Recentemente il concetto di decrescita si è diffuso in
molti settori, dalla destra alla sinistra istituzionale[1] e persino fra la
sinistra radicale e comunista. La decrescita sembra, in apparenza, una risposta
ai mali dell’epoca attuale, dall’esaurimento delle risorse energetiche alla
crisi ecologica alla gestione dei rifiuti fino alla crisi economica. Il male
sarebbe l’eccesso di consumo. La soluzione, dunque, starebbe nel consumare di
meno. E per consumare di meno bisogna decrescere.
La crescita è così diventata il “cancro dell’umanità”. I teorici della decrescita non si limitano, dunque, a raccomandare maggiore attenzione al risparmio energetico, e ad eliminare sprechi e consumi inutili. I decrescisti propongono una visione complessiva della società, la “società della decrescita”, in alternativa non solo alla società attuale, ma anche alla prospettiva di una società socialista e al marxismo. Il fatto è che tale società della decrescita non solo non risolve il problemi che dovrebbe risolvere, essendo del tutto campata per aria, ma, mistificando le ragioni della presente crisi epocale, risulta addirittura funzionale alla conservazione dell’attuale assetto sociale. Dal momento che molti si fermano ad una conoscenza superficiale della teoria della decrescita, che sembra renderla sensata, è bene andare ai suoi fondamenti.
1. Pastorale decrescista, piccolo, agricolo e
locale è bello
Il
francese Serge Latouche, il più famoso e autorevole dei “decrescisti”, si
produce in uno sforzo di definire l’ideale di società della decrescita. Un
quadro invero idillico.
Il
primo principio della decrescita è il recupero dei valori borghesi
tradizionali, a partire dal ritorno al localismo o “rilocalizzazione”, in
evidente opposizione alla globalizzazione. La società dovrebbe diventare una
municipalità fatta di piccole municipalità autorganizzate in “bioregioni”,
autonome dal punto di vista alimentare e successivamente economico e
finanziario. Ci dovrà essere una restaurazione dell’economia contadina, con il
ritorno all’agricoltura e all’orticoltura, che saranno la base dell’economia di
ogni regione. La produzione sarà locale: “… produrre in massima parte a
livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione,
in imprese locali finanziate dal risparmio collettivo raccolto localmente.”[2]
Allo stesso modo, gli scambi dovranno essere limitati e locali:“… i
movimenti di merci e di capitali devono essere limitati all’indispensabile”[3]
e “bisognerà incoraggiare il commercio locale”[4]. Inoltre, “per
mantenere il potere d’acquisto degli abitanti, i flussi monetari dovrebbero
rimanere il più possibile nella regione e anche le decisioni economiche devono
essere prese il più possibile al livello regionale.”[5] A questo punto a
che serve una moneta nazionale? A nulla, infatti “bisogna pensare a
inventare della monete bioregionali”[6], che sostituiscano le monete
nazionali, eliminandone il monopolio statale.
Non vi ricorda niente tutto questo? Se a qualcuno ricorda «l’economia senza sbocchi»[7] del peggiore periodo medioevale, non si deve preoccupare, perché Latouche assicura che non sta proponendo l’autarchia, visto che si può (bontà sua!) commerciare con altre regioni, purché, beninteso, “abbiano fatto la stessa scelta [decrescista]”[8]. Non solo, si costituirà anche “una Organizzazione mondiale della localizzazione, il cui slogan deve essere «proteggere il locale globalmente»"[9].
Il secondo concetto su cui si dovrà basare la società della decrescita è quello di limitazione del consumo. Latouche se la prende in primis con il consumo turistico, l’emblema dello spreco. Citando Revel, il nostro rimpiange il bel tempo antico, quando sapevi quando partivi, ma non quando (e soprattutto se) ritornavi e quando “la maggior parte del tempo si rimaneva nello stesso posto, con i piedi ben piantati per terra. Un campanile al centro e l’orizzonte tutto intorno delimitano un territorio sufficiente per la vita di un uomo. (…) Non è necessario muoversi perché l’immaginazione spieghi le ali.”[10]. Tuttavia, poco male, eventualmente si può dare un aiutino tecnologico alla fantasia con la tecnologia, visto che si può “viaggiare virtualmente senza muoversi da casa”[11]. Quindi, per il futuro niente Ibiza o Rimini, al massimo un collegamento via internet. Subito dopo il nostro decrescista se la prende con le scarpe: “Innanzi tutto si tratta di stabilire se il benessere richiede necessariamente che si possiedano dieci paia di scarpe, spesso di cattiva qualità, piuttosto che due paia di buona qualità.” Ma chi e come risolverà il dilemma di decidere quante paia di scarpe a persona sono il giusto? Sarà la comunità stessa: “Io rispondo che i bisogni potrebbero essere stabiliti dall’insieme della comunità, la municipalità. Un’assemblea può dire: «due paia di scarpe bastano. Non avete bisogno di dieci paia».”[12]
Non vi ricorda niente tutto questo? Se a qualcuno ricorda «l’economia senza sbocchi»[7] del peggiore periodo medioevale, non si deve preoccupare, perché Latouche assicura che non sta proponendo l’autarchia, visto che si può (bontà sua!) commerciare con altre regioni, purché, beninteso, “abbiano fatto la stessa scelta [decrescista]”[8]. Non solo, si costituirà anche “una Organizzazione mondiale della localizzazione, il cui slogan deve essere «proteggere il locale globalmente»"[9].
Il secondo concetto su cui si dovrà basare la società della decrescita è quello di limitazione del consumo. Latouche se la prende in primis con il consumo turistico, l’emblema dello spreco. Citando Revel, il nostro rimpiange il bel tempo antico, quando sapevi quando partivi, ma non quando (e soprattutto se) ritornavi e quando “la maggior parte del tempo si rimaneva nello stesso posto, con i piedi ben piantati per terra. Un campanile al centro e l’orizzonte tutto intorno delimitano un territorio sufficiente per la vita di un uomo. (…) Non è necessario muoversi perché l’immaginazione spieghi le ali.”[10]. Tuttavia, poco male, eventualmente si può dare un aiutino tecnologico alla fantasia con la tecnologia, visto che si può “viaggiare virtualmente senza muoversi da casa”[11]. Quindi, per il futuro niente Ibiza o Rimini, al massimo un collegamento via internet. Subito dopo il nostro decrescista se la prende con le scarpe: “Innanzi tutto si tratta di stabilire se il benessere richiede necessariamente che si possiedano dieci paia di scarpe, spesso di cattiva qualità, piuttosto che due paia di buona qualità.” Ma chi e come risolverà il dilemma di decidere quante paia di scarpe a persona sono il giusto? Sarà la comunità stessa: “Io rispondo che i bisogni potrebbero essere stabiliti dall’insieme della comunità, la municipalità. Un’assemblea può dire: «due paia di scarpe bastano. Non avete bisogno di dieci paia».”[12]
Dopo la
via assembleare al socialismo, ecco qui la via assembleare alla riduzione dei
bisogni. Pensiamo a un’assemblea che, facciamo per dire, a Prato o a Canicattì
decida non solo quante scarpe ma quanto di tutte le migliaia di prodotti di cui
oggi disponiamo siano il giusto per ogni singolo e che soprattutto decida su
quali bisogni siano giusti e quali no. Esilarante! Qualche dubbio sulla
fattibilità della proposta si affaccia anche alla mente del genio decrescista,
che si chiede “Bisogna arrivare al razionamento?”[13] E rammenta il caso
di “un paese democratico, Il Regno Unito, che in condizioni d’emergenza è
stato in grado di accettare un programma di lacrime e sangue.”[14] Una prospettiva
democratica davvero…
Il
terzo concetto su cui si basa la società della decrescita è quello di riduzione
della durata del tempo di lavoro. Qui Latouche fa un po’ di confusione. In un
punto dice che tutti gli aumenti di produttività devono essere convertiti in
riduzioni del tempo di lavoro. Il che è logico. Tuttavia, il decrescista si
rende conto che il modello di società che auspica, fondato su produzione e
scambio su basi ristrette e sulla riduzione drastica dei consumi, implica la
riduzione della produttività, allungando il tempo di lavoro medio necessario
alla realizzazione dei prodotti.[15] Allora come arrivare alla riduzione del
tempo di lavoro? È semplice, disintossicandosi “dalla dipendenza da lavoro”[16],
prendendo la strada dell’autoproduzione, cosa che “alcuni sono già riusciti
a realizzare individualmente”. In definitiva, “lavorare meno e
diversamente può voler dire ritrovare il gusto del tempo libero, recuperare
l’abbondanza perduta delle società di raccoglitori-cacciatori …”[17] Se
prima il modello era l’economia feudale ora, decrescendo decrescendo, siamo
arrivati al neolitico, dove come ognun sa i nostri progenitori sguazzavano
nell’abbondanza. Ma lavorare meno non basta, bisogna anche poter cambiare
attività a seconda dei periodi della congiuntura o della vita personale. Quanto
a questo, siamo informati con sollievo da Latouche che, grazie alle agenzie
interinali, siamo sulla buona strada: “«Anche se attualmente esiste un
atteggiamento comprensibilmente ostile dei sindacati nei confronti delle
agenzie interinali, che sono invece popolari sia presso gli imprenditori sia
presso molti lavoratori – nel caso di questi ultimi proprio per la diversità
dei lavori che propongono – queste agenzie sono un passo nella direzione
giusta.» Basterebbe solo concepirle in modo diverso”.[18] I precari non
hanno di che lamentarsi.
Dopo aver delineato l’ideale società dell’avvenire, Latouche si chiede: la decrescita è facile o difficile da attuare, è riformista o rivoluzionaria? Di destra o di sinistra? Anche qui la confusione regna sovrana. Prima il nostro riconosce che “tutti i governi sono funzionari del capitale”[19] e che – citando ad esempio la vicenda di Allende – “l’uomo politico che cominciasse ad applicarlo [il programma decrescista], sarebbe assassinato nel giro di una settimana.”[20], visto che “spingendo alle estreme conseguenze queste misure un gran numero di attività non sarebbero più redditizie: il sistema si bloccherebbe. Si realizzerebbe così una vera e propria rivoluzione”.[21] Poi sostiene che “il passaggio può avvenire in modo indolore: l’importante è non transigere sugli obiettivi” e che, sebbene ci siano poche possibilità di mettere in pratica il programma decrescista senza un sovvertimento dell’esistente, si può operare per una “transizione dolce con misure molto progressive finalizzate alle riduzioni necessarie.”[22]
Dopo aver delineato l’ideale società dell’avvenire, Latouche si chiede: la decrescita è facile o difficile da attuare, è riformista o rivoluzionaria? Di destra o di sinistra? Anche qui la confusione regna sovrana. Prima il nostro riconosce che “tutti i governi sono funzionari del capitale”[19] e che – citando ad esempio la vicenda di Allende – “l’uomo politico che cominciasse ad applicarlo [il programma decrescista], sarebbe assassinato nel giro di una settimana.”[20], visto che “spingendo alle estreme conseguenze queste misure un gran numero di attività non sarebbero più redditizie: il sistema si bloccherebbe. Si realizzerebbe così una vera e propria rivoluzione”.[21] Poi sostiene che “il passaggio può avvenire in modo indolore: l’importante è non transigere sugli obiettivi” e che, sebbene ci siano poche possibilità di mettere in pratica il programma decrescista senza un sovvertimento dell’esistente, si può operare per una “transizione dolce con misure molto progressive finalizzate alle riduzioni necessarie.”[22]
Del
resto, le misure riformiste della decrescita “in linea di principio sono
compatibili con la teoria economica ortodossa: l’economista liberista Cecil
Pigou ne ha enunciato i fondamenti già all’inizio del XX secolo!”[23]
Successivamente, con profonda saggezza, riconosce che compito del politico è la
ricerca del male minore e “contenere il male all’interno dell’orizzonte del
bene comune”. Latouche è – come Veltroni – un teorico del “ma anche”.
La decrescita è difficile ma anche facile ad attuarsi, rivoluzionaria ma anche
riformista, visto che la decrescita è compatibile con l’economia liberista.
Allo stesso modo è ambigua la posizione sulla distinzione destra-sinistra, che
colloca la teoria della decrescita all’interno di quel filone di pensiero che
tende a superarne la distinzione. Sebbene Latouche dichiari che il buon
decrescista preferisce la Royal a Sarkozy, Prodi a Berlusconi, Schröder alla
Merkel e Blair alla Thatcher, riconosce che “la critica radicale della
destra alla modernità si è spinta più avanti a destra che a sinistra”. Su
questo non c’è dubbio, visto che il pensiero di estrema destra (e fascista) da
deMaistre in poi ha attaccato la modernità, a partire da quell’obbrobrio
modernista che è stata, a partire dalla Rivoluzione francese, la democrazia di
massa. La decrescita, per l’appunto, “è un «superamento, se possibile senza
eccessivi traumi, della modernità”.[24] Al contrario, il difetto della
sinistra estrema e del marxismo in particolare, secondo i decrescisti, sarebbe di
aver accettato la modernità.
2. La decrescita, teoria regressiva e
mistificante
La
teoria della decrescita è un guazzabuglio contraddittorio che, se preso sul
serio, propugnerebbe una regressione della società a livelli primitivi.
Regressioni di questi livelli sono avvenute nella storia solo in occasione di
grandi stravolgimenti traumatici, come nel caso della caduta dell’Impero romano
d’Occidente. Pensiamo, infatti, che lo sviluppo della società è legato allo
sviluppo della divisione del lavoro, che implica la creazione di branche di
produzione differenziate in rapporto tra di loro, e l’ampliamento del commercio
tra paesi diversi. Ciò ha permesso la riduzione del tempo necessario alla
produzione dei beni che consumiamo (non solo quelli superflui ma anche quelli
necessari) e quindi la loro maggiore disponibilità, grazie alla quale milioni
di individui sono usciti dalla povertà e hanno ampliato i loro bisogni al di là
della semplice sussistenza. Un’economia sostanzialmente agricola e locale,
basata sull’autosufficienza, e con scambi limitati al suo interno non
produrrebbe una società che consuma di meno, determinerebbe soprattutto il
collasso demografico e sociale. Come potrebbero centinaia di milioni di europei
accettare la riduzione non solo del consumo ma addirittura dei bisogni come
prospettato da Latouche?
Qui, c’è addirittura una confusione tra consumo e bisogno. Il nutrirsi è un bisogno, soddisfare tale bisogno attraverso un piatto di pasta al sugo o ingozzandosi di hot dog ipercalorici è consumo. Pensare di comprimere l’universalità dei bisogni vuol dire comprimere lo sviluppo degli individui per come si è storicamente evoluto. Più che di un’utopia, siamo in presenza di un pensiero antistorico e regressivo. E niente affatto nuovo se guardiamo al “socialismo reazionario”, ideologia della piccola borghesia, così definito da Marx nel 1848: “Tuttavia, quanto al suo contenuto positivo, questo socialismo o vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, o vuole rinchiudere di nuovo, con la forza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li han fatti saltare in aria, che non potevano non farli saltare per aria. In entrambi i casi esso è insieme reazionario e utopistico. Corporazioni nella manifattura e economia patriarcale nelle campagne: ecco la sua ultima parola”.[25]
Qui, c’è addirittura una confusione tra consumo e bisogno. Il nutrirsi è un bisogno, soddisfare tale bisogno attraverso un piatto di pasta al sugo o ingozzandosi di hot dog ipercalorici è consumo. Pensare di comprimere l’universalità dei bisogni vuol dire comprimere lo sviluppo degli individui per come si è storicamente evoluto. Più che di un’utopia, siamo in presenza di un pensiero antistorico e regressivo. E niente affatto nuovo se guardiamo al “socialismo reazionario”, ideologia della piccola borghesia, così definito da Marx nel 1848: “Tuttavia, quanto al suo contenuto positivo, questo socialismo o vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, o vuole rinchiudere di nuovo, con la forza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li han fatti saltare in aria, che non potevano non farli saltare per aria. In entrambi i casi esso è insieme reazionario e utopistico. Corporazioni nella manifattura e economia patriarcale nelle campagne: ecco la sua ultima parola”.[25]
Perché
allora il successo trasversale della teoria della decrescita e quali interessi
rappresenta più o meno dichiaratamente? Dal punto di vista ideologico, la
teoria decrescista si inserisce in quella parte del filone ecologista,
affermatosi negli ultimi trenta anni in Europa occidentale, che alla centralità
del rapporto/sfruttamento dell’uomo sull’uomo sostituisce quella del
rapporto/sfruttamento dell’uomo sulla natura. Dal punto di vista sociale, la
teoria decrescista rappresenta idealmente sia settori di piccola borghesia intellettuale
sia settori di piccola e media proprietà capitalistica e di lavoro autonomo
messi in difficoltà dalle trasformazioni dell’economia capitalistica degli
ultimi lustri. L’insistenza da parte di Latouche sul piccolo commercio
distrutto dalla grande distribuzione, sulla piccola produzione e soprattutto
sulla agricoltura locale – ricordiamo la forza politica degli agricoltori in
Francia –, messe in difficoltà dalla globalizzazione, è significativa.
Nello stesso tempo la teoria decrescita è innocua se non addirittura funzionale al capitale. In primo luogo, la rivendicazione della necessità della riduzione dei consumi risulta a dir poco curiosa in un periodo storico in cui settori sempre più larghi di classe salariata dei paesi cosiddetti ricchi stanno già subendo da almeno vent’anni una decrescita dei loro consumi, dovuta alla riduzione del salario reale, per la perdita di potere negoziale nei confronti del capitale.[26] Una decrescita questa tutt’altro che spontanea, ma determinata dal meccanismo di funzionamento del capitale e dall’attacco al salario condotto dalle imprese. Con la crisi è piovuto sul bagnato. Secondo l’Istat i poveri in Italia nel 2009 erano 7,8 milioni, pari al 13,1% dell’intera popolazione.[27] Secondo Eurostat 81 milioni di europei (17% del totale Ue a 27) nel 2008 erano al di sotto della soglia minima di povertà, in Spagna il 19,6% della popolazione, nel Regno Unito il 18,8%, in Italia il 18,7%, in Germania il 15,2%, in Francia il 13,1%. A questi si aggiungono 42 milioni di europei (4%) che non sono in grado di pagare le bollette dei servizi essenziali.
Nello stesso tempo la teoria decrescita è innocua se non addirittura funzionale al capitale. In primo luogo, la rivendicazione della necessità della riduzione dei consumi risulta a dir poco curiosa in un periodo storico in cui settori sempre più larghi di classe salariata dei paesi cosiddetti ricchi stanno già subendo da almeno vent’anni una decrescita dei loro consumi, dovuta alla riduzione del salario reale, per la perdita di potere negoziale nei confronti del capitale.[26] Una decrescita questa tutt’altro che spontanea, ma determinata dal meccanismo di funzionamento del capitale e dall’attacco al salario condotto dalle imprese. Con la crisi è piovuto sul bagnato. Secondo l’Istat i poveri in Italia nel 2009 erano 7,8 milioni, pari al 13,1% dell’intera popolazione.[27] Secondo Eurostat 81 milioni di europei (17% del totale Ue a 27) nel 2008 erano al di sotto della soglia minima di povertà, in Spagna il 19,6% della popolazione, nel Regno Unito il 18,8%, in Italia il 18,7%, in Germania il 15,2%, in Francia il 13,1%. A questi si aggiungono 42 milioni di europei (4%) che non sono in grado di pagare le bollette dei servizi essenziali.
Le
prospettive future, specie per le prossime generazioni sono pessime, visto che
per la prima volta da almeno un secolo a questa parte il progresso
generazionale si è interrotto, e i figli saranno più poveri dei genitori. Con
la novità che oggi non si è poveri soltanto se non si ha lavoro, si è poveri
spesso anche se lo si ha. Un dato di fatto che i giovani scesi in piazza a
Roma, Londra, Parigi e Atene hanno ben chiaro. Le parole di Napolitano, rivolte
l’ultimo dell’anno proprio ai giovani, appaiono un mesto invito a rassegnarsi a
una inevitabile decrescita dei consumi, o, più precisamente, della
soddisfazione dei bisogni: “Il sogno di un continuo progredire del
benessere, ai ritmi e ai modi del passato è per noi occidentali non più
possibile”. La “decrescita” è dunque già in atto nei paesi avanzati, Europa
Occidentale in primis, che da un decennio o crescono lentamente o decrescono.
Il punto è che i profitti continuano ad esserci e i ricchi sono sempre più
ricchi, consumando sempre di più. Se questo accade è proprio perché il salario
diretto (in busta paga) e indiretto (il welfare state) è ridotto a favore del
profitto e la soddisfazione dei bisogni è impedita a milioni di salariati. Perché
il prezzo della forza lavoro, il salario, viene compresso al di sotto del
valore della forza lavoro stessa, cioè al di sotto dell’insieme dei prodotti
che rientrano nei livelli di consumo standard del lavoratore.
Soltanto
per poter mantenere il livello precedente bisogna lavorare più a lungo e più
intensamente, sempre che il lavoro, con i tassi di disoccupazione che
aumentano, ci sia. In un quadro siffatto la liberazione dal lavorismo e
dall’eccesso di consumo dei decrescisti acquista il sapore amaro di una beffa.
Dunque, il problema non è la crescita in astratto ma a favore di chi va questa
crescita. Non è il quanto si produce ma il come e a quale scopo si produce ad
essere centrale. L’errore decrescista sta alla base. Nel capitalismo la
produzione di merci è subordinata alla produzione di profitto. Non la
produzione di merci, ma la produzione e l’appropriazione privata di profitto è
lo scopo e il motore di tutto il meccanismo. A dover essere messo sotto
osservazione è, quindi, il modo di produzione, ovvero il modo in cui gli uomini
entrano in rapporto tra di loro per garantire la propria riproduzione,
dividendosi in due classi, una che produce un'eccedenza non retribuita, il
plusvalore, e l’altra che si appropria di tale eccedenza.
È proprio su questo terreno che la teoria decrescista si rifiuta pervicacemente di andare. Coerentemente con la sua natura antistorica, la decrescita nega l’esistenza di un soggetto “agente” del capitale: “In realtà oggi dare un volto all’avversario è problematico, perché le realtà economiche come le imprese multinazionali, che detengono il vero potere, sono per natura nell’impossibilità di esercitare questo potere direttamente.”[28] E altrettanto nega l’esistenza di un soggetto che possa trasformare la realtà: “non è più necessaria una classe rivoluzionaria (…) la lotta di classe è finita, i lavoratori salariati non costituiscono (più) una classe rivoluzionaria”.[29]
Di conseguenza, il punto non è il capitalismo: “«uscire dal capitalismo» questa è una formula comoda per indicare un processo storico che è tutto tranne che semplice: l’eliminazione dei capitalisti, l’interdizione della proprietà privata dei mezzi di produzione (…) precipiterebbe la società nel caos e sarebbero realizzabili soltanto con un terrorismo generalizzato …”[30]. Se la teoria della decrescita nega che il capitalismo sia superabile, allo stesso tempo sostiene che il socialismo non è auspicabile: “capitalismo più o meno liberista e socialismo produttivista sono due varianti di uno stesso progetto di società della crescita, fondato sullo sviluppo delle forze produttive …”.[31] Marx si sarebbe occupato soltanto di predicare una diversa distribuzione dei frutti della crescita, e non ne avrebbe considerato i limiti ecologici: “Il marxismo si inserisce nella tradizione occidentale e cristiana di un rapporto non armonioso tra l’uomo e l’ambiente vivente e non vivente.”[32]
È proprio su questo terreno che la teoria decrescista si rifiuta pervicacemente di andare. Coerentemente con la sua natura antistorica, la decrescita nega l’esistenza di un soggetto “agente” del capitale: “In realtà oggi dare un volto all’avversario è problematico, perché le realtà economiche come le imprese multinazionali, che detengono il vero potere, sono per natura nell’impossibilità di esercitare questo potere direttamente.”[28] E altrettanto nega l’esistenza di un soggetto che possa trasformare la realtà: “non è più necessaria una classe rivoluzionaria (…) la lotta di classe è finita, i lavoratori salariati non costituiscono (più) una classe rivoluzionaria”.[29]
Di conseguenza, il punto non è il capitalismo: “«uscire dal capitalismo» questa è una formula comoda per indicare un processo storico che è tutto tranne che semplice: l’eliminazione dei capitalisti, l’interdizione della proprietà privata dei mezzi di produzione (…) precipiterebbe la società nel caos e sarebbero realizzabili soltanto con un terrorismo generalizzato …”[30]. Se la teoria della decrescita nega che il capitalismo sia superabile, allo stesso tempo sostiene che il socialismo non è auspicabile: “capitalismo più o meno liberista e socialismo produttivista sono due varianti di uno stesso progetto di società della crescita, fondato sullo sviluppo delle forze produttive …”.[31] Marx si sarebbe occupato soltanto di predicare una diversa distribuzione dei frutti della crescita, e non ne avrebbe considerato i limiti ecologici: “Il marxismo si inserisce nella tradizione occidentale e cristiana di un rapporto non armonioso tra l’uomo e l’ambiente vivente e non vivente.”[32]
La
solita e falsa critica di certi ecologisti, che basta una lettura seria de Il
capitale per smentire: “… ogni progresso compiuto nell’agricoltura capitalistica
equivale a un progresso non solo nell’arte di derubare l’operaio, ma anche in
quella di spogliare la terra, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un
certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle costanti
sorgenti di tale fertilità.”[33] E ancora: “La grande industria e la
grande agricoltura (…) più tardi si danno la mano, in quanto il sistema
industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai e l’industria e
il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare
la terra.”[34] Il socialismo non è considerato solo un modo per eliminare
lo sfruttamento dell’uomo, ma anche per costruire un diverso ed equo rapporto
dell’uomo con la natura.
Lo sviluppo dei bisogni umani è concepibile solo entro queste condizioni: “La libertà in questa sfera [lo sviluppo dei bisogni nel socialismo] può consistere solo in ciò che l’uomo socializzato, vale a dire i produttori associati, regolano in maniera razionale questo ricambio organico con la natura, lo controllano in comune invece di essere dominati come forza cieca; che essi svolgono la loro funzione con lo spreco quanto più basso di energia e nelle condizioni più adatte alla loro natura umana e ad essa più conformi.”[35] Il marxismo è la forma più conseguente di ecologismo, perché va alla radice comune dello sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, unificandone la critica e le modalità di superamento. Viceversa la teoria della decrescita appare funzionale al capitalismo nella misura in cui toglie il capitale dal centro della scena economico-sociale sostituendolo con la decrescita. Nella pratica la montagna decrescista produce il topolino delle “tecnologie della decrescita”, “una rivoluzione ed un salto culturale”, secondo Pallante, presidente del movimento della decrescita felice, sicuramente una felice occasione di nuovo profitto per le imprese.[36]
3. I decrescisti italiani e il “recupero” di Marx
Lo sviluppo dei bisogni umani è concepibile solo entro queste condizioni: “La libertà in questa sfera [lo sviluppo dei bisogni nel socialismo] può consistere solo in ciò che l’uomo socializzato, vale a dire i produttori associati, regolano in maniera razionale questo ricambio organico con la natura, lo controllano in comune invece di essere dominati come forza cieca; che essi svolgono la loro funzione con lo spreco quanto più basso di energia e nelle condizioni più adatte alla loro natura umana e ad essa più conformi.”[35] Il marxismo è la forma più conseguente di ecologismo, perché va alla radice comune dello sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, unificandone la critica e le modalità di superamento. Viceversa la teoria della decrescita appare funzionale al capitalismo nella misura in cui toglie il capitale dal centro della scena economico-sociale sostituendolo con la decrescita. Nella pratica la montagna decrescista produce il topolino delle “tecnologie della decrescita”, “una rivoluzione ed un salto culturale”, secondo Pallante, presidente del movimento della decrescita felice, sicuramente una felice occasione di nuovo profitto per le imprese.[36]
3. I decrescisti italiani e il “recupero” di Marx
L’Italia
si è spesso dimostrata pronta nell’accogliere le buone idee d’oltralpe, e anche
nel caso della decrescita c’è stato chi s’è dato da fare. Tra questi si sono
distinti per l’originalità del loro contributo Massimo Bontempelli e Marino
Badiale (d’ora in avanti B&B), il quale ultimo ha già avuto modo di
dimostrare le sue alte capacità dialettiche dichiarando l’inattualità
dell’antifascismo e la necessità di un dialogo tra le minoranze antisistema,
tra comunisti e fascisti.[37] Creativi come solo noi italiani sappiamo essere,
B&B non si sono certo limitati a prendere le teoria della decrescita così
com’è, ma hanno pensato di effettuare una sintesi tra Marx e la decrescita,
visto che: “coloro che seguono le teorie della decrescita hanno bisogno
della decrescita, la decrescita ha bisogno di Marx.”[38] Per farlo i nostri
si sono prodotti, più che in un recupero di Marx, in un impegno più arduo, la
revisione dell’intero pensiero di Marx. Infatti, il loro lavoro più che teso
alla diffusione delle idee decresciste, appare coraggiosamente concentrato
nell’esercizio di alcune critiche, per la verità già note, al barbuto di Treviri
e ai suoi amici e seguaci.
La prima è quella secondo cui il marxismo – come movimento ideologico e politico – sarebbe il prodotto di Engels più che di Marx, caratterizzandosi per una impostazione antidialettica, positivista e scientista. Ma anche con Marx non è che vada tutto liscio. Il suo pensiero viene diviso in tre parti: materialismo storico, teoria del modo di produzione capitalistico, e teoria della rivoluzione comunista.
La prima è quella secondo cui il marxismo – come movimento ideologico e politico – sarebbe il prodotto di Engels più che di Marx, caratterizzandosi per una impostazione antidialettica, positivista e scientista. Ma anche con Marx non è che vada tutto liscio. Il suo pensiero viene diviso in tre parti: materialismo storico, teoria del modo di produzione capitalistico, e teoria della rivoluzione comunista.
Il
materialismo storico è “una metafisica senza fondamento”. B&B da
tempo (ma da quando? Boh!) hanno capito, grazie ad una lunga ricognizione
storica, che non solo il proletariato ma nessuna classe sfruttata della storia
ha potuto determinare il passaggio da un modo di produzione all’altro. Schiavi,
contadini, servi della gleba al massimo hanno fatto delle belle ribellioni, ma
niente di più. Per i moderni proletari è lo stesso. Il loro essere sfruttati
implica la lotta economica ma non il superamento del modo di produzione.
Tuttavia, niente paura. C’è ancora chi combatte per il superamento del
capitalismo. Di chi si tratta? Si tratta delle “proteste popolari contro le
grandi opere che devastano il territorio”, che per B&B sarebbero esempi
di lotta contro lo sviluppo e per la decrescita. Purtroppo, ammettono B&B,
nulla è perfetto e anche tra tali movimenti c’è chi si ostina a non avere una
coscienza antisistema e “aderisce alla lotta per motivi puramente «locali»”,
esprimendo quella che viene definita “sindrome Nimby” (not in my
backyard). Ma a tutto c’è rimedio e “il compito di una forza politica
anticapitalista sarebbe quello di collegare e coordinare tali lotte.” Del
resto, “occorre distinguere, come sempre si è fatto nella tradizione
marxista, tra potenziale oggettivo delle lotte e coscienza soggettiva dei
protagonisti stessi”.
Ma perché quest’intervento politico e ideologico dall’esterno nelle lotte dovrebbe funzionare per chi lotta contro l’alta velocità o gli inceneritori e non per chi viene licenziato o sfruttato in fabbrica? Ecco qui che salta fuori la scoperta di B&B: il “capitalismo assoluto”, nel quale “tutte la sfere della società sono sussunte alla logica dell’accumulazione capitalistica”. Di conseguenza, tutte le lotte di cui sopra “hanno un contenuto oggettivamente anticapitalistico…mettono in discussione l’accumulazione del plusvalore e quindi la sostanza dell’accumulazione”. Al contrario delle lotte tradizionali dei lavoratori, “le resistenze alle quali facciamo riferimento tendono fin dal loro primo manifestarsi a contestare immediatamente lo sviluppo capitalistico.” Inoltre, “Le lotte anticapitalistiche del passato erano strettamente collegate ad una classe sociale. (…) Nelle resistenze capitalistiche attuali … Il soggetto antagonista … si costituisce in una prassi trasversale a diversi gruppi sociali … la resistenza capitalistica è oggi «resistenza umana»”.
Se il materialismo storico è una mistica, con la teoria della rivoluzione andiamo ancora peggio. “Si tratta di una irrealtà di cui non vale neanche la pena di discutere”, che solo “pochi sacerdoti del Vero Comunismo chiusi nelle loro sette” si ostinano a perseguire. In Occidente “la rivoluzione comunista non esiste come prospettiva reale da circa ottant’anni a questa parte”, tagliano corto B&B. Ma allora il PCI? “Partiti come il PCI, comunisti di nome, non avevano nulla a che fare con la prospettiva di rivoluzione comunista”. Ma se Atene piange Sparta non ride. Anche i riformisti socialdemocratici non devono illudersi. Una politica “riformista” centrata sui consumi popolari richiederebbe di spezzare un forte coagulo di forze. “Questo equivale a un grande sconvolgimento sociale”, per il quale “non sono disponibili forze sociali, (…) i lavoratori sono ricattati dalle delocalizzazioni, messi in concorrenza con la forza lavoro immigrata …”. Inoltre il modello riformista di una lotta per i consumi popolari “si basa sullo sviluppo” e questo va contro la decrescita …
Passiamo ora alla teoria del modo di produzione. Se c’è qualche sacerdote del Vero Comunismo che sta leggendo e che a questo punto pensi di rilassarsi, se lo scordi. Sebbene B&B abbiano assicurato che all’interno del pensiero di Marx “solo la teoria del modo di produzione capitalistico ha oggi una valenza”, non tutto va bene. Infatti, anche qui c’ha messo lo zampino quel briccone di Engels, che, avendo curato la pubblicazione del libro II e III del Capitale dopo la morte dell’amico, avrebbe “costruito” l’esposizione della teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto, a cui viene fatto risalire quella che sarebbe erroneamente la contraddizione fondamentale, quella tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione capitalistici. Interpreti del vero Marx, B&B ritengono viceversa che “il capitale non produce affatto la stagnazione dello sviluppo delle forze produttive, ma produce al contrario il loro sviluppo”, determinando di conseguenza un eccesso di produzione da cui deriva una scarsità di domanda, la quale produrrebbe le crisi di sovrapproduzione come quella del ‘29. Oggi però “esistono i mezzi che permettono di aggirare questo problema.” Quali? Il consumo crescente di merci, che determina la devastazione della natura, il cui sfruttamento è “condizione per la creazione del plusvalore”. Ecco perché le lotte contro la devastazione della natura e contro le grandi opere “rappresentano l’esplicitarsi della contraddizione fondamentale del capitalismo.” E soprattutto ecco perché “la decrescita rappresenta l’unica prospettiva odierna di lotta anticapitalistica nei paesi occidentali”. Una decrescita che si fondi sulla sviluppo della manutenzione del Paese, sull’estensione della piccola produzione indipendente, su una politica di estesi servizi pubblici. A questo punto qualcuno comincerà a chiedersi quale sarebbe il contributo che Marx darebbe alla decrescita. Secondo B&B starebbe nel fatto che l’affermazione della futura società dei manutentori non sarà né serena né felice, perché chi detiene il potere economico vi si opporrà ferocemente. Su come risolvere questa quisquilia i nostri non ci dicono nulla. A parte il fatto che la lotta per la decrescita disarticolerà l’intera società.
Ma perché quest’intervento politico e ideologico dall’esterno nelle lotte dovrebbe funzionare per chi lotta contro l’alta velocità o gli inceneritori e non per chi viene licenziato o sfruttato in fabbrica? Ecco qui che salta fuori la scoperta di B&B: il “capitalismo assoluto”, nel quale “tutte la sfere della società sono sussunte alla logica dell’accumulazione capitalistica”. Di conseguenza, tutte le lotte di cui sopra “hanno un contenuto oggettivamente anticapitalistico…mettono in discussione l’accumulazione del plusvalore e quindi la sostanza dell’accumulazione”. Al contrario delle lotte tradizionali dei lavoratori, “le resistenze alle quali facciamo riferimento tendono fin dal loro primo manifestarsi a contestare immediatamente lo sviluppo capitalistico.” Inoltre, “Le lotte anticapitalistiche del passato erano strettamente collegate ad una classe sociale. (…) Nelle resistenze capitalistiche attuali … Il soggetto antagonista … si costituisce in una prassi trasversale a diversi gruppi sociali … la resistenza capitalistica è oggi «resistenza umana»”.
Se il materialismo storico è una mistica, con la teoria della rivoluzione andiamo ancora peggio. “Si tratta di una irrealtà di cui non vale neanche la pena di discutere”, che solo “pochi sacerdoti del Vero Comunismo chiusi nelle loro sette” si ostinano a perseguire. In Occidente “la rivoluzione comunista non esiste come prospettiva reale da circa ottant’anni a questa parte”, tagliano corto B&B. Ma allora il PCI? “Partiti come il PCI, comunisti di nome, non avevano nulla a che fare con la prospettiva di rivoluzione comunista”. Ma se Atene piange Sparta non ride. Anche i riformisti socialdemocratici non devono illudersi. Una politica “riformista” centrata sui consumi popolari richiederebbe di spezzare un forte coagulo di forze. “Questo equivale a un grande sconvolgimento sociale”, per il quale “non sono disponibili forze sociali, (…) i lavoratori sono ricattati dalle delocalizzazioni, messi in concorrenza con la forza lavoro immigrata …”. Inoltre il modello riformista di una lotta per i consumi popolari “si basa sullo sviluppo” e questo va contro la decrescita …
Passiamo ora alla teoria del modo di produzione. Se c’è qualche sacerdote del Vero Comunismo che sta leggendo e che a questo punto pensi di rilassarsi, se lo scordi. Sebbene B&B abbiano assicurato che all’interno del pensiero di Marx “solo la teoria del modo di produzione capitalistico ha oggi una valenza”, non tutto va bene. Infatti, anche qui c’ha messo lo zampino quel briccone di Engels, che, avendo curato la pubblicazione del libro II e III del Capitale dopo la morte dell’amico, avrebbe “costruito” l’esposizione della teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto, a cui viene fatto risalire quella che sarebbe erroneamente la contraddizione fondamentale, quella tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione capitalistici. Interpreti del vero Marx, B&B ritengono viceversa che “il capitale non produce affatto la stagnazione dello sviluppo delle forze produttive, ma produce al contrario il loro sviluppo”, determinando di conseguenza un eccesso di produzione da cui deriva una scarsità di domanda, la quale produrrebbe le crisi di sovrapproduzione come quella del ‘29. Oggi però “esistono i mezzi che permettono di aggirare questo problema.” Quali? Il consumo crescente di merci, che determina la devastazione della natura, il cui sfruttamento è “condizione per la creazione del plusvalore”. Ecco perché le lotte contro la devastazione della natura e contro le grandi opere “rappresentano l’esplicitarsi della contraddizione fondamentale del capitalismo.” E soprattutto ecco perché “la decrescita rappresenta l’unica prospettiva odierna di lotta anticapitalistica nei paesi occidentali”. Una decrescita che si fondi sulla sviluppo della manutenzione del Paese, sull’estensione della piccola produzione indipendente, su una politica di estesi servizi pubblici. A questo punto qualcuno comincerà a chiedersi quale sarebbe il contributo che Marx darebbe alla decrescita. Secondo B&B starebbe nel fatto che l’affermazione della futura società dei manutentori non sarà né serena né felice, perché chi detiene il potere economico vi si opporrà ferocemente. Su come risolvere questa quisquilia i nostri non ci dicono nulla. A parte il fatto che la lotta per la decrescita disarticolerà l’intera società.
4.
Socialismo versus decrescita
B&B,
rivelando una notevole ignoranza del marxismo, ne fanno una caricatura, che
risulta deleteria non tanto per l’ortodossia quanto – ed è molto più importante
– per una effettiva comprensione della realtà e per la definizione di una
prassi anticapitalista efficace. Ma cerchiamo di rispondere alle critiche di
B&B sui vari punti sollevati.
A) La
concezione materialistica della storia. A differenza di quanto pretendono B&B, tale
concezione non dice che nella storia le classi sfruttate hanno preso il potere
abolendo il sistema di sfruttamento vigente. Dice qualcosa di un po’ diverso, e
cioè che l’esistenza delle classi sociali e quindi lo sfruttamento e il dominio
non possono essere eliminati finché sono funzionali allo sviluppo delle forze
produttive della società. E dice anche che è solo con l’avvento del capitalismo
che si determinano le basi materiali affinché la classe sfruttata possa abolire
lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Inoltre, va precisato che il marxismo non
ha mai inteso dire che sulla base della semplice condizione di sfruttamento
economico si potesse avviare una presa di coscienza del superamento del sistema
capitalistico. Come evidenzia Lenin, spontaneamente la classe lavoratrice
sviluppa una coscienza di tipo sindacalistico, parziale e difensiva delle
proprie condizioni di vita. La coscienza politica di classe è portata “dall’esterno
della lotta economica, dall’esterno dei rapporti tra padroni e operai. Il campo
dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di
tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il
governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi.”[39] Lenin
sviluppa la riflessione di Marx, che, al momento della fondazione
dell’Internazionale, ricordava: “la conquista del potere politico è divenuta
il grande dovere della classe operaia”[40]. Solo con la conquista dello
Stato si possono trasformare i rapporti di produzione e di proprietà. Lo Stato,
espressione concentrata del potere nella società, è invece completamente
ignorato nelle elaborazioni decresciste. Ma è tutta la questione del potere ad
essere ignorata, compresa la necessità di modificare i rapporti di forza tra
classi subalterne e capitale anche all’interno dello stato di cose presenti.
B) La
teoria della rivoluzione. La
lotta passa da economica, e cioè parziale, a politica, e cioè generale, quando
attacca e modifica i rapporti di forza complessivi fra le classi, investendo
anche lo Stato e le sue leggi. Per questa ragione non è possibile parlare di
lotte parziali che siano immediatamente anticapitalistiche. E questo vale anche
per le lotte in difesa del territorio o contro le grandi opere. A questo
proposito, la concezione di B&B sembra una riedizione fuori tempo massimo
dell’”operaismo” degli anni ’70, allorché erano le lotte operaie ad essere
considerate immediatamente rivoluzionarie. L’invenzione di un “capitalismo
assoluto”, che giustificherebbe l’immediato anticapitalismo delle lotte contro
lo sfruttamento naturale, si basa su una inesistente centralità dello
sfruttamento della natura nella produzione del plusvalore e quindi del
profitto. La natura, oggi come trenta anni fa, non produce plusvalore, è
l’uomo, nella fattispecie il salariato impiegato dal capitale, a produrlo. Di
conseguenza, se non si coinvolgono i lavoratori, non c’è possibilità di
sovvertimento del capitalismo. Come l’operaismo anche i nostri decrescisti
sottovalutano la necessità del partito, che è invece centrale sia perché la
lotta avviene sul terreno politico, sia perché solo il partito può collegare e
permettere che le diverse lotte parziali assumano una comune direzione.
Definire
insignificante la storia dei partiti comunisti dei paesi occidentali negli
ultimi ottanta anni, come fanno B&B, vuol dire non conoscere la storia.
Partiti comunisti di massa si sono affermati in Occidente non solo in Italia,
dove il PCI nel dopoguerra è stato il secondo partito per decenni, ma anche in
Germania, dove il DKP fu prima distrutto dal nazismo (per i suoi militanti
furono inaugurati i campi di sterminio) e poi messo fuori legge dal governo
della Germania “democratica”e in Francia, dove il PCF fu decisivo per la
vittoria del “fronte popolare” nel ’36 e subito dopo la Seconda guerra mondiale
fu il primo partito, per essere successivamente messo all’angolo da leggi
antidemocratiche e dal colpo di stato gollista[41]. Partiti comunisti sono
stati importanti e sono tutt’ora presenti in modo consistente in Giappone,
Grecia, Portogallo, Repubblica Ceca, ecc. Superficiale, poi, è la lettura della
lunga e complessa storia del PCI, giudicato come partito comunista solo di
nome, non considerando che il partito finale di Occhetto era diverso da quello
di Berlinguer, e che questo a sua volta era diverso dal PCI di Longo e di
Togliatti. Il PCI poi era da considerarsi talmente poco comunista, da renderlo
oggetto di una conventio ad excludendum tale da arrivare fino a “Gladio”, alla
“strategia della tensione” e a una lunga serie di stragi sanguinose, ancora
oggi impunite. La spinta anticapitalista delle classi subalterne in Occidente è
stata molto forte in diversi momenti degli ultimi ottanta anni, rendendo
necessario allo Stato e alla classe dominante fare appello a tutte le risorse e
ai metodi legali e illegali possibili, per farvi fronte.
C)
Teoria del modo di produzione. La cantonata maggiore B&B la prendono sulla
teoria del modo di produzione e nella fattispecie nella spiegazione delle
crisi. Per loro la crisi è dovuta a sottoconsumo, o, in altri termini, a una
sovrapproduzione di merci. Il capitalismo, teso verso l’accumulazione senza
limiti, produrrebbe troppe merci che non riescono ad essere assorbite dal
mercato. Secondo B&B questa contraddizione si sarebbe risolta con la
crescita dei consumi, che determina l’esaurimento delle risorse naturali che,
in questo modo, diverrebbe la contraddizione fondamentale. Peccato che tale
interpretazione cozza con la realtà, visto che negli ultimi anni si sono
prodotte crisi sempre più profonde fino a quella del 2008, che per intensità è
stata paragonata a quella del ’29, nonostante il forte sostegno artificiale
alla domanda, che ha prodotto un enorme debito privato delle famiglie in tutti
i paesi capitalisticamente più avanzati. Il vero punto debole del meccanismo
dell’accumulazione, infatti, non è la scarsità della domanda, ma il declino
della redditività degli investimenti, che si manifesta nella tendenza alla
caduta del saggio di profitto. La produzione capitalistica può anche estendersi
quantitativamente quanto si vuole, nel tentativo di supplire a tale caduta, ma
ciò non impedisce che ogni capitale aggiuntivo investito abbia un rendimento
decrescente. In poche parole, la crisi non deriva da una sovrapproduzione (o
sottoconsumo) di merci. Deriva viceversa da una sovrapproduzione di capitale.
Come dice Marx: “Il vero limite della produzione capitalistica è proprio il
capitale, cioè è che il capitale e la sua auto valorizzazione si presentano
come punto di partenza e punto di arrivo (…) che la produzione è produzione per
il capitale, e non invece i mezzi di produzione sono semplice mezzi per
l’allargamento del processo vitale per la società dei produttori (… ) Lo
sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali entra costantemente in
conflitto con lo scopo limitato, la valorizzazione del capitale esistente. Se
dunque, il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per lo sviluppo
della forza produttiva materiale … è allo stesso tempo la costante
contraddizione tra questo suo scopo dato dalla storia e i rapporti di
produzione sociali ad esso corrispondenti.”[42] Se lo sviluppo delle forze
produttive e l’aumento del salario reale e quindi del benessere non si
coniugano più è proprio perché nel tentativo di compensare la caduta del saggio
di profitto i salari vengono tagliati e i lavoratori vengono espulsi dalla
produzione. Solo una distruzione di capitale massiccia può permettere, una
volta che si sia arrivati ad un certo livello di sovrapproduzione di capitale,
di riprendere un ciclo d’accumulazione generale. Infatti, sono state le immani
distruzioni causate dalla Seconda guerra mondiale ad aver permesso di
ristabilire le basi dell’accumulazione capitalistica, fino a quando, a partire
dalla crisi del ’73-‘74, il fenomeno della sovrapproduzione ha cominciato a
ripresentarsi.[43]
Dunque,
è scorretto, nell’ambito del capitalismo, identificare spinta all’accumulazione
(di capitale e di profitto) con spinta alla crescita (della quantità di merci e
del Pil) o allo sviluppo (delle forze produttive e della produttività). Il
movimento del capitale non è teso univocamente allo sviluppo e alla crescita.
Le innovazioni tecnologiche e le nuove macchine sono introdotte non per
alleviare le fatiche fisiche del lavoratore ma solo per aumentarne lo
sfruttamento e la produzione di profitto.[44] Quando c’è sovrapproduzione di
capitale, è il capitale stesso a imporre la regressione delle condizioni di
lavoro, ad esempio dismettendo le macchine automatiche e reintroducendo il
lavoro e la fatica fisica. Ma soprattutto, quando cade il saggio di profitto,
l’accumulazione di capitale tende a saltare la fase della produzione di merci
per rifugiarsi nella finanziarizzazione.
Il movimento del capitale è, quindi, più complesso, in quanto, essendo dialettico, vi sono presenti contemporaneamente due tendenze in contrasto tra di loro, quella verso lo sviluppo e quella verso la negazione dello sviluppo. La contraddizione tra queste due tendenze produce le crisi, durante le quali le forze produttive appaiono incontrollabili da parte della società, come fossero forze naturali. È tale dialettica che i decrescisti non capiscono. Allo stesso modo non colgono l’evidenza che lo sviluppo capitalistico presenta insieme una valenza positiva e una negativa. Quella negativa consiste nel depauperamento sia dell’uomo sia della natura. Quella positiva è lo sviluppo della forza produttiva dell’uomo, sia mediante l’impiego sempre più massiccio della scienza e della tecnologia nella produzione sia mediante la concentrazione delle imprese, ovvero mediante la sostituzione della piccola con la grande impresa.
Il movimento del capitale è, quindi, più complesso, in quanto, essendo dialettico, vi sono presenti contemporaneamente due tendenze in contrasto tra di loro, quella verso lo sviluppo e quella verso la negazione dello sviluppo. La contraddizione tra queste due tendenze produce le crisi, durante le quali le forze produttive appaiono incontrollabili da parte della società, come fossero forze naturali. È tale dialettica che i decrescisti non capiscono. Allo stesso modo non colgono l’evidenza che lo sviluppo capitalistico presenta insieme una valenza positiva e una negativa. Quella negativa consiste nel depauperamento sia dell’uomo sia della natura. Quella positiva è lo sviluppo della forza produttiva dell’uomo, sia mediante l’impiego sempre più massiccio della scienza e della tecnologia nella produzione sia mediante la concentrazione delle imprese, ovvero mediante la sostituzione della piccola con la grande impresa.
Ma
perché per i marxisti l’aumento della produttività del lavoro umano è positivo?
Perché grazie a questo aumento si riduce il tempo necessario alla produzione
dei beni, creando non solo la possibilità della soddisfazione e
dell’ampliamento dei bisogni umani, ma anche la possibilità della liberazione
di tempo vitale dal lavoro. Ma nel capitalismo l’aumento della produttività è
teso ad altri fini, dal momento il capitale “non ha per suo scopo il
soddisfacimento dei bisogni umani, ma la produzione di profitto, e dato che ciò
si può ottenere unicamente tramite metodi che regolano la quantità dei prodotti
in base alla scala della produzione e non viceversa.”[45]
Inoltre, la produzione, mentre nelle singole fabbriche è razionale e pianificata, nell’insieme delle varie branche industriali, essendo basata sull’anarchia della concorrenza, è irrazionale. Quindi, la soluzione non sta nel negare la crescita delle forze produttive ma nel ricondurre tale crescita sotto il controllo dei lavoratori liberamente associati secondo un piano razionale, che regoli la produzione complessiva in base ai bisogni e non il contrario. Solo una pianificazione democraticamente organizzata, il socialismo, può eliminare l’impoverimento e lo sfruttamento delle risorse sia umane sia naturali, permettendo allo stesso tempo il raggiungimento della vera ricchezza, che non è altro “se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti delle forze produttive, ecc. degli individui (…) se non l’estrinsecazione assoluta delle doti creative dell’uomo”.[46]
A questo punto torniamo all’oggi. Il capitalismo attuale è entrato in una crisi epocale che, da una parte, divarica le sue contraddizioni ad un livello insolubile mentre, dall’altra, produce le condizioni materiali del suo superamento.
Inoltre, la produzione, mentre nelle singole fabbriche è razionale e pianificata, nell’insieme delle varie branche industriali, essendo basata sull’anarchia della concorrenza, è irrazionale. Quindi, la soluzione non sta nel negare la crescita delle forze produttive ma nel ricondurre tale crescita sotto il controllo dei lavoratori liberamente associati secondo un piano razionale, che regoli la produzione complessiva in base ai bisogni e non il contrario. Solo una pianificazione democraticamente organizzata, il socialismo, può eliminare l’impoverimento e lo sfruttamento delle risorse sia umane sia naturali, permettendo allo stesso tempo il raggiungimento della vera ricchezza, che non è altro “se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti delle forze produttive, ecc. degli individui (…) se non l’estrinsecazione assoluta delle doti creative dell’uomo”.[46]
A questo punto torniamo all’oggi. Il capitalismo attuale è entrato in una crisi epocale che, da una parte, divarica le sue contraddizioni ad un livello insolubile mentre, dall’altra, produce le condizioni materiali del suo superamento.
In
primo luogo, il mercato mondiale, ovvero lo sviluppo delle forze produttive a
livello mondiale, come avvertiva Marx, “è un presupposto pratico
assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe [nel
caso in cui i lavoratori tentassero di superare la divisione in classi] solo la
miseria e, quindi, col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il
necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda …”.[47] Ed è
questa la ragione per cui né nei modi di produzioni precedenti né in una
ipotetica “società delle decrescita” può essere realizzata alcuna società di
liberi ed eguali.
In
secondo luogo, l’affermazione del monopolio e delle imprese giganti entra in
contraddizione con la stessa proprietà privata capitalistica, favorendo il
passaggio ulteriore verso l’espropriazione da parte della società di tutti i
capitalisti.[48] In terzo luogo, l’estensione dell’intervento del credito e
dello Stato permettono già oggi ai capitalisti la produzione privata senza
impiego di capitali privati, bensì mediante quelli che gli vengono messi a
disposizione dalla società. Tutte queste rappresentano già in nuce “forme di
passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato”.[49]
Concludendo, parlare di decrescita, di localismo e di piccola produzione vuol
dire, oggi molto più che nell’epoca di Marx, voler innestare una impossibile
marcia indietro al movimento della storia. Mentre è proprio al socialismo che
il movimento reale della società riconsegna l’attualità storica.
[1] Secondo Breda,
qurinalista del Corriere della Sera, dietro alcune affermazioni, che riporto
più avanti, del discorso di fine anno 2010 del Presidente Napolitano ci sarebbe
l’influenza della teoria della decrescita.
[2] Serge Latouche, Breve
trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p.49.
[3] Ibidem.
[4] S. Latouche, op. cit., p.62.
[5] S. Latouche, op. cit., p.63.
[6] Ibidem.
[7] La definizione è di
Pirenne. Vedi Henri Pirenne, Storia dell’Europa dalle invasioni al XVI secolo,
Newton Compton editori, Roma 2010, p. 83. A proposito della regressione
economica del periodo carolingio (IX secolo) P. scrive: “[La proprietà] non
potendo regolare la produzione in vista dell’esportazione e della vendita
all’esterno, la regola in funzione della distribuzione e del consumo interno.
Il suo scopo è che la proprietà basti a se stessa e si mantenga con le proprie
risorse, senza vendere niente e senza acquistare niente.”
[8] S. Latouche, op. cit., p.62.[9] S. Latouche, op. cit., p.64.
[10] S. Latouche, op. cit., p.52.[11] Ibidem.
[12] S. Latouche, op. cit., p.68.
[13] S. Latouche, op. cit., p.70.
[14] S. Latouche, op. cit., p.71.
[15] S. Latouche, op. cit., p.96.
[16] S. Latouche, op. cit., p.53.
[17] S. Latouche, op. cit., p.100.
[18] S. Latouche, op. cit., p. 53. Qui Latouche cita fra virgolette
Willem Hoogendik.
[19] S. Latouche, op. cit., p. 83.
[20] S. Latouche, op. cit., p. 91
[21] S. Latouche, op. cit., p. 90.
[22] S. Latouche, op. cit., p. 93.
[23] S. Latouche, op. cit., p.90.
[24] S. Latouche, op. cit.,
p. 109.
[25] K. Marx, Il Manifesto
del partito comunista, Newton & Compton editori, Roma 1994, p.40.
[26] In Gran Bretagna, ad esempio il divario tra le classi sociali è il più ampio mai registrato dalla Seconda guerra mondiale. Secondo la London school of economics il 10% più ricco della popolazione ha redditi 100 volte quelli del 10% più povero. L. Maisano, Il Sole 24 ore, 28 gennaio 2010.
[27] Istat, Comunicato stampa, La povertà in Italia nel 2009, 15 luglio 2010.
[28] S. Latouche, op. cit., p. 107.
[26] In Gran Bretagna, ad esempio il divario tra le classi sociali è il più ampio mai registrato dalla Seconda guerra mondiale. Secondo la London school of economics il 10% più ricco della popolazione ha redditi 100 volte quelli del 10% più povero. L. Maisano, Il Sole 24 ore, 28 gennaio 2010.
[27] Istat, Comunicato stampa, La povertà in Italia nel 2009, 15 luglio 2010.
[28] S. Latouche, op. cit., p. 107.
[29] S. Latouche, op. cit., p. 81.
[30] S. Latouche, op. cit., p. 110.
[31] S. Latouche, op. cit., p. 108.
[32] S. Latouche, op. cit.,
p. 123.
[33] K. Marx, Il Capitale,
Newton Compton editori, Roma 1996, libro I, cap. XIII, p. 370. Il corsivo è
mio.
[34] K. Marx, Il Capitale, op.cit, libro III, cap. LXVII, p. 1463.
[34] K. Marx, Il Capitale, op.cit, libro III, cap. LXVII, p. 1463.
[35] K. Marx, Il Capitale,
op.cit, libro III, cap. LXVIII, p. 1468. Il corsivo è mio.
[36] Maurizio Pallante,
Lettera aperta al Presidente della Repubblica Napolitano. Vi si cita l’esempio
del cogeneratore, per fornire energia alle case, prodotto dalla Volkswagen sulla
base del motore della Golf.
[37] Marino Badiale, Per una
nuova radicalità antisistema (né rossi né bruni: una proposta politico
culturale alle minoranza antisistema). Suciviumlibertas.blogspot.com.
[38] Vedi l’articolo-saggio
di M. Badiale e M. Bontempelli, Marx e la decrescita. Per un buon uso del
pensiero di Marx. Su www.sinsitrainrete.info. Da questo articolo sono tratte
tutte le citazioni fra virgolette che seguono.
[39] Lenin, “Che fare?” in
Lenin, Trockij, Luxemburg, Rivoluzione e polemica sul partito, Newton Compton
Editori, Roma 1976, p.113.
[40] K. Marx, “Indirizzo
inaugurale della prima Internazionale (1864)”, in L’internazionale operaia,
Editori Riuniti, Roma 1993, p. 14. Il corsivo è mio.
[41] Su la Germania e la
Francia del secondo dopoguerra vedi L. Canfora, Democrazia storia di una
ideologia, Laterza, Bari 2006, cap. 14.
[42] K. Marx, op. cit., p. 1083.
[43] Cfr. Andrew Kliman, “The Destruction of Capital” and the Current
Economic Crisis. E “On the roots of the current economic crisis and some
proposed solutions”. Sul sito dell’autore all’indirizzo
www.aklimansquarespace.com.
[44] Cfr. K. Marx, “Macchine e grande industria”, cap. XIII del libro I de Il capitale, op. cit., in particolare vedi a p. 276.
[44] Cfr. K. Marx, “Macchine e grande industria”, cap. XIII del libro I de Il capitale, op. cit., in particolare vedi a p. 276.
[45] K. Marx, op. cit., p.
1088.
[46] K. Marx, Lineamenti
fondamentali di critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Scandicci
1997, Vol. II, p. 112.
[47] K. Marx, L’ideologia
tedesca, Editori riuniti, Roma 1979, p.25.
[48] Sull’espropriazione
degli espropriatori v. K. Marx, Il capitale, Newton & Compton editori, Roma
1996, Libro I, pp. 547-548.
[49] Sul ruolo del credito
v. K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1983, Libro III, pp. 522-524.
Nessun commento:
Posta un commento