Si
svolgeranno venerdì prossimo 8 marzo i funerali di Hugo Chavez. Il
Venezuela osserverà sette giorni di lutto mentre le scuole rimarranno
chiuse per tre giorni. La presidenza della repubblica è stata assunta ad
interim dall’attuale vicepresidente Maduro. Da ieri pomeriggio nei
pressi della clinica, gli uomini e le donne del 'pueblo' chavista hanno
dato vita nella piazza antistante l’ospedale militare dove Chavez ha
trascorso gli ultimi giorni ad un grande raduno di commemorazione.
Nel centro della citta' e in altri quartieri molti negozianti hanno
chiuso le serrande. In molte delle strade nel centro e nell'area
dell'Hospital è comparso un fiume di gente. E anche nelle altre citta'
del paese sono stati migliaia i simpatizzanti del presidente a radunarsi
in centro, nelle 'Plaza Bolivar' che si trovano in lungo e in largo in
Venezuela.
Maria Gabriela Chavez, una delle figlie del presidente venezuelano ha
pubblicato un messaggio sul suo account di Twitter nel quale indica di
''seguire il suo esempio: dobbiamo continuare a costruire la Patria''.
Grandi dimostrazioni di solidarietà sono giunte da tutta l’America Latina.
Grandi dimostrazioni di solidarietà sono giunte da tutta l’America Latina.
"Un tetto, pane e diritti. Così Chavez ha mantenuto il patto con il popolo". gennarocarotenuto.it
Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia
della sinistra. È stato uno di quei dirigenti politici che segnano
un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria
grande latinoamericana. Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del
riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni
della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo
apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa,
in America latina, non era stata il trionfo della libertà come
nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta
nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la
carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei
mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai
latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali.
Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in
carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di Caracas per
ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez,
ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un
continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze
storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta,
è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire
diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati
indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran
democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio
restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70%
(49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore
populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato
affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca
scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000
medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico
in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque
abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre
lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a
partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto
un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero
democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante
«all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No,
Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto
ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia
sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida
disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i
patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con
ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce,
diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati
concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha
fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato
il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che
quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e
democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente
socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel
petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto
al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di
lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine
“riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace
pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale,
in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di
defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e
sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco
democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José
María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel
fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a
Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia
petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver
garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a
Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di
gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia. È troppo
facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un
Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che
mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive,
Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la
prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha
incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili
origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a
scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che
ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura
proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un
pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio
dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei
decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali
anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella
Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della
terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non
bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500
anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro
gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare
sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è
il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti
tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria
che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria Grande.
Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con
lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche
sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato
l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in
grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo
Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera
latinoamericana e che a Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero
il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare
l’intera America latina in una maquiladora al servizio della
competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA:
qualcosa d’impensabile.
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi
che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che
il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia
riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà;
ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani
hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non
voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta
divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come potenza
regionale ha percorso con successo vari esami di legittimazione. Il
processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro
all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice
restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il
segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve
termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un
leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà
misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte
rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti e
che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor
Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo
lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.
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