domenica 7 giugno 2015

La favola della scuola. Gli insegnanti, gli studenti, le lotte (e il Partito della Nazione)


Vietati i don Chisciotte

di Carmelo Palladino e Girolamo De Michele, feat. Mauro Presini e molti insegnanti e studenti e bidelli (*)
«Fischiate quanto volete, noi andiamo avanti.»
(Matteo Renzi agli insegnanti liguri, 25.05.2015)
«Matteo, fermati: fermati prima che uno dei due, tu o la scuola pubblica, vada a sbattere.»
(l’insegnante Giovanni Cocchi a Matteo Renzi, 16.05.2015)
C’era una volta una SCUOLA: tutti la conoscevano, tutti sapevano dove stava, tutti sapevano che lavoro faceva, tutti la rispettavano. Era una buona scuola!
Un brutto giorno però arrivarono degli esperti di sottrazioni e cominciarono a dire che bisognava risparmiare perché c’era la crisi.
Dissero che nella parola SCUOLA c’erano troppe vocali e troppe consonanti e che bisognava semplificare ed essenzializzare.
Così tolsero la C di “Capire” per regalarla a chi vendeva computer e software per le Classi 2.0.
Con la sottrazione della C, la scuola stava diventando una SUOLA e molti sentivano di poterla mettere sotto i piedi.
Subito dopo arrivarono anche i nostalgici del passato che le presero la U di “Uguaglianza delle opportunità” perché alle elementari volevano reintrodurre il maestro Unico.
La scuola ora si sentiva più SOLA e molti cominciavano a non capire bene a cosa potesse servire.
Di lì a poco ne approfittarono pure i cosiddetti “tecnici” per sottrarle la A di “Accogliere” perché volevano formare dei docenti Automatici che somministrassero test.
La SCUOLA, che era diventata SUOLA e poi SOLA, venne progressivamente ridotta ad un SOL.
Finalmente in diversi cominciarono ad accorgersi che tutte quelle sottrazioni non facevano bene a nessuno.
Si indignarono, si organizzarono, informarono, spiegarono, manifestarono.
Riuscirono faticosamente ad affiancare al SOL il FA di fare.
Fu così che nacque la prima SOLFA.
Suonava così: “Noi siamo speciali, ridateci le vocali“.
Subito dopo inventarono la seconda: “Non siamo tolleranti, rivogliamo le consonanti“.
Quando sembrava che la SOLFA facesse il suo effetto, in pieno giorno si presentò un malfattore che, davanti a tutti, rubò la L di Legalità perché voleva averne una tutta sua.
Fu una grossa delusione perché restò solo la sillaba SO e ormai in pochi rispettavano quel poco che rimaneva della SCUOLA
2. …e forse c’è ancora
C’è chi definisce la scuola “la Russia di ogni governo” e si stupisce che ogni qualvolta si provi a mettere le mani sulla scuola c’è sempre un’ondata di protesta e di indignazione da parte di insegnanti e studenti: perché finge di ignorare che l’opposizione è costante perché ogni volta si propone – con abito nuovo – la medesima riforma. Il progetto della cosiddetta “buona scuola”, infatti, intende dare “piena attuazione” alla legge sull’autonomia scolastica varata nel marzo del lontano 1997 e citata da tutti i precedenti disegni di legge, siano essi stati approvati o meno: se Giannini e il fu sottosegretario Reggi erano stati espliciti sul tema 1, è l’art. 1 del DDL approvato il 20 maggio scorso alla Camera che lo attesta definitivamente 2. Chi si è opposto prima e continua a farlo ora, si oppone di fatto al medesimo progetto: quello che ha come parola chiave l’autonomia. O meglio, per ridare il significato corretto alle parole: l’aziendalizzazione della scuola pubblica, che con la legge 59/1997 investe sia il piano lessicale (il preside è diventato dirigente, lo studente utente, gli obiettivi educativi offerta formativa) sia quello pratico (le istituzioni scolastiche, cui è stata conferita personalità giuridica, possono accettare donazioni da privati, stipulare convenzioni con soggetti esterni, partecipare a consorzi per acquisire beni e servizi). Del resto, con la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici (dlgs 29/1993) l’insegnante era già stato equiparato al produttore generico che riceve dalla società uno scontrino da cui risulta la quantità di lavoro prestato, e sulla base del quale ritirerà dal fondo sociale una equivalente quantità di mezzi di consumo: l’essenza del contratto di diritto privato non è il fine del lavoro da compiere (insegnare, educare, formare, istruire: cose così), ma il mutuo scambio (do ut des) tra ore lavorative e salario.
Le finalità educative si sono di fatto trasformate in finalità di mercato. Il privato che investe nell’Istruzione pubblica non lo fa certo per scopi filantropici ma, come il suo ruolo richiede, per motivi di lucro e/o pubblicitari (basti pensare ai buoni scuola Conad, dove la catena di supermercati dona beni agli istituti i cui componenti abbiano fatto la spesa presso i propri punti vendita). La banca che sponsorizza la digitalizzazione delle aule non insegna ai ragazzi a essere innovativi, ma suggerisce loro dove andare a firmare il primo debito. E quell’industriale che finanzia nuove attrezzature, vorrà in cambio una competenza forgiata ad hoc, privando così i futuri lavoratori di una compagine di conoscenze più ampie che potrebbe servire loro per aumentare la propria professionalità. Lo studente viene trattato come consumatore persino nel luogo in cui dovrebbe formarsi come cittadino, apprendere il sapere critico, svilupparsi appieno come persona. Piegare l’istruzione alle esigenze di mercato non significa dunque essere innovatori, ma reazionari, vuol dire dimenticare i diritti del Novecento per ritornare ai privilegi dell’Ottocento. Ecco perché del DDL n. 2994 (n. 1934 al Senato) non è possibile chiedere semplici modifiche, ma va preteso il ritiro: il suo problema è l’impianto complessivo, non i singoli provvedimenti.
Ne è dimostrazione uno tra i punti al centro del dibattito mediatico di questi giorni, vale a dire la figura del cosiddetto dirigente-sindaco – perché, come dice Renzi, autonomia non significa autogestione 3: o meglio, dal momento che a differenza del sindaco non è eletto dagli insegnanti (come accade, ad esempio, in Germania), ma nominato dall’alto (come ai tempi del fascismo), il dirigente-podestà. Che avrà la possibilità di individuare (come ai tempi del fascismo 4) all’interno di un albo territoriale gli insegnanti a cui assegnare incarichi triennali, eventualmente riconfermabili.
art. 27
La cosiddetta “chiamata diretta”, conferendo maggiori poteri al dirigente scolastico, rappresenta un vero stravolgimento sia del sistema di reclutamento, sia di quello afferente la libertà d’insegnamento e non solo: non a caso, considerando gli evidenti rischi di favoritismi e discriminazioni cui si presta, ha suscitato un certo scalpore anche tra i non esperti del mondo della scuola. Stefano Rodotà, ad esempio:
«Si riproduce la logica della centralizzazione del potere con questa creazione di una figura nuova del preside come “governante della scuola”. Ma la scuola è un corpo, nel quale ci sono gli insegnanti, ci sono gli studenti… Io ho fatto il professore per tanti anni, non ho mai pensato di avere del potere: il preside della mia facoltà si doveva confrontare con tutti. Ma questa non è solo una regola di democrazia, è una regola di funzionalità: io penso che l’accentramento di potere nella scuola aumenterà i conflitti, aumenterà la difficoltà di gestire la scuola».

E ancora: Tullio De Mauro e Carlo Galli, e Adriana Lodi, la “mamma” bolognese degli asili nido. Si ha la netta impressione – e la cosa non stupisce – che il “partito del fare” stia attuando una secessione dal pensiero, dalla riflessione, dalla critica, dalla capacità di giudizio. Che i neuroni-specchio del Partito della Nazione si stiano scindendo: il neurone unico da un lato, gli specchi dall’altro.
Ciò che stupisce, invece, è che persino la posizione critica assunta dalla minoranza interna al PD si concentri sul tema dell’autoritarismo, visto che esso è pienamente in linea con la scuola dell’autonomia che quel partito (nelle sue diverse versioni) di propone da anni. A pensar male non si sbaglia, diceva qualcuno: lo dimostra la parabola di Mila Spicola, l’ex-barricadera che ora, passata dalla parte comoda della barricata ed entrata nella segreteria di Faraone al ministero, si produce in tripli carpiati e risibili slittamenti linguistici in difesa dell’indifendibile connubio fra la bontà della riforma e l’intatta purezza della di lei coscienza – ad esempio, sostenendo che non di “chiamata diretta” ma di “assegnazione” o “scelta confermata” di deve parlare 5. Viene il sospetto che i Fassina del caso utilizzino il punto più mediaticamente spendibile per governare la protesta (nel PD ci sono anche i buoni), per fare emendare il DDL (vedete che noi serviamo) e alla fine fare passare comunque il testo di legge (le due anime si ricompattano e sono felici), la cui aberrazione non risiede affatto tutta lì.
Al dirigente-podestà si collega il tema delle assunzioni: il messaggio dominante è che, affinché esse siano possibili, è necessario attuare l'”organico funzionale” o “organico dell’autonomia”.
Falso: i posti stabilizzati non saranno nemmeno sufficienti a coprire il fabbisogno del prossimo anno, ci sarà senz’altro bisogno di ulteriori supplenze. Tra l’altro il tanto sbandierato (anche alla lavagna) ampliamento formativo è vero solo in parte, perché non modifica il quadro orario ridotto nel 2008: non ripristina ex lege il maltolto, ma pone l’eventuale incremento didattico come atto volontario di ogni singola istituzione scolastica; non riduce il numero di alunni per classe tout court, ma dà solo la facoltà ai dirigenti di contravvenire – “nell’ambito dell’organico dell’autonomia assegnato e delle risorse, anche logistiche, disponibili” (art. 9 c. 7), cioè senza aumentare le spese – alla norma qualora si ritenga necessario; non rende le scuole punti di riferimento nel territorio perché, ancora una volta, non aumenta il monte-ore settimanale.
E allora a cosa servono insegnanti non più legati alle cattedre (il contratto nazionale, garanzia di uguali condizioni di lavoro per tutti, viene ipso facto stracciato 6) ma sempre disponibili a muoversi dove occorre?
A comandarli meglio, caro Cappuccetto Rosso: a gestirli come se la scuola, invece di un bene comune che deve educare equamente, fosse “cosa nostra”; a far sì che le relazioni all’interno dell’istituto siano sempre più deboli, così i lupi saranno sempre più lupi e quelli come te, mio Cappuccetto, sempre più carne per i loro denti; a trasformare il mondo nel quale si attua o meno il diritto all’istruzione, al sapere, a una vita degna di essere vissuta in un ghetto popolato da piccoli, ingrigiti Shylock quotidiani che si guardano l’un l’altro chiedendosi «non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro?» 7.
Come sappiamo bene, il potere si comprende dal punto di vista di chi gli resiste. La resistenza al disegno autoritario esemplificato dai pieni poteri del dirigente-podestà – grottesca proiezione in ambito scolastico del premierato d’investitura senza limiti parlamentari, del leader unico del Partito della Nazione senza opposizione – fa segno a un processo di centralizzazione del potere e di decostituzionalizzazione e privatizzazione dei diritti. Anche la motivazione un filino forcaiola del dirigente che se sbaglia va a casa – peccato che nel testo di legge non sia scritto, ma tant’è, il nobile Renzi è uomo d’onore… – è indicativa dei bassi istinti a cui si fa appello: l’importante è che lo Schettino di turno (e ce ne sono, fra i dirigenti scolastici ben tutelati dai loro sindacati gialli, di schettini e schettine) vada in galera dopo il disastro cui ha portato la nave governando da solo e senza ascoltare alcuno, non che la nave sia preservata col concorso di tutti.
Dopo anni di culto della personalità, di leaderismo, di pseudo-decisionismo – giunti al culmine quando il 40% del 52% dei votanti (cioè il 21% scarso dell’elettorato) è stato spacciato per voto plebiscitario –, dopo tanti anni si affaccia sulla scena politica un movimento di lotta che non vuole essere governato, perché si sente legittimato a governarsi da sé. E perché mai non dovrebbe poterlo fare? Sugli insegnanti è stato scaricato da decenni l’intero peso della gestione senza mezzi e risorse adeguate della scuola di massa, e poi di tagli e costi dell’istruzione; gli insegnanti hanno dimostrato, in questi anni, di saper dire non solo i giusti NO, ma (con buona pace di chi, per malafede o ignoranza, parla di «assenza di proposta costruttiva»8, di articolare analisi critiche – ad esempio sulla valutazione, ad altezze teoriche rilevanti 9 – e addirittura una proposta di Legge di Iniziativa Popolare: perché mai non dovrebbero co-gestire la scuola? Perché mai autonomia non dovrebbe essere sinonimo di autogestione?
La protesta dei governati resistenti della scuola è indice di un legittimo desiderio di non essere governati, o essere governati il meno possibile.
Resta che per la prima volta dopo molti anni un movimento di protesta sociale ha avuto la capacità di mettere in discussione anche gli equilibri parlamentari: che, se non era il suo scopo principale, è però segno della sua forza. Vada come vada, chi oggi si oppone moderatamente sarà costretto a scegliere tra smettere di opporsi e rientrare nei ranghi (magari attraverso una poltrona governativa: scommettiamo che il nervosismo di Giannini deriva dai rumors che circolano nei corridoi?), e opporsi fino in fondo, arrivando alla rottura con la maggioranza.
E, per la prima volta, la strategia mediatica di Renzi ha fatto flop: la sua lezione alla lavagna è stata un clamoroso doppio autogol degno di Comunardo Niccolai – che però aveva a sua discolpa un bellissimo nome, e al fianco un allenatore-filosofo e il compagno Gigi Riva. In primo luogo, come ha evidenziato nella sua analisi Giovanna Cosenza, Renzi ha sbagliato a usare la lavagna:
«1. Mettendosi alla lavagna, Renzi fa come se fosse un insegnante, si mette al posto degli insegnanti. Se io fossi una insegnante di scuola, penserei: come si permette? Oppure: mi sta prendendo in giro? Sta scimmiottando il mio lavoro?
2. Mettendosi alla lavagna, cioè nella posizione del maestro o del professore di scuola, Renzi si mette up e colloca il suo uditorio – gli insegnanti – down. Lui sopra, gli insegnanti sotto, lui con più autorità e autorevolezza, gli insegnanti con meno. In una situazione in cui – è Renzi stesso a dirlo nel video – bisogna restituire autorità e autorevolezza agli insegnanti, bisogna tornare a quando le famiglie li collocavano allo stesso livello dei notabili del paese, trattarli invece come scolaretti non è certo un bel modo per fare il primo passo nel lavoro di restituzione.
3. Mettendosi alla lavagna per dare una spiegazione, è come se Renzi ribadisse – ancora! – il concetto che i vari rappresentanti del suo governo hanno ripetuto come un mantra nei giorni scorsi: gli insegnanti non capiscono, non hanno capito la riforma, non capiscono le buone intenzioni del governo, non capiscono Renzi. Non capiscono, punto. E allora io mi metto alla lavagna – implica Renzi – con la santa pazienza del maestro di fronte agli allievi più zucconi, e glielo rispiego.
4. Usando una lavagna “all’antica” (non una LIM e nemmeno una lavagna a fogli mobili), Renzi – che da sempre si vuole innovatore, rottamatore, digitale e twittatore – implica che il suo uditorio sia all’antica e che lui vi si adatti. Doppiamente sbagliato: da un lato conferma nella posizione rétro gli insegnanti che stentano a usare strumenti più innovativi, dall’altro non riconosce gli insegnanti più digitalizzati e connessi (che ci sono, eccome).»
In secondo luogo, ha dato modo agli insegnanti di rispondergli mettendosi al suo stesso livello: e la lavagna e le parole e le telecamere gli insegnanti (e anche gli studenti) hanno dimostrato di saperle usare bene:

Se il video di Giovanni Cocchi vi sembra troppo lungo (perché ci vogliono tempo e pazienza, per parlare di cose serie come il futuro di una generazione: non si può sempre andar correndo da uno spot all’altro, come Raffaella Paita in Liguria), ascoltate almeno le ultime parole (dal minuto 23:55):
«Se passa questo, la cosa inevitabile è che ci saranno molte scuole private, poche scuole bellissime nei centri storici di alcune grandi città, molte scuole brutte e povere nelle periferie. E succederà quello che avevamo superato da decenni, quello che diceva don Milani: e cioè che il figlio del dottore farà il dottore, il figlio dell’operaio o dell’impiegato farà l’operaio o l’impiegato. È un salto all’indietro mostruoso».
Quello che diceva don Milani… Il nobile Renzi diceva invece, elogiando Paola Mastrocola, che bisogna mettere in discussione modelli come don Milani e Gianni Rodari. E il nobile Renzi è uomo d’onore…
sally
3. La morale della storia
Quando tutto sembrava perduto, ai diversi rimasti (o ai “rimasti diversi”, come gli piaceva farsi chiamare) venne un’idea: quella di mettere insieme quel poco che era restato.
Ognuno avrebbe dovuto mettere un po’ del suo “SO” per tentare di ricostruire faticosamente la SCUOLA.
“È un’idea SOvversiva”, replicò qualcuno; ma tutti gli altri accettarono ed iniziarono a condividere.
SOggetto”, disse uno.
SOcializzare”, continuò un altro.
SOlidarietà”, aggiunse un terzo.
SOrpresa, SOstenere, SOrgente, SOrridere, SOstanza, SOluzione, SOgno”, dissero in rapida successione i diversi rimasti.
Dopo le parole vennero le idee e dopo le idee arrivò anche la consapevolezza che per ricostruire sarebbe servito tempo.
Però la motivazione e l’energia non gli mancava di certo
Fu proprio comprendendo che il mettere insieme può diventare una moltiplicazione di saperi e di speranze, che i diversi rimasti iniziarono a riprendersi, ad una ad una, le vocali e le consonanti.
Le prime furono la U di Unire e la L di Linguaggi.
I diversi rimasti avevano messo insieme il SO superstite, la U e la L ed avevano, lentamente e faticosamente, composto: SOUL (anima).
Ora erano davvero sicuri che quella era la strada giusta per andare a… SCUOLA.

(*) Il contributo di Carmelo Palladino è tratto da un testo (La favola dell’autonomia) di prossima pubblicazione, quello di Mauro Presini da L’anima della scuola (15 settembre 2013).

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