“L'Agenda Fassina non è scritta da
nessuna parte, mentre da tempo il PD ha la sua che è in rete e tutto sommato
non è così diversa da quella del premier”.
Massimo Mucchetti, Corriere della
sera, 31 dicembre 12.
Un progetto per la società italiana da sottoporre
agli elettori non si misura a numero di pagine, come nella patetica esperienza
delle 252 pagine del programma dell’Unione guidata da Prodi nel 2006, ma in una
chiara ispirazione di fondo sul dove si intenda guidare la società italiana. Si
vota, credo, fondamentalmente su temi economici - che tipo di economia
desideriamo - e diritti civili – quali relazioni sociali desideriamo. Con buona pace di tanti bei discorsi, la drammaticità della crisi
rende l’economia prioritaria. Inoltre,
diciamocelo chiaramente, il secondo tema non pone tanto sfide intellettuali, quanto
piuttosto indignazione nell’incontrare pregiudizi e intolleranze. Una sinistra
pigra intellettualmente – il che è una scelta politica – fa però talvolta dei
secondi il terreno privilegiato, dimenticando che una società in cui sono
assicurati i diritti sociali, lavoro e reddito, fa da base a un’evoluzione
positiva in senso libertario.
La sinistra si confronta con il
disegno di Monti, il quale ha certamente una visione di fondo per l’economia
italiana che è poi quella tradizionale della borghesia liberale italiana (su
cui si veda Fernando Vianello, Lo sviluppo capitalistico italiano
dal dopoguerra al «miracolo economico»: una veduta di insieme, in Il profitto e il potere, Torino 1979). Tale disegno è stato perseguito in maniera cialtronesca da Berlusconi
- a cui le classi dominanti italiane si sono affidate per un ventennio,
sostituendo il coagulo di consenso popolare rappresentato dalla DC con quello
televisivo del Cavaliere (che ora gli è però sfuggito di controllo). E’ con
questo disegno che la sinistra si deve confrontare.[1]
Il
disegno della borghesia italiana
Le classi dominanti italiane muovono dalla
tradizionale constatazione che il paese è privo di materie prime e risorse
naturali esportabili, è tecnologicamente di seconda linea e soffre di eccesso
di manodopera (nonostante il calo demografico ampiamente compensato, peraltro,
da un’ampia tolleranza verso i flussi migratori, altro cavallo di battaglia
della sinistra nostrale). Se ne deduce che la crescita italiana dipende
fondamentalmente dal generare un flusso di esportazioni sufficiente a
finanziare le importazioni di energia, materie prime e tecnologia comprimendo
salari e domanda interna. La disponibilità dei mercati internazionali in una condizione
di disciplina sindacale, con la Fiom fuori dai cancelli tanto per capirci, avrebbe
consentito al paese uno sviluppo di questo tipo, il miracolo economico a
cavallo degli anni 1950 e ’60. Nei fatti, la crescente conflittualità suscitata
dalla tradizionale assenza di lungimiranza sociale della borghesia italiana,
oltre alla sua incapacità a far compiere un salto tecnologico ulteriore alle
produzioni nostrane, hanno messo successivamente in crisi tale modello
liberista ed “export-led”. In seguito, la mediazione al conflitto operata dallo
Stato attraverso un, ahimè, spesso distorto
della spesa pubblica ha gravato nel tempo il sistema con un’alta e mal
distribuita imposizione fiscale e servizi pubblici spesso inefficienti. Il
connubio di inflazione e svalutazione del cambio avevano reso possibile negli
anni 1970 e ’80 la sostenibilità di tale modello. Il combinato disposto della
tolleranza per l’evasione fiscale e degli alti tassi di interesse per tenere
l’Italia nel Sistema Monetario Europeo (1979-1992) fecero successivamente
esplodere il debito pubblico. Dopo il tentativo dello SME, la moneta unica ha
rappresentato per la borghesia italiana (o per parte di essa) il tentativo
ultimo di imporre al paese la disciplina del paese europeo più virtuoso.
Dopo che i bassi tassi di interesse sul debito
pubblico hanno consentito fra il 1999 al 2008 di mascherare i problemi – così riprende
il ragionamento implicito nel disegno Monti – con la crisi i nodi sono venuti
al pettine e ineludibili le scelte imposte dalla moneta unica. Non rimane al
paese che sottoporsi a una cura da cavallo: realizzare il pareggio di bilancio con
avanzi primari (al netto del pagamento degli interessi) tali da ridurre il debito
pubblico; liberalizzare il mercato del lavoro e rendere quanto più flessibile
l’uso del lavoro riducendo i salari e accrescendo la produttività;
liberalizzare e privatizzare quanto è possibile (inclusi istruzione, sanità e
pensioni) per ridurre la spesa pubblica; contenere l’invadenza dello Stato e recuperare
efficienza. Tutto ciò consentirebbe di riguadagnare credibilità di fronte ai
mercati, con conseguente riduzione dei tassi di interesse, e competitività
esterna confidando che questa funga da traino a un po’ di ripresa.
Si tratta di idee semplici e non nuove nei
riguardi dei destini dell’economia italiana (rimando di nuovo a Vianello, cit.).
Si tratta di posizioni che ripropongono una borghesia italiana retriva,
incapace di una visione progressiva della società italiana in senso inclusivo
di vaste masse di popolazione, sempre volta alla difesa dei propri privilegi.
Nei salari è visto il nemico ultimo dello sviluppo, e non nella propria
incapacità a perseguire un processo di sviluppo moderno e tecnologicamente
avanzato. Sebbene qualcosa Monti abbia espresso nei confronti dell’evasione
fiscale – gli va dato atto della felice frase che chi evade mette le mani nelle
tasche di altri italiani – poco si dice dei ceti parassitari che si annidano
nel lavoro autonomo e a vari livelli della pubblica amministrazione, i topi nel
formaggio di Labiniana memoria. Si tratta da ultimo di un modello da
neo-mercantilismo Einaudiano di serie B – in quanto non sorretto dalle
istituzioni che puntellano quello tedesco: consenso di sindacati forti, uno
stato lungimirante e paternalista che investe nel benessere sociale, in ricerca
e istruzione. Anzi, proprio queste istituzioni il Montismo vuole demolire
rivelando la sua pochezza. Altro che Economia Sociale di Mercato,[2]
liberismo Manchesteriano sarebbe un termine più proprio ( come suggerisce l’approvazione
di Marchionne). La visione dell’Europa che tale modello presuppone non è che la
proiezione di quello nazionale. Lo sviluppo europeo non si basa sullo sviluppo
del mercato interno sostenuto da livelli crescenti di benessere, ma si affiderà
al traino delle economie emergenti. In quest’ambito l’Italia delegherà la
ripresa a un po’ di subfornitura verso l’economia tedesca – per quanto
consentito dalla concorrenza ai paesi dell’est europeo ed emergenti - e ai
mercati extra-europei. Lo sviluppo di politiche europee, fiscali, monetarie e
distributive, concertate e volte al sostegno della domanda interna sono
estranee all’agenda Monti in quanto potrebbero allentare il rigore necessario
alla definitiva cancellazione delle incrostazioni istituzionali che impediscono
uno sviluppo liberale e liberista della società italiana (i famosi “lacci e
lacciuoli” cari a Guido Carli). Alla Germania tutto questo va bene in quanto
disinteressata a un’Europa progressiva, quanto piuttosto volta a perseguire il
ruolo di Svizzera dei mercati globali con un retroterra europeo che le funga da
bacino di manodopera a buon prezzo e da mercato residuale.
Si tratta dunque, come s’è detto, di un progetto
che, se non nuovo, è ben chiaro. Non lo deve naturalmente essere per gli
elettori – e infatti esso non viene con questa chiarezza esplicitato essendo la
presa elettorale del centro pro-Montiano già alquanto debole. Il punto è che
Monti sa bene dove andare, mentre la copertura dei poteri forti cattolici,
interessati allo sviluppo del terzo settore in luogo dello stato sociale, gli
offre la copertura di un ambiguo messaggio sociale. Non sappiamo se l’esito
elettorale darà a Monti i numeri per rendere la sua presenza in una coalizione
di centro-sinistra indispensabile. Indipendentemente da questo, cioè persino se
il centro-sinistra avesse i numeri per governare (e il fegato per farlo),
dispone esso di un disegno veramente alternativo a quello sopra delineato?
L’introvabile
Agenda rossa
Se si cercasse un’Agenda Bersani ci si troverebbe in difficoltà, pochi
slogan, vaghe interviste. Sarebbe ingeneroso naturalmente non riconoscere che
v’è in Bersani una qualche consapevolezza che senza un’Europa diversa ben poco
il nostro paese può fare. “La riscossa dell’Italia passa anche per il rilancio
del progetto europeo. Ma con un’agenda diversa. Austerità ed equilibrio dei
conti pubblici sono concetti privi di significato senza occupazione,
investimenti, ricerca e formazione. Per salvare l’Europa è necessario
coordinare le politiche economiche e fiscali attraverso istituzioni comuni
direttamente legittimate dalla popolazione tramite lezioni”, leggiamo nel
programma di Bersani per le primarie. La sensazione è che il PD affidi molte
speranze a una lenta evoluzione del quadro europeo che, sotto i colpi della
crisi e per effetto dell’avanzamento dei partiti socialisti muti seppur a
piccoli passi le proprie politiche.
Purtroppo tale quadro è poco promettente. Tamponata in qualche modo la questione
greca (anche con costi per il nostro bilancio pubblico e a favore dei creditori
tedeschi), l’Europa non ha in campo alcuna seria politica per risolvere la
crisi. L’accordo per la supervisione dei sistemi bancari non sembra contemplare
né per il presente né per il futuro i necessari meccanismi di risoluzione delle
crisi bancarie, limitandosi a una maggiore vigilanza. Ma senza la risoluzione
della crisi bancaria, la Spagna mai potrà dirsi fuori dai problemi. Il pur
evanescente progetto di un bilancio europeo volto a sostenere gli stati in
difficoltà è stato accantonato a data da destinarsi per il timore tedesco che
potesse evolvere in un secondo momento in qualcosa di più serio. Soprattutto,
di un ruolo attivo della BCE a sostegno dei debiti sovrani, evocato da fior di
economisti, neppure più si parla. E dovrebbe essere ricordato come
quell’intervento ci era stato implicitamente promesso in cambio dell’austerità
Napolitano-Monti. Certo, rimane in campo la proposta di Draghi di un intervento
della BCE a ridurre i tassi, almeno in una certa misura, in cambio di una
definitiva cessione di autorità fiscale a Bruxelles. L’Italia sembra per il
momento contenta di aver ottenuto una riduzione degli spread per il solo
effetto annuncio, e la Spagna spera lo stesso, sforzandosi entrambi di
auto-infliggersi l’austerità facendo finta che sia una scelta sovrana. Ci si
continua così a muovere in una logica di austerità nei conti pubblici che non
potrà che continuare a determinare tassi di crescita negativi in una logica di
cui non si vede la fine. Il vero deus ex
machina a cui ci si affida è una ripresa dell’economia mondiale tale da
trascinare l’Europa, soprattutto i tedeschi, ma un pochino anche gli altri. Il
problema è che l’austerità europea può rivelarsi come d’ostacolo o
mortificazione della ripresa globale, testimoniando la dimensione globale dell’irresponsabilità
del suo paese leader e di chi non gli si oppone con autorità, e comunque essere
insufficiente per il nostro paese. I sintomi di una guerra valutaria possono
esser visti come un areazione dei partner globali alle politiche deflative
europee. E u euro forte allontana definitivamente le speranze di una ripresa
guidata dalla domanda extra-europea.
Pure le speranze riposte nel
socialismo europeo appaiono un wishful
thinking. Hollande si è rivelato, secondo le attese dei più avveduti, un
flop. La Germania non ha per ora l’interesse ad affondare la Francia – se ciò
accadesse allora sarebbe davvero la fine di questa
Europa. Hollande lo sa e tira a campare. Le chances
di vittoria di una coalizione rosso-verde in Germania sono scarse, e in luogo
di una Grosse Koalition CDU-SPD non è da escluderne una CDU-Grüne, e tutte non
promettenti. Sicché del verificarsi di un mutamento significativo delle
politiche tedesche ne dubitiamo assai. La speranza dunque che l’Europa seppur
lentamente evolva verso la creazione di quelle istituzioni che solo possono far
sopravvivere una moneta unica senza comportare una strutturale tendenza alla
depressione sono assai flebili. In verità nulle, poiché la dimensione di un
bilancio federale volto a riaggiustare gli squilibri infra-Eurozona è
inaccettabile alla Germania. E purtroppo anche soluzioni meno estreme - quali politiche fiscali, monetarie e
distributive volte a sostenere la ripresa sono - come s’è detto, fuori del
radar di Berlino. Come si deduce da un’intervista del dicembre scorso di
Bersani al Financial Times, il
segretario del PD sembra affidare le speranze di indurre un mutamento di
opinione tedesco alla promessa di non deflettere di una virgola dagli impegni
già sottoscritti dal nostro paese e facendosi aperto sostenitore degli accenni
tedeschi a un super-commissario europeo con poteri sui bilanci pubblici
nazionali, ritenendo che questo possa smuovere Berlino verso un allentamento
delle politiche di austerità, o progetti di investimento europei, come
ripetutamente suggerito anche da Fassina (qui su l’Unità del 27 dicembre):
“il rispetto degli impegni
sottoscritti come condizione politica per arrivare alla Fiscal union da
consolidare intorno a un super-commissario europeo al fine di attuare politiche
di bilancio anti-cicliche, introdurre euro- project bonds per investimenti
innovativi per la green economy e green society (Keynes e Schumpeter insieme) e
correzioni simmetriche delle politiche economiche nazionali.”
A noi sembra che tale prospettiva sia
vaga e inadeguata rispetto alla drammaticità della situazione, oltre che
anti-democratica. Essa ripete lo schema Napolitano-Monti dei compiti a casa in
cambio di vaghe aspirazioni non condivise, peraltro, dalla controparte
euro-tedesca. Più in generale essa riproduce la tradizionale politica del PCI
dei sacrifici della classe lavoratrice volti a guadagnarsi l’improbabile
benevolenza dell’avversario. In definitiva ben si può dire che al PD e ai suoi
alleati manchi un progetto chiaro per un’Europa diversa su cui aprire un fronte
di trattativa in Europa. Timidezza politica e debolezza intellettuale si
sommano e alimentano vicendevolmente nel determinare questa situazione. Eppure
le posizioni espresse da molti “autorevoli” economisti europei e americani, le
autocritiche del FMI sugli effetti nefasti delle politiche di austerità, il j’accuse di Jean-Claude Juncker alla
devastazione che le politiche che il nord europeo impone sul sud aprono praterie
per posizioni più coraggiose.
Togli qui e metti lì: l’equa austerità
Accanto all’attesa piuttosto passiva
di un remoto “Sol dell’avvenir” europeo, il secondo asse del PD appare il perseguimento
di una re-distribuzione delle “risorse esistenti”
in maniera più equa e per la crescita, insomma un’equa austerità. Il problema è
che l’austerità quelle risorse sta facendo scemare, e il paese sta regredendo
non di anni, ma di decenni. Quindi per quanto si possano far sforzi per una
distribuzione delle risorse più equa – di cui non si nega la necessità,
naturalmente - essi non sono tali ora da compensare neppure lontanamente la
sciagura dell’austerità e, come problema più di lungo periodo, di un’Europa
monetaria mal congeniata, su cui fra poco torneremo. Solo in un ambito di
crescita europeo, e con un’azione riformista - in senso tradizionalmente
socialdemocratico e non Montiano - si può operare nella direzione della crescita.
Azioni concrete possono e devono essere svolte, come un aumento della
progressività del prelievo fiscale, soprattutto con riguardo ai redditi più
elevati, mentre ora si sta andando verso una direzione opposta con meno Irpef e
più Iva. Così come va perseguita la lotta all’evasione fiscale pur evitando
toni da giustizialismo economico. Questo si applica anche al discorso sulla
patrimoniale che è assai complesso e va visto come una maniera di combattere
l’evasione considerando i grandi patrimoni come indicatori di capacità
reddituale. La caccia ai redditi illegalmente detenuti all’estero è pure lavoro
di lunga lena.[3] Che tutto questo e un po’ di buongoverno possa bastare,
ammesso che se ne sia capaci, senza una ripresa europea è però una mera
illusione. Assolutamente necessario, ma non sufficiente.
E’
maledettamente difficile
Siamo consapevoli che la situazione del paese e
del quadro europeo sia maledettamente difficile. Il primo passo è però dirsi la
verità, e questo richiede anche guardare al passato includendovi le proprie
responsabilità. Sottolineiamo qui due aspetti.
In primo luogo, siamo in un’Europa che è nata monca
delle istituzioni volte a farla funzionare nella direzione di una crescita
equilibrata fra le sue diverse regioni, in particolare un significativo
bilancio federale - l’attuale bilancio europeo è un ridicolo 1% del PIL
dell’Unione. Tale mancanza non è stata casuale, ma frutto di un patto scellerato
fra i paesi europei. Da un lato i ceti dominanti di quelli con tendenziale
maggiore conflitto sociale erano interessati all’istituzione di una sorta di
“gold standard”, quale nei fatti è la moneta unica, nel quale ciascun paese
deve allineare la propria inflazione a quella del paese più virtuoso pena la
perdita di competitività. Dall’altro la Germania e i suoi satelliti non erano
certi interessati ad abbandonare la propria disciplina sociale base di un
modello guidato dalle esportazioni a favore di uno in cui la domanda interna fungesse
da traino all’economia europea. E tantomeno interessate a un bilancio federale
che, attraverso cospicui trasferimenti, compensasse il loro vantaggio competitivo
verso i paesi periferici. La sinistra italiana è stata strumento di questo
disegno europeo, lasciandosi ispirare dai Ciampi e dai Padoa-Schioppa. Sarebbe
ora di riconoscere gli errori e tracciare le linee di una nuova Europa, sulla
cui base impostare con autorevolezza la trattativa europea alla luce delle
devastazioni progressive dell’austerità.
In secondo luogo, il fatto che i riferimenti
politico-economici del PCI-PDS-DS-PD siano costantemente stati di formazione liberista,
certamente assai poco keynesiani, dovrebbe essere elemento di riflessione.
Crediamo che l’idea che la crescita sia
fondamentalmente guidata dalla domanda aggregata, e con un forte ruolo pubblico
nell’attrezzare la capacità produttiva a rispondervi, sia ancora poco digerito
anche nella sinistra del PD. Al riguardo, non possiamo che rimandare a un
volume a noi caro di Paggi e D’Angelillo (I
comunisti italiani e il riformismo, Torino 1986). La parte maggioritaria
della sinistra italiana, e in particolare la sua influente componente Amendoliana,
avrebbe sempre visto la spesa pubblica,
gli avanzamenti dei ceti popolari, un regolato conflitto sociale piegato agli
interessi dei lavoratori non come l’essenza dell’autentico riformismo, ma come
sovversivi. La logica dei sacrifici è profondamente installata nella tradizione
maggioritaria della sinistra italiana, mentre i suoi economisti di riferimento,
ieri come oggi, non hanno sufficientemente rotto con la teoria economica prevalente
per cui hanno assecondato tale servitude
all’ideologia dominante. Senza un processo di profonda liberazione da queste
tare, non si va da nessuna parte poiché si è succubi dell’avversario. Nel corso
della crisi e dell’inazione europea gli economisti di riferimento del PD si sono
sempre mossi con ritardo nelle diagnosi, e con un ostentato ottimismo
(bicchieri sempre mezzi pieni) a fronte di misure europee che la migliore
stampa internazionale pur giudicava totalmente insufficienti. Non sembra che
SEL abbia peraltro ritenuto di portare in Parlamento nessun economista critico
e si sia attrezzata con una proposta economica organica.
Se per riformismo intendiamo – come si dovrebbe –
una prospettiva di grandi avanzamenti dei ceti popolari nel quadro di una’economia
di mercato regolata, allora la tradizione della componente maggioritaria della
sinistra italiana non è stata riformista. Sempre prendendo pillole del ben più
complesso ragionamento di Paggi e D’Angelillo, nell’Amendolismo la prospettiva
del socialismo reale come fine ultimo accompagnata all’idea dell’incompatibilità
fra l’avanzamento dei ceti popolari e l’economia di mercato rendeva la classe
operaia oggettivamente sovversiva, da
cui la richiesta di moderatismo, compatibilità, difesa degli “interessi
nazionali” per non provocare le classi dominanti sempre pronte, in Italia, a
violare la democrazia impedendo la prospettiva di lunga lena di una transizione
democratica al socialismo. Il fine ultimo del socialismo è ora caduto, ma il
resto è rimasto.
Siamo ben consapevoli che un’incompatibilità fra
capitalismo e conquiste durature dei ceti popolari esista - sebbene non della
natura individuata dalla tradizione amendoliana sopra (troppo poveramente) evocata.
Se da un lato, infatti, i consumi delle grandi masse possono sostenere la
domanda aggregata e dunque l’economia di mercato, questo dall’altro implica
minori profitti, mentre la piena occupazione determina indisciplina sociale.
Ecco dunque perché solo negli anni 1950 e 1960, di fronte alla sfida sovietica,
il capitalismo occidentale accettò un compromesso socialdemocratico a favore
delle classi lavoratrici. Sul finire degli anni 1970, con il venir meno della
sfida sovietica, ma pure con l’indebolimento della solidarietà di classe
portato del maggiore benessere, il capitalismo ha dismesso gli abiti
benevolenti, re-indossando quelli liberisti, una storia ben narrata dal
compianto Garegnani con alcuni suoi allievi su La Rivista del manifesto (marzo 2004) o da Massimo Pivetti
(“Capitalismo ‘incontrastato’ e benessere sociale: analisi di un
improbabile binomio, in Il futuro del
capitalismo, a cura di Bruno Jossa, Bologna, 2004). Sfida dunque ancor più dura: per alcuni non
c’è, infatti, più spazio per la socialdemocrazia. Per noi vale ancora la pena
battersi.
Il PD appare dunque ancora schiavo, da un lato,
dal vizio antico del PCI e del suo mancato Keynesismo riformista per cui gli
avanzamenti delle classi lavoratrici sono sovversivi dell’economia di mercato. Il
mancato superamento di questo punto di vista in direzione seriamente democratico-riformista
lascia il PD nella condizione che era del PCI di sentir di dover sempre
dimostrare a sua fedeltà all’economia di mercato sistematicamente accettando il
moderatismo economico (l’austerità) in cambio di nulla. L’illusione che, dall’altro, pur accettando
il quadro europeo si possa far meglio di Monti nella logica del buongoverno e dell’equa
austerità è illusorio: utili misure concrete possono certamente essere
adottate, ma mutare questo paese nella direzione di una più sana
amministrazione, società politica e società civile è obiettivo secolare, mentre
il flagello dell’austerità si misura in mesi. L’europeismo della sinistra
italiana si misura nel sostenere una ripresa concertata a livello europeo non
basata sul farsi le scarpe reciprocamente con la deflazione salariale – il che
sarebbe poi un gioco a somma zero – bensì sul sostegno alla domanda aggregata e
sui consumi dei lavoratori, soprattutto quelli collettivi ed ecologicamente
sostenibili. Se non coinvolgessero le vite nostre e soprattutto quelle dei
nostri figli, questi sono tempi interessanti. L’auspicio è che a fronte delle
scelte difficili che il possibile governo a maggioranza centro-sinistra si
troverà ben presto ad affrontare, la componente più sensibile del PD,
identificata con Stefano Fassina, dia battaglia politica su posizioni più organiche
e avanzate le quali sono sostenute da autorevoli economisti internazionali e,
in Italia, sopratutto dagli economisti critici.
* Versione rivista
dell’originale pubblicato da Micromega
2-2013 col titolo “L’agenda che non c’è. Note sul programma del
centro-sinistra”.
[1] Fra le bugie riportate in questa Agenda, ci piace solo segnalare
l’attribuzione al governo Monti del calo “dal novembre 2011” dello spread “di oltre
250 punti”. Lo spread è calato dal settembre 2012, dopo ben un anno di Montismo
e per il solo effetto dell’annuncio di Draghi che avrebbe fatto ciò che fosse
stato necessario per salvare un euro che,
prima dell’estate, si dava per spacciato. L’annuncio si è concretizzato
in un piano di intervento della BCE che non si è mai materializzato, ma tale da
far cadere gli spread di almeno 150 punti. Ciò dimostrò, a chi avesse voluto
vedere, che i tassi di interesse li fanno le banche centrali e non i mercati, a
meno che vengano lasciati fare, come accade in Europa. Il resto del calo degli spread che si è
verificato poco prima della fine del governo Monti è stato il risultato di un
temporaneo allentamento delle tensioni sulla Grecia.
[2] Si badi a non confondere Socialdemocrazia con “Economia sociale di
mercato”. La prima trova dopotutto la propria ispirazione nella visione
conflittuale del capitalismo propria del marxismo, mentre la seconda
espressione è sinonimo di “Ordo-liberismo”, una filosofia economica volta a
tollerare la presenza sindacati nella misura in cui assecondino le istituzioni
del libero mercato, e fondamentalmente basata sulla teoria economica dominante.
[3] Il più impegnativo documento economico del PD presentato nel marzo 2011 è
stato commentato sulla rivista on line Economia
& Politica sia da me che da Antonella Stirati. A questi articoli
rimando per una più dettagliata disamina di altre proposte del PD. Queste
appaiono soprattutto concentrarsi sul “lato dell’offerta”, come l’idea di
sostenere l’offerta di lavoro femminile quando problema è invece chiaramente
quella scarsità di domanda di lavoro tout court. Questo a ribadire lo stentato
Keynesismo del PD di cui si dirà dopo.
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