente cambi. Anche l’
exploit del M5S riposa, a ben guardare, su questa logica. Grillo ha
intercettato l’enorme massa di delusioni e di risentimenti di un popolo
lasciato senza voce e persino senza sogni (la plumbea retorica
dell’austerità è la morte del sogno, di cui, come Berlusconi ha capito
benissimo, la gente ha gran bisogno, con piena legittimità). Lo ha fatto
non soltanto con l’attacco alla casta o simulando la democrazia
diretta. Come mi pare suggerisse Felice Roberto Pizzuti ( il manifesto ,
2 marzo) l’arma vincente (che spiega anche il flop di Monti e del terzo
polo) è stato il discorso sulla crisi come figlia dell’ingiustizia di
un sistema che non smette di produrre ricchezza, ma la distribuisce in
modo sempre più iniquo. Le fluviali esternazioni di Grillo saranno anche
caotiche (debbono esserlo, perché più che alla testa delle folle
puntano alla pancia), ma lasciano emergere con forza un dato che le
altre forze politiche cercano di nascondere. La crisi non è una
maledizione o una malattia misteriosa. È la conseguenza logica di una
direzione del sistema economico che in tutto il mondo, in assenza di
oppositori, sta scaraventando all’inferno le classi medie e il
proletariato. Per chi perde (o teme di perdere) lavoro e reddito, e vede
crescere intorno a sé ricchezze smisurate, non ci vuole una scienza per
capire che le cose stanno così e che quelle dei sacerdoti
dell’austerità sono balle. Grillo libera la rabbia di chi ha paura e al
tempo stesso lo rassicura e lo galvanizza. Per questo raccoglie enormi
consensi, lucrando su una sacrosanta domanda di sicurezza e giustizia
sociale. Il risultato, disastroso per Rifondazione comunista e Pdci, che
rimangono per la seconda volta fuori dal parlamento in forza di una
legge elettorale anticostituzionale (se fosse stata in coalizione
Rivoluzione civile avrebbe 26 deputati e 765mila cittadini non sarebbero
stati privati del proprio diritto alla rappresentanza), è deludente
anche per Sel, che incassa molti meno consensi del previsto ed elegge 37
deputati grazie a un premio di maggioranza che moltiplica oltre misura
il peso dei suoi voti. Se è vero che vince chi è credibile quando
promette di rappresentare interessi e aspettative, in questo caso la
credibilità non è stata compromessa tanto dalle cose dette – più o meno
limpidamente, più o meno coerentemente – in campagna elettorale o fatte
in questi anni di battaglie fuori dal parlamento. Il problema consiste
piuttosto nella scarsa efficacia, constatata e prevista, di forze divise
tra loro e per ciò stesso ininfluenti. Tanto più considerati i grandi
compiti trasformativi che costituiscono la ragion d’essere di forze
critiche. Nessuno, a sinistra, ha motivo di rallegrarsi per questi
risultati. Anche chi si consola per essere rientrato in parlamento vede
bene che i problemi esplosi nel 2008, in primo luogo la frammentazione
delle forze, sono ancora tutti aperti e non meno gravi di allora.
D’altra parte non tutto il male viene per nuocere. Questo terremoto
impone un bilancio degli ultimi vent’anni, che sinora si è evitato di
fare. Nessuno sa quanto la nuova legislatura durerà, ma non è
improbabile che si concluda presto ed è bene che sia così, perché il
travaglio del sistema politico non deve fermarsi finché non si sarà
rotta definitivamente la gabbia del bipolarismo che ha deformato la
rappresentanza e consentito lo sterminio pianificato della sinistra. Il
che non riguarda – si badi – solo la sfera politica. Anche se la storia
non si ripete mai uguale a se stessa, è bene considerare che la
situazione sociale oggi, in Italia e in parte dell’Europa, presenta
inquietanti analogie non col 1994, ma col 1924. Sarebbe un disastro se
l’enorme potenza del rancore e della collera, che Grillo mantiene ancora
dentro la logica democratica, dovesse sfuggire di mano. E non c’è modo
migliore per alimentare questo rischio che negarle rappresentanza. Su
come affrontare i guai della sinistra, le sue divisioni, Alfonso Gianni (
il manifesto , 28 febbraio) ha parlato di una comune ricerca ideale,
altri di una costituente della sinistra. Se, al di là del lessico,
questo significa affrontare finalmente la questione dell’unità della
sinistra diffusa e delle sue organizzazioni sulla base del moltissimo
che esse condividono (a cominciare dalla priorità dell’occupazione, del
reddito, della tutela ambientale, della pace e della formazione), credo
si tratti dell’unica proposta razionale, che ci si dovrebbe augurare
attragga anche le componenti più avanzate del Pd. Da qui si tratta di
ripartire al più presto. Nella consapevolezza che mai come oggi i tempi
della politica sono stati incalzanti e tali da mettere alla prova
intelligenza, coraggio e ben inteso senso di responsabilità.
Nessun commento:
Posta un commento