venerdì 3 ottobre 2014

La «ditta» e l’art. 18 —  Alberto Burgio, Il Manifesto


Si può dire che il nodo che sta venendo al pet­tine nella discus­sione sulla cosid­detta riforma del mer­cato del lavoro ha un nome nobile e tra­scu­rato, respon­sa­bi­lità. Ma quale respon­sa­bi­lità, e verso chi? Il nome è alto, infatti. Ma poi biso­gna cor­ret­ta­mente decli­narlo. E qui la con­fu­sione imper­versa.
Ripar­liamo dello scon­tro interno al Pd sull’articolo 18. Lunedì scorso, nella dire­zione del par­tito, ci si è scon­trati e con­tati. Come pre­vi­sto, il segre­ta­rio ha stra­vinto, ma almeno qual­cuno ha attac­cato le sue pro­po­ste. Per­sino D’Alema ha accu­sato il governo di andare avanti a slo­gan e spot, nella spoc­chiosa improv­vi­sa­zione dei con­si­glieri eco­no­mici del pre­mier. Ha addi­rit­tura messo in luce la cifra padro­nale dei pro­getti gover­na­tivi (ci tor­ne­remo), e si è bec­cato a stretto giro una ran­del­lata bef­farda. Ber­sani invece no. Lui, il pre­de­ces­sore di Renzi alla guida del par­tito, già mini­stro pesante nei due governi Prodi (Indu­stria e com­mer­cio prima, Svi­luppo eco­no­mico poi), ha scelto un’altra strada. A dir poco bizzarra.
Nella riu­nione della dire­zione ha repli­cato a Renzi in un modo assai sin­go­lare. Ciò che rischia di spin­gere il par­tito «sull’orlo del bara­tro», ha soste­nuto, è lo scarso rispetto tra i diri­genti del Pd. Non sono tanto le inten­zioni del governo quanto il «metodo Boffo», la lesione della per­so­nale dignità dei politici.
Evi­den­te­mente chi rite­neva che la que­stione con­cer­nesse il man­cato rein­te­gro dei lavo­ra­tori licen­ziati senza giu­sta causa si era sba­gliato. Ben più delle tutele dei lavo­ra­tori e dei loro diritti, che il governo intende azze­rare per accre­di­tarsi come garante degli inte­ressi e dei poteri dell’impresa, per Ber­sani con­tano il par­tito e le buone rela­zioni tra i suoi capi. Ci pare una gaffe di prima gran­dezza. O piut­to­sto un lap­sus, che svela una men­ta­lità e un mondo.
Difatti Ber­sani non si è accon­ten­tato e, per sgom­brare il campo da ogni equi­voco, l’altroieri è tor­nato sull’argomento. Chia­rendo che, comun­que vada il con­fronto sulla «riforma» nel par­tito e in par­la­mento, quale che sarà la sorte degli emen­da­menti pro­po­sti dalla «sini­stra» del Pd, lui ad ogni modo sarà leale, voterà a favore del testo gover­na­tivo. Per­ché? Per­ché sa che cos’è «una ditta» e sa come ci si sta.
Già, la ditta. Que­sta discus­sione è infatti anche una que­stione di parole. Chi ha par­lato di padroni è stato pron­ta­mente bol­lato come un tri­na­ri­ciuto di ritorno. Un vol­gare bifolco che ha disim­pa­rato le buone maniere pra­ti­cate in que­sti vent’anni. Nes­suno invece ha nulla da obiet­tare se un par­tito viene chia­mato «ditta». Que­sto va bene, è trendy.
Ber­sani, si sa, gioca a fare, con le sue meta­fore, l’emiliano prag­ma­tico e schietto. Ma c’è nelle sue scelte les­si­cali anche molta astu­zia. Par­lare di ditte in que­sto caso non è né un’elegante bat­tuta di spi­rito né una cosa di poco conto, men­tre lo scon­tro che si viene con­su­mando vede da una parte i dipen­denti, dall’altra pro­prio i ver­tici azien­dali. I padroni delle ditte, per l’appunto.
Ma stiamo pure all’essenziale, che è, come si vede, sem­pre lo stesso. Per Ber­sani è giu­sto discu­tere, magari scon­trarsi sulle norme da appro­vare o emen­dare. Pur­ché sia chiaro che il par­tito – la ditta – è il sommo bene. Il che signi­fica una cosa sola: che quella discus­sione è finta, una recita a sog­getto tanto per sal­vare la fac­cia della mino­ranza. Che ha, secondo Ber­sani, un com­pito pre­ciso: essere «leale», mostrarsi «respon­sa­bile»: in una parola, obbedire.

E così veniamo al punto. Respon­sa­bili i par­la­men­tari demo­cra­tici deb­bono rite­nersi nei con­fronti di chi? Del pro­prio par­tito, quali che siano le scelte dei suoi ver­tici, o dei lavo­ra­tori sotto schiaffo? Dei pro­pri orga­ni­smi diri­genti, o di chi quando va bene campa a stento di sala­rio e rischia ogni giorno di per­dere il lavoro?
Ber­sani sa benis­simo come stanno le cose, come lo sapeva quando emendò la riscrit­tura dell’articolo 18 ai tempi della non rim­pianta mini­stra For­nero. Sa benis­simo che Renzi intende dare ai padroni carta bianca sui licen­zia­menti per­ché pos­sano ricat­tare i dipen­denti sul sala­rio, l’orario, i diritti e l’organizzazione delle lotte. Non è casuale che, men­tre la discus­sione sull’articolo 18 decol­lava, fosse negli Stati Uniti a cin­guet­tare con Mar­chionne, sim­bolo vivente della guerra con­tro il sin­da­cato.
Allora c’è da chie­dersi per­ché mai, prima ancora di sapere se il governo porrà la fidu­cia sul Jobs Act, senta il biso­gno di met­tere repen­ti­na­mente le mani avanti e di garan­tire che la mino­ranza del Pd si alli­neerà, accon­sen­tirà, segui­terà a coprire a sini­stra un capo che va sem­pre più a destra. Per­ché mai lanci segnali ras­si­cu­ranti, teo­riz­zando che il dis­senso interno ha vin­coli inva­li­ca­bili, pro­prio men­tre la mino­ranza s’interroga, ipo­tizza mag­gio­ranze a geo­me­tria varia­bile e non esclude di andare sino in fondo, anche fino alla rot­tura col governo e con la mag­gio­ranza del partito.
Ancora una volta emerge che il pro­blema è poli­tico e di prima gran­dezza. Non sarà ele­gante, ma biso­gna ripe­terlo: il Pd è dinanzi a un bivio dram­ma­tico. Le scelte all’ordine del giorno sono, per sostanza e peso sim­bo­lico, deci­sive. L’articolo 18 è oggi quel che la scala mobile e le pen­sioni sono state in pas­sato. E ora dav­vero non ci sono più mar­gini, come mostrano le sta­ti­sti­che che foto­gra­fano la cata­strofe di que­sto paese.
Che l’Italia regi­stri il record della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile e della pre­ca­rietà, della povertà del lavoro e della disu­gua­glianza (per tacere dell’evasione fiscale) non è un caso. Non è privo di con­nes­sioni con le scelte com­piute anche dai gruppi diri­genti di quello che avrebbe dovuto essere il par­tito dei lavo­ra­tori: di tutto il lavoro subor­di­nato, com­preso il pre­ca­riato, gli auto­nomi ete­ro­di­retti, i disoc­cu­pati. A que­sto punto, per­ser­vare nella stessa dire­zione vor­rebbe dire avere con­su­mato una muta­zione gene­tica, aver cam­biato natura e ragion d’essere. È per que­sto che nello scon­tro sull’articolo 18 e sul Jobs Act è in gioco una que­stione di dignità e di responsabilità.

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