Non è facile prevedere l'evoluzione dello scontro in Ucraina. Da un lato, si è visto all’opera il meccanismo ben oliato del regime change
impulsato da Occidente non per via militare ma grazie alla
mobilitazione di una parte della popolazione sulla base di uno scontento
reale (a scanso di complottismi). Accompagnato dal pervasivo
dispositivo della comunicazione sul cui terreno le postdemocrazie
occidentali sono semplicemente imbattibili: il popolo ucraino sovrano ha scelto, Putin è l’aggressore… Quale anima democratica (o fan delle Pussy Riot)1 potrebbe nutrire dubbi? Se poi i russi di Crimea vogliono il referendum per la loro, di sovranità… infrangono il diritto internazionale.
Questa volta, però, l’incedere oramai parossistico
della marcia imperialista (si può dire o urtiamo i diritti umani?) –
sotto il nobelpremiato Obama: Libia, poi Siria, forse Venezuela, senza
contare quanto avviene in Africa centrale o si prepara in Asia ai danni
della Cina – è arrivato ai confini della Russia. E se
l’attivismo di innesco di Berlino pare ora voler frenare, viste le
possibili conseguenze in Europa, Washington invece provoca, la Clinton
paragona Putin a Hitler (inquietante refrain già sentito…), Obama sbava
di rabbia e vorrebbe, una volta per tutte, coalizzare il mondo contro
la Russia.
Per gli Usa la destabilizzazione
dell'Ucraina è, comunque vada, un fatto positivo per il quale non hanno
mai smesso di lavorare negli ultimi quindici anni. Mosca è quella che
rischia di più ma a sua volta non può recedere del tutto perché la
minaccia è altissima: associarsi all'Occidente in posizione di servile
subordine o misurarsi con provocazioni continue e uno sfiancamento
permanente. E se finora Putin sta dimostrando una notevole saldezza di
nervi, non è detto che riesca a conservarla a lungo anche perché la
contrapposizione oramai aperta tra nazionalisti ucraini e popolazione
russofona può facilmente sfuggire di mano (che è poi quel che qualcuno
spera). In ogni caso, qualunque tipo di compromesso comporterà danni
pesanti per qualcuno e la storia non finirà qui.
Insomma, invece delle litanie sul diritto
internazionale – sempre con due pesi e due misure nel determinare
aggrediti/aggressori, autodeterminazioni legittime/illeggittime –
sarebbe bene mettere a fuoco quanto con la crisi globale si stiano rinfocolando tensioni internazionali
vecchie e nuove su tutto lo scacchiere geopolitico mondiale. Certo, le
mosse dei vari soggetti non sono già consapevolmente ordite sulla base
di un progetto esplicito di precipitazione bellica, cercano
“semplicemente” di rispondere ai problemi che si pongono sul piano
immediato. Tuttavia, è proprio questo a dirci quanto la situazione sia
grave, quanto oramai l'evoluzione generale dello scontro tenda sempre
più verso un conflitto generalizzato ai vari livelli. Colpa del nuovo
csar?
Proviamo allora a ragionare con un minimo di lucidità sull’insieme e
non sui singoli pezzi, se anche non si ha modo per ora di far valere
praticamente la nostra voce al di fuori e contro ogni deriva
imperialista e nazionalista e contro il futuro di guerra che il
capitalismo in crisi va preparando. Lucidità non facile perché abbiamo
davanti un groviglio quasi inestricabile, e in parte contraddittorio,
fra il rinnovato Drang nach Osten occidentale, la reazione
difensiva (in senso borghese) di Mosca e una mobilitazione sociale, di
“ceti medi” e giovani innanzitutto, ma non solo, che partendo da istanze
reali finisce nel supporto di piazza a un governo filo-occidentale,
filo-Fmi, nazionalista anti-russo e con presenze simil-neonazi!
Ucraina: tra due forni, ma è finita
Ucraina: tra due forni, ma è finita
Finora l’Ucraina ha goduto di una residua rendita di
posizione, pur dentro gli sconvolgimenti del post-’89. Facendo sponda
sul lato russo per proteggersi dalla concorrenza economica occidentale -
non solo per le forniture di energia ma anche per i mercati di sbocco -
ha potuto evitare quelle devastanti ristrutturazioni al proprio
apparato industriale che hanno invece completamente cambiato il tessuto
economico-sociale degli altri paesi europeo-orientali. Al tempo
stesso, i vari governi che si sono succeduti hanno giocato a far sponda
anche su Unione Europea e Stati Uniti-Nato in funzione, ora più velata
ora più aperta, anti-russa permettendo agli “oligarchi” di continuare
la politica dei due forni.
Se in questo modo le ricchezze sono andate nelle
tasche di questi ultimi invece di essere direttamente appropriate da
“competenti” manager occidentali – è anche vero che in questo modo è
stata fin qui rinviata anche la resa dei conti con il proletariato che
non a caso ha potuto usufruire di “prezzi politici” quasi alla
sovietica o almeno evitare tagli più dolorosi a posti di lavoro e
prestazioni sociali (su questi aspetti è importante l’intervista a un
sindacalista rivoluzionario ucraino riportata in http://www.commonware.org/index.php/cartografia/280-maidan-e-le-sue-contraddizioni). In cambio la classe lavoratrice tradizionale,
collocata soprattutto nell’est e nel sud del paese e maggiormente
rappresentata da russofoni, ha continuato nella sua attitudine di
sostanziale passività sociale e politica e delega al partito di quegli
oligarchi impropriamente considerati qui da noi “filorussi”.
Un’attitudine che spiega la diffidenza prima verso la mobilitazione di
Maidan, e oggi le reazioni in senso nazionalista grande-russo a fronte
del nuovo governo di Kiev che promette di rompere col compromesso
sociale introducendo le ricette del Fmi. Insomma, questa parte del
proletariato – a meno di voler essenzializzare il dato “etnico” – è al
momento decisamente schierata con la Russia per il motivo che vi vede la
possibile conservazione del posto e delle condizioni di lavoro,
consapevole che un'apertura verso ovest vorrebbe dire scomparsa di molte
aziende e soprattutto del welfare.
In ogni caso la precipitazione attuale è insieme espressione e causa dell’eclisse
definitiva della tenuta per l'Ucraina di una posizione intermedia. È
arrivata l'ora di chiudere ogni legame col passato "socialista", ma la
modalità cambia radicalmente se lo si fa al modo tedesco o al modo
russo. Yanukovich sperava di rimandare la resa dei conti. Si è bruciato
e, con lui, si è definitivamente bruciata la possibilità per l'Ucraina
di continuare a lucrare sulla sua posizione di frontiera. Prodigi della crisi globale che scongela ogni cosa a partire dalle linee di faglia geopolitiche…
È in questo quadro che da un lato la pressione
occidentale – non nuova ma ravvivata dal ghiotto boccone – e la
mobilitazione di quei settori della popolazione ucraina non coperti o
non più soddisfatti dei vecchi assetti, dall’altro, sono andate a
convergere ponendo fine al compromesso di cui sopra.
I nodi di Maidan
I nodi di Maidan
Si tratta dei "ceti medi" – categoria quanto mai
vaga e ambigua, va da sé, da assumere in senso allargato a comprendere
anche qualunque proletario che giustamente si percepisce come
“cittadino” espropriato da una cricca di oligarchi. Strati sociali e
giovani indotti a pensare che solo una situazione di "libertà"
economica dà la possibilità di sfruttare il proprio capitale o le
proprie capacità (vere o presunte): investire su se stessi, la chiave
del successo. Per questi settori non solo ogni residuo di
“collettivismo” è anatema, ma la stessa autorappresentazione
nazionalista – qui forse la differenza di fondo con l’estrema destra
organizzata – fa perno su una nazione di individui. È del tutto naturale che essi propendano per la sponda Ovest
e in particolare si illudano sull’accoglimento immediato dentro la
“civile famiglia europea”. Vi vedono maggiori possibilità di
affermazione, più "libertà" individuale, vi ripongono speranze di
maggiore mobilità (dato essenziale per i giovani e per chiunque abbia
intenzione di emigrare o sia già fuori dal paese).
Piazza Indipendenza, soprattutto nella prima fase,
ha messo in luce tutto ciò. Ma ciò che questa volta ha portato ben
oltre la prima “rivoluzione arancione” è stato l’intreccio di tre
fattori che hanno condotto la situazione al punto di rottura. Primo,
una più forte e trasversale istanza anti-corruzione – pervasiva e ambivalente (http://www.commonware.org/index.php/cartografia/226-corruzione-contributi-al-dibattito-1)
– con la rabbia comprensibilmente amplificata da una situazione
economico-sociale sempre più insostenibile. Secondo, la presenza
organizzata, addestrata e pagata (sulle attività dell’ambasciata Usa a
Kiev: http://www.counterpunch.org/2014/02/24/the-brown-revolution-in-ukraine/) di una destra
ultranazionalista militante (e militare, come si è visto) capace di
raccogliere lo scontento anche di strati proletari profondi (soprattutto
della parte occidentale del paese, non russofoni) e attivare
aspettative “anti-sistema” in perfetto stile nazional-socialista (più Sa
che Ss, per ora). Terzo, la più diretta ingerenza dall’esterno, questa volta non solo statunitense ma anche direttamente tedesca.
L’applicazione da manuale del metodo “non violento”
di Gene Sharp ha così fatto da preludio al golpe vero e proprio –
impulsato dagli Usa per far saltare l’accordo in extremis siglato tra
Berlino e Yanukovich (non a caso la Nuland, la Neocons alla corte di
Obama responsabile per l’Ucraina, aveva detto: “fuck the EU”
scandalizzando la ben educata Merkel). Qui va inserita
l’”indiscrezione” (casuale?) sul lavoro dei cecchini della destra che
avrebbero sparato sia sui poliziotti che sui manifestanti per far
saltare la situazione (http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/10910-la-grande-truffa-?).
Sembra alquanto veritiera ma non cambia la sostanza della questione.
Non la cambia perché le "rivoluzioni colorate" non sono soltanto delle
straordinarie pulp fiction (anche se sangue vero ha
iniziato a scorrere) ad uso dell'opinione pubblica occidentale per
convincerla che ci si sta premurando di realizzare i desideri degli
altri popoli oppressi dai loro stessi governanti. Sono anche il sintomo
della disgregazione interna di determinate società,
giunte al limite della loro sopravvivenza dopo essere state per anni
aggredite economicamente e con un sottile assedio mediatico che celebra i
fasti dell'Occidente in contrasto con le miserie di lì.
L'imperialismo, insomma, ha a tutt’oggi una capacità
attrattiva su una parte significativa, non ristrette frange, di popoli
rimasti indietro nello sviluppo capitalistico invece di provocarne,
come in cicli definitivamente trascorsi, reazioni antimperialiste.
L’aggancio con le grandi manovre geopolitiche “esterne” sta esattamente
in questo intreccio di fattori soggettivi e oggettivi che rende
ridicola ogni lettura complottista (e/o
“antimperialista” filo-russa) e legittimista rispetto al vecchio
regime. Né Russia né Cina, per dire solo dei due principali
“emergenti”, hanno quella presa sull’immaginario e sulle prospettive
della propria gente e soprattutto dei giovani (per non parlare del
nullo appeal fuori), ma se non riescono sul breve-medio periodo a
crearsi una solida base sociale di consenso nel ceto medio “allargato”
rischiano all’interno dei loro stessi confini. (Le riforme in vista in
Cina puntano anche a colmare questa lacuna, ma non ne sarà pacifico il
risultato visto il contesto globale di crisi).
Tutto ciò è per certi versi paradossale se solo guardiamo al fatto che dentro il mondo "libero" la middle class
è in profondissima crisi, dagli Usa obamiani ai... 9D nostrani. Del
resto, la fenomenologia superficiale della mobilitazione di Maidan
potrebbe far pensare ai diversi occupy di questi anni. Non che non ci
siano assonanze (la questione andrebbe approfondita) anche se a detta
degli osservatori più perspicaci è mancato l’elemento fondamentale
dell’autorganizzazione e dell’autodecisione (pur nella spontaneità
propria di un fenomeno relativamente di massa) né la piazza è stata di
per sé “ingenuamente” immune al discorso nazionalista più duro. Ma la
differenza fondamentale è appunto di “ciclo di aspettative” – lì ci si
aspetta ancora molto dal mercato, in Occidente inizia a emergere per
quanto confusissima una percezione del declino – e, su tale base, la
determinante geopolitica fa il resto. Dura lex sed lex. Kiev è l’ultimo lembo dell’’89 ma i tempi per il riscontro fra desideri e realtà questa volta saranno assai più brevi.
Resta il nodo politico di fondo, maledettamente
ingarbugliato, per ogni prospettiva antagonistica “dal basso a
sinistra”: la questione dell'individuo. L'uscita dal
"socialismo reale" nei paesi dell’Europa orientale e la fine del
compromesso capitale-lavoro in quelli occidentali hanno aperto le
condotte e l'individualismo è dilagato dando in prima battuta una carta
in più alle forze del mercato rispetto alle precedenti fasi e
condizionando in maniera ambivalente qualunque ripresa di conflitto
sociale. Autentiche e sacrosante spinte alla realizzazione
dell'individuo rischiano così seriamente di finire diritte nelle fauci
del capitalismo più aggressivo. Ma qualunque reazione regressiva non ha
presa. Non ci sarà risposta seria a questo nodo fino a che non
sorgeranno lotte radicali in grado di porre la questione dell'individuo
come terreno di scontro contro i padroni del mondo, che sono gli stessi
che se ne fanno oggi paladini. Nel frattempo si tratterà di vedere se
l'Occidente farà prima a far saltare le altre pedine, e magari qualche
pezzo importante, della scacchiera mondiale – energizzando un sistema
marcio – o se viceversa vedrà finalmente scoppiare al proprio interno
quella crisi sociale e politica di cui i vari occupy sono stati fragili
avvisaglie.
Berlino tira la volata…
Berlino tira la volata…
Una relativa novità nella vicenda ucraina sta nell’attivismo
crescente della politica estera tedesca, che ha condotto in prima
persona la corsa alla riconquista del territorio orientale salvo farsi
soffiare all’ultimo da Washington, almeno per ora, il risultato più
favorevole (v. il sito http://www.german-foreign-policy.com/de/news/).
Come nella vicenda jugoslava, infatti, Germania e Usa marciano uniti
ma perseguono, sulla lunga distanza, obiettivi divergenti.
Per Berlino la tappa ucraina è la prosecuzione dell'espansione
tedesca-europea verso est iniziata a partire dall'’89: conquista di
mercati per le proprie merci e, soprattutto, acquisizione di braccia a
basso costo. Ma la domanda cruciale è: perchè la
Germania ha accelerato questa spinta fino a rischiare i rapporti fin qui
buoni con la Russia di Putin? Perchè non c'è alcuna possibilità di
sopravvivenza per il capitalismo europeo a (inevitabile) guida tedesca
se non conserva la sua forte connotazione produttiva industriale, stante
la scarsa o nulla potenza finanziaria e militare rispetto agli Stati
Uniti, la mancanza di energia a basso costo, e una collocazione comunque
centrale nella concorrenza capitalistica che non permette la pura
conservazione di rendite di posizione. Ma l'apparato industriale si
preserva solo se alimentato da capitali alimentati da profitti
alimentati da forza-lavoro sufficientemente produttiva. Negli ultimi
venti anni i risultati sono stati notevoli: la grande industria
tedesca si è ulteriormente espansa con l’allargamento della cerchia
dei paesi destinati alla subfornitura (ciò che l'Italia non è riuscita a
fare avendo praticamente perso la sua grande industria non ultimo per
disfarsi del proletariato organizzato; la Francia fa con crescenti
difficoltà; e la GB ha rinunciato a perseguire aggrappandosi alla
sterlina sotto la protezione del dollaro).
Non per caso, si diceva, questa nuova tornata per l’inglobamento
economico dell’Ucraina è stata portata avanti dalla Ue e da Berlino in
particolare, con la proposta di un trattato che non prospetta affatto
l'adesione immediata alla Ue – si parla di secondo cerchio
dell’Unione Europea – ma impone una lunga fase di “preparazione delle
normative” che dovrebbe aprire completamente i mercati ucraini ai
prodotti europei, smantellarne l'industria non competitiva (praticamente
tutta), ingabbiarne i lavoratori in molto più produttive industrie di
subforniture, smantellare il residuo di welfare, con correlata
sostituzione degli odiosi oligarchi con amabili manager del tutto
disinteressati sul piano personale ma dediti all'implementazione del
"pensiero unico capitalistico".
Lo scontro con la Russia si colloca, per la
Germania, esattamente a questo livello. Perchè Mosca a sua volta può
sopravvivere economicamente esclusivamente se è contornata da un
"estero vicino " che non sia troppo aggressivo sul piano della
concorrenza e della competitività industriale. In questo senso il
progetto di Unione Doganale Euroasiatica di Putin stava minacciando la
penetrazione europea-tedesca per due solidissimi motivi. Primo, Putin
sta cercando di fare il massimo sforzo per diversificare le capacità
produttive russe sganciandole dalla monoproduzione di petrolio e gas e
operare un rilancio dell'investimento industriale senza cadere
completamente sotto le grinfie della produzione tedesca di macchine.
Secondo, questa politica ha bisogno dei suoi tempi per anche solo
provare a mettersi all’altezza degli standard competitivi occidentali,
dunque ha bisogno per un certo periodo di un "ambiente protetto", un
circuito di paesi che hanno una esigenza analoga di riconversione
industriale cui offrire energia a prezzo contenuto e capitali generati
dalla rendita petrolifera. In sintesi, l’obiettivo è puntare a un’ampia
area economica regionale non del tutto subordinata
alle centrali occidentali e al dominio del dollaro (altro terreno di
confronto delicatissimo, questa volta con gli Usa, anche a prescindere
dagli immediati effetti finanziari e monetari pesanti per i paesi
emergenti, e quindi anche per la Russia, dovuti al tapering messo in
atto dalla Federal Reserve). Ma i bastoni tra le ruote di questo
progetto, come si vede, sono belli grossi.
L'attacco tedesco alla Russia dunque c'è, in duplice senso:
espansione economica nel suo "estero vicino", ma anche il prodromo di
un successivo attacco alla stessa economia russa. Anche per Berlino
infatti è questione di mantenere e rinsaldare un'Europa unita come
grande area regionale, pena la dissoluzione come capitalista di rango
tanto della Germania quanto dell’intera Europa , ma può farlo solo...
ritornando su vecchie strade, per ora con mezzi economici. Abbiamo così
uno scarto che rappresenta a tutti gli effetti un
approfondimento delle tensioni dovute alla crisi globale: il rapporto
di “buon vicinato” con Mosca può continuare ma solo a queste condizioni
di subordinazione. Chi pensava a un asse dalla Germania alla Cina via
Russia di tipo non conflittuale, nella prospettiva armonicista di un
multipolarismo post-egemonia americana senza destabilizzazione del
sistema globale (à la Arrighi), è servito.
Questo non significa che i rapporti russo-tedeschi debbano
deteriorarsi irrimediabilmente da subito. Anzi, all’immediato l'Europa a
guida tedesca è tentata di usare una carta di "compromesso" – padrino
Schroeder? – che potrebbe lasciare un po' scoperti e in affanno gli
Usa, anche se non è detto che la giochi davvero. In generale, costretta
a uscire dal “guscio” di nano politico sulla scena internazionale,
Berlino non sembra ancora aver optato - o forse non è ancora stata
costretta a farlo - per una strategia precisa oscillando tra una
ricontrattazione più favorevole dell’alleanza atlantica (v. trattative
con Washington per il Ttip e il chicken game trattenuto sulla posta in
palio dell’euro: http://www.sinistrainrete.info/europa/1916-raffaele-sciortino-chicken-game-ancora-sulleurocrisi.html) per un rinnovato assalto occidentale al resto del mondo e un Alleingang con tutti i rischi del caso, in primis lo scontro con gli Usa.
Gli Usa incassano ma…
Gli Usa incassano ma…
Se la Germania ha condotto la corsa verso l'Ucraina, gli Stati Uniti
erano pronti da tempo a sfruttare l’opportunità. Per Washington la
conquista economica è essenzialmente basata sull'inasprimento del
vampiraggio finanziario alle nuove condizioni costituitesi con la
globalizzazione. Al credito internazionale direttamente fornito agli
stati dagli anni Cinquanta fino alla crisi del debito degli Ottanta è
andata sostituendosi la piena e onnivora libertà per il capitale
finanziario di raggiungere anche il singolo "cittadino" in ogni
anfratto della vita. Di questa biopolitica del capitale finanziario il
compact Washington-Wall Street è il supremo garante politico-militare e
profittatore economico: governare l’impero con il debito, ovvero con
il dollaro.
Ora, se i segnali di regionalizzazione, ovvero i
tentativi di costruire aree economico-politiche più autocentrate negli
scambi commerciali e industriali e de/centralizzate rispetto alla
finanza internazionale a stelle e strisce (e all'Europa che, sia pure
in quota diversa, partecipa a questo tipo di sfruttamento), dovessero
concretizzarsi in maniera consistente (a partire dalla Cina,
ovviamente) - il sistema che fa perno sugli Stati Uniti già scosso da
una crisi da cui non riesce a risollevarsi nonostante le enorme
iniezioni di liquidità creata dal nulla, risulterebbe a serio rischio.
Per Washington questo è semplicemente inaccettabile (e a ruota per
l’Europa). Dunque Merkel e Obama hanno lo stesso interesse a impedire
che la Russia costruisca intorno a sé una di queste zone, ma divergono
sui motivi, e divergerebbero anche nel caso che tali zone si
concretizzassero: per gli Usa sarebbero esiziali, mentre per l'Europa
ci sarebbe ancora la possibilità di allacciare scambi
commerciali-industriali, più o meno, "alla pari".
Ciò spiega, nella vicenda ucraina, il maggior accanimento yankee sia
nel portare il proprio uomo al governo a Kiev (Yatseniuk) scalzando il
favorito tedesco (Klitschko) sia nell’acuire il più possibile le
tensioni con Putin (con i soliti galletti, tra gli europei, a fare da
utili idioti, perfino peggio di inglesi e italiani, questi ultimi finora
sulle lunghezze d’onda tedesche).
Ovviamente, hanno il loro peso anche considerazioni prettamente
strategiche (riposizionamento della Nato e revisione della strategia
nucleare) e geopolitiche. Dalla II guerra mondiale in poi il pensiero
strategico del Pentagono è sostanzialmente improntato alla geopolitica
mackinderiana, con le varianti del caso. I fronti di "distruzione
creativa" aperti da Obama, oramai più numerosi di quelli bushiani!,
contro chiunque resista alle politiche imperialiste, si adattano a
pennello all’indicazione (operativa) di Mackinder: “Ogni esplosione di
forze sociali, anziché dissiparsi in un circuito circostante di spazio
incognito e di caos barbarico, verrà riecheggiata dal lato più lontano
del globo, e gli elementi deboli nell’organismo politico ed economico
andranno di conseguenza in mille pezzi”. Chiaro, no? Non solo; quei
fronti a ben vedere si dispongono lungo quelle linee di faglia che
servono ad accerchiare e destabilizzare “la regione pivot della
politica mondiale, la vasta area dell’Euro-Asia” (oggi in realtà
curvata sul versante cinese più che russo). Non ultimo, un caveat
importante: “se la Germania dovesse allearsi con la Russia”...
Alla luce di ciò, è evidente che al momento la Russia è quella che
rischia di più, in tutti sensi. E' sotto aggressione da venticinque
anni, ne hanno progressivamente smantellato tutto il circuito di
alleanze, ed oggi la si fa apparire come aggressore (giudizio condiviso
da molti “sinistri”, che non riescono ad ammettere che la loro cara
Europa, questa volta, non è “inesistente” o in "ritardo", ma sta
conducendo un'aggressione imperialista in piena regola – chissà se
nelle liste Tsipras si parla di questo oltre che di voti). Se perde
tutta l'Ucraina, la Russia rischia di scomparire sotto la
frammentazione che ha già rischiato ai tempi di Yeltsin e da cui stava
faticosamente uscendo. Gioca per la vita o per la morte. Ma anche la
Cina guarda assai preoccupata all’escalation occidentale, al di là
degli interessi economici in Ucraina (affitto di terre). La Cina è
l’obiettivo di lungo periodo del nuovo containment statunitense, il pivot to Asia.
E non a caso Pechino sta dando un discreto ma sostanziale appoggio a
Mosca. Dunque, anche su questo versante, un ulteriore scarto della crisi
globale come crisi sistemica. Ma nulla è più garantito neanche per
Washington (http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/8976-kill-kill-kill-for-growth).
Al di là delle dinamiche geopolitiche il punto politico di fondo è che siamo di fronte a chiari segnali di incasinamento sistemico.
E i venti di guerra, per quanto siano improbabili precipitazioni
immediate tra big player, non sono però più questione di mera
rievocazione storica. Gli Usa sembrano oramai strutturalmente incapaci
di uscire dalla crisi globale senza rovinare e destrutturare anche stati
non marginali per poter approfondire la rapina finanziaria a scala
globale. L’Europa deve procedere, se non vuole destrutturarsi e uscire
da un gioco che si fa sempre più duro, sulla linea indicata dalla
Germania (altro che fine dell'austerity e importazione della ricetta
monetaria della Federal Reserve di cui si straparla non solo nei circoli
renziani, e passi, ma anche in certa sinistra).
Tuttavia la situazione interna nello stesso Occidente è a rischio
crescente di esplosione sociale, mentre in Egitto le mobilitazioni
accennano a riprendersi con un carattere più decisamente di classe, il
che potrebbe riaprire tutti i giochi. Ma non li risolverebbe di per sé
in senso antagonista. Al di là del giudizio che si dà di Maidan (ma
vale per Tahrir, Taksim…) è evidente che più si scende nei gironi della
crisi e più si accorcia la distanza, diciamo così, tra questioni di
classe e dimensioni geopolitiche. Ciò può indurre impotenza nella
sinistra antisistemica, che sembra ed è al momento fuori dai grandi
giochi. Ma questa impotenza non si supererà se non si inizia a mettere a
fuoco il nesso tra lotte immediate, necessariamente “spurie”, e spunti
di "programma" che non dall’esterno ma da quelle condizioni e
dinamiche sociali possono emergere. È in gioco la capacità di
sviluppare autonomia nelle nuove condizioni del
capitale globale e delle eterogenee e contraddittorie soggettività in
campo. Il nodo di fondo -inaggirabile con escamotage organizzativi- è
l’ambivalenza di una domanda radicale e ineludibile di una sfera
individuale di desideri e potenzialità, anche attraverso un’azione
collettiva, che però si ferma ancora sulla soglia di una propria
soluzione autonoma di potere e di costruzione sociale antagonista al
mercato, perché ritiene sufficienti le piattaforme di socializzazione
offerte dal capitalismo (eventualmente non il proprio ma quello dei
paesi più “civili”) che si tratterebbe “solo” di depurare e
democratizzare perché si dia effettiva libertà per tutti. Ma
inaggirabile è anche il nodo dell’estensione dell’antagonismo di classe
in senso internazionale e internazionalista.
Al prossimo giro si tratterà di vedere se la dinamica si disloca un tantino più avanti.
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