È il paradosso della civiltà. Un paio di giorni fa Massimo Salvadori su
la Repubblica ha usato questa elegante formula: il Pd, ha scritto,
«deve far fronte anche al leader di una Rivoluzione civile che rischia
di fare da battistrada a una restaurazione incivile». È un classico:
nel nome della civiltà si insulta chi si ostina a esistere con la
propria identità. Nella fattispecie, una forza politica rea di non
scomparire a vantaggio di un'altra che, sino a prova del contrario,
dice e vuole cose diverse.
D'altra parte non sarebbe giusto dare tutta la colpa a Salvadori e alla corazzata scalfariana che da settimane martella sul voto «utile». Se anche stavolta la contesa elettorale si è ridotta a questo, la ragione è, come si dice, sistemica. Chiama in causa le famigerate riforme istituzionali degli anni Novanta che hanno incapacitato la Costituzione deformando in senso bipolare il sistema della rappresentanza, scippando la sovranità al parlamento e restituendo lo scettro all'esecutivo. Uno scettro alquanto tarlato, visto che l'agenda politica viene scritta tra Bruxelles, Francoforte e Wall Street. Ma pur sempre un venerabile segno di comando.
A proposito di bipolarismo, un'altra perla fresca di giornata è l'affettuosa recensione che Michele Salvati ha dedicato sul Corriere della Sera all'ultimo libro di Antonio Polito. Un pretesto per ribadire quanto Salvati viene ripetendo da un quarto di secolo, dacché si agitava, giovane leone migliorista, per lo sbaraccamento del Pci. Da allora la sua stella polare è la normalizzazione del paese nel senso dalemiano del concetto. Ancora di questo si tratta: di «fare dell'Italia un paese con una sinistra e una destra europee, sui modelli della Spd e della Cdu tedesche», una destra e una sinistra che, monopoliste del gioco politico, «danno vita a una dialettica democratica efficace e progressiva».
Ognuno, va da sé, ha diritto alle proprie credenze e ai propri miti. Ma in questo ragionamento colpisce sempre di nuovo la logica - o la retorica - dell'argomentazione. Oggi, bontà sua, Salvati riconosce che il bipolarismo italiano è un vero disastro. Ma siccome resta legato all'idea, incolpa la sua realizzazione. E ne considera responsabili non già quelle sciagurate riforme bensì l'assetto politico «anomalo» della cosiddetta "prima repubblica", viziato dall'ingombrante presenza di «un grande partito antisistema», il Pci. Quel «grande partito» non c'è più da oltre vent'anni, chi lo rottamò si è variamente accordato col capo della parte avversa (per esplicita ammissione dell'on. Violante), ma il professor Salvati ancora ci racconta che se siamo in questo marasma è per sua responsabilità. Pare di sentire il professor Salvadori: la colpa del Pci è stata di esistere, disturbando le utopie anglofile di qualche economista. E se invece il baco stesse proprio nel bipolarismo? Se fosse falsa l'ipotesi di partenza? Se il ragionamento di Salvati si rivelasse basato su un dogma? L'idea è che un buon bipolarismo - meglio ancora, un sistema bipartitico - favorirebbe una competizione basata su programmi alternativi chiari e coerenti, imporrebbe alle forze in gioco di mantenere le promesse fatte all'elettorato e consentirebbe a quest'ultimo di valutarne i comportamenti con cognizione di causa. Ed ecco assicurata quella «dialettica democratica efficace e progressiva» che Salvati vagheggia. Senonché, a parte il fatto che per realizzare il bipartitismo in un paese come il nostro occorrerebbero vincoli che di democratico non avrebbero nemmeno il nome (ragion per cui non c'è mai stata tanta frammentazione come dopo l'introduzione del maggioritario), in realtà l'unica cosa che il bipolarismo garantisce è la convergenza al centro di entrambi i poli. La loro sostanziale confusione sul piano programmatico. E la conseguente riduzione della «dialettica democratica» a un confronto tra interpretazioni di un medesimo progetto. Salvati evoca l'esempio della Germania e potrebbe altrettanto bene rifarsi al caso inglese. Socialdemocratici e laburisti non si oppongono alle forze conservatrici perché perseguono un altro modello sociale ma per il modo in cui queste amministrano il modello esistente. Blair e Schroeder furono convinti alfieri del neoliberismo e non per caso in Germania come in Inghilterra la politica somiglia sempre più all'amministrazione, viene riducendosi, come negli Stati uniti, a pura governance . Se è questo che si vuole perché allora non dirlo? Per il semplice fatto che bisognerebbe poi discutere su ciò che questo schema implica sul terreno politico. E cioè l'affermarsi, sotto mentite spoglie, di un Grande Centro, egemone in tutti e due gli schieramenti e dotato di un elevato potere di ricatto su ciascuno di essi. Nonché, per conseguenza, la marginalizzazione politica del lavoro dipendente, di fatto privato di rappresentanza.
Anche il bipolarismo, come la civiltà, ha dunque il suo bravo paradosso: la bipartizione della rappresentanza stabilizza in realtà il potere del centro, equamente distribuito tra i due poli. Garantisce la continuità della sua egemonia, dissimulata dall'alternanza della leadership (e da una rissa perpetua sul nulla). E mette al sicuro la netta prevalenza delle cosiddette forze moderate, garanti degli interessi forti della tecnocrazia, dell' establishment economicofinanziario e dei centri occulti del potere politico (tra i quali spicca, in Italia, la Chiesa cattolica). Insomma, il bipolarismo è il trionfo della palude. Di palude ha parlato Nichi Vendola, allarmato per la deriva centrista dell'alleato. A ragione Vendola ne additava il portabandiera in Monti. Solo che questo discorso sembra fermarsi a metà, come se Vendola vedesse la conseguenza ma si rifiutasse di guardare in faccia l a causa. Se Monti esercita tanto potere di attrazione sul Pd non è, come si dice, perchè non c'è più il bipolarismo, ma, al contrario, perché il bipolarismo è ancora forte e ingabbia il Pd. Se Bersani è costretto a un defatigante strabismo non è perché è indeciso per natura, ma perché continua a muoversi dentro lo schema bipolare. Se questo è vero, suggeriamo a Vendola di guardare più lontano. Può darsi che l'ingresso in campo del terzo polo possa sortire, nonostante tutto, qualche effetto positivo, minacciando di far saltare in aria un assetto che ha sin qui imprigionato la politica italiana.
In questione non è tanto il peso politico del centro, ma il grado della sua riconoscibilità. Fintantoché reggerà la finzione bipolare, all'illusione che il centro sia ininfluente corrisponderà nei fatti il suo potere occulto e quindi incontrastato. Se invece il centro tornerà a giocare a carte scoperte, non per questo diverrà ininfluente, ma imporrà alle altre forze di rendersene autonome. E allora forse comincerà un processo di riorganizzazione del quadro politico senza il quale l'idea di una grande sinistra resterà un semplice miraggio.
D'altra parte non sarebbe giusto dare tutta la colpa a Salvadori e alla corazzata scalfariana che da settimane martella sul voto «utile». Se anche stavolta la contesa elettorale si è ridotta a questo, la ragione è, come si dice, sistemica. Chiama in causa le famigerate riforme istituzionali degli anni Novanta che hanno incapacitato la Costituzione deformando in senso bipolare il sistema della rappresentanza, scippando la sovranità al parlamento e restituendo lo scettro all'esecutivo. Uno scettro alquanto tarlato, visto che l'agenda politica viene scritta tra Bruxelles, Francoforte e Wall Street. Ma pur sempre un venerabile segno di comando.
A proposito di bipolarismo, un'altra perla fresca di giornata è l'affettuosa recensione che Michele Salvati ha dedicato sul Corriere della Sera all'ultimo libro di Antonio Polito. Un pretesto per ribadire quanto Salvati viene ripetendo da un quarto di secolo, dacché si agitava, giovane leone migliorista, per lo sbaraccamento del Pci. Da allora la sua stella polare è la normalizzazione del paese nel senso dalemiano del concetto. Ancora di questo si tratta: di «fare dell'Italia un paese con una sinistra e una destra europee, sui modelli della Spd e della Cdu tedesche», una destra e una sinistra che, monopoliste del gioco politico, «danno vita a una dialettica democratica efficace e progressiva».
Ognuno, va da sé, ha diritto alle proprie credenze e ai propri miti. Ma in questo ragionamento colpisce sempre di nuovo la logica - o la retorica - dell'argomentazione. Oggi, bontà sua, Salvati riconosce che il bipolarismo italiano è un vero disastro. Ma siccome resta legato all'idea, incolpa la sua realizzazione. E ne considera responsabili non già quelle sciagurate riforme bensì l'assetto politico «anomalo» della cosiddetta "prima repubblica", viziato dall'ingombrante presenza di «un grande partito antisistema», il Pci. Quel «grande partito» non c'è più da oltre vent'anni, chi lo rottamò si è variamente accordato col capo della parte avversa (per esplicita ammissione dell'on. Violante), ma il professor Salvati ancora ci racconta che se siamo in questo marasma è per sua responsabilità. Pare di sentire il professor Salvadori: la colpa del Pci è stata di esistere, disturbando le utopie anglofile di qualche economista. E se invece il baco stesse proprio nel bipolarismo? Se fosse falsa l'ipotesi di partenza? Se il ragionamento di Salvati si rivelasse basato su un dogma? L'idea è che un buon bipolarismo - meglio ancora, un sistema bipartitico - favorirebbe una competizione basata su programmi alternativi chiari e coerenti, imporrebbe alle forze in gioco di mantenere le promesse fatte all'elettorato e consentirebbe a quest'ultimo di valutarne i comportamenti con cognizione di causa. Ed ecco assicurata quella «dialettica democratica efficace e progressiva» che Salvati vagheggia. Senonché, a parte il fatto che per realizzare il bipartitismo in un paese come il nostro occorrerebbero vincoli che di democratico non avrebbero nemmeno il nome (ragion per cui non c'è mai stata tanta frammentazione come dopo l'introduzione del maggioritario), in realtà l'unica cosa che il bipolarismo garantisce è la convergenza al centro di entrambi i poli. La loro sostanziale confusione sul piano programmatico. E la conseguente riduzione della «dialettica democratica» a un confronto tra interpretazioni di un medesimo progetto. Salvati evoca l'esempio della Germania e potrebbe altrettanto bene rifarsi al caso inglese. Socialdemocratici e laburisti non si oppongono alle forze conservatrici perché perseguono un altro modello sociale ma per il modo in cui queste amministrano il modello esistente. Blair e Schroeder furono convinti alfieri del neoliberismo e non per caso in Germania come in Inghilterra la politica somiglia sempre più all'amministrazione, viene riducendosi, come negli Stati uniti, a pura governance . Se è questo che si vuole perché allora non dirlo? Per il semplice fatto che bisognerebbe poi discutere su ciò che questo schema implica sul terreno politico. E cioè l'affermarsi, sotto mentite spoglie, di un Grande Centro, egemone in tutti e due gli schieramenti e dotato di un elevato potere di ricatto su ciascuno di essi. Nonché, per conseguenza, la marginalizzazione politica del lavoro dipendente, di fatto privato di rappresentanza.
Anche il bipolarismo, come la civiltà, ha dunque il suo bravo paradosso: la bipartizione della rappresentanza stabilizza in realtà il potere del centro, equamente distribuito tra i due poli. Garantisce la continuità della sua egemonia, dissimulata dall'alternanza della leadership (e da una rissa perpetua sul nulla). E mette al sicuro la netta prevalenza delle cosiddette forze moderate, garanti degli interessi forti della tecnocrazia, dell' establishment economicofinanziario e dei centri occulti del potere politico (tra i quali spicca, in Italia, la Chiesa cattolica). Insomma, il bipolarismo è il trionfo della palude. Di palude ha parlato Nichi Vendola, allarmato per la deriva centrista dell'alleato. A ragione Vendola ne additava il portabandiera in Monti. Solo che questo discorso sembra fermarsi a metà, come se Vendola vedesse la conseguenza ma si rifiutasse di guardare in faccia l a causa. Se Monti esercita tanto potere di attrazione sul Pd non è, come si dice, perchè non c'è più il bipolarismo, ma, al contrario, perché il bipolarismo è ancora forte e ingabbia il Pd. Se Bersani è costretto a un defatigante strabismo non è perché è indeciso per natura, ma perché continua a muoversi dentro lo schema bipolare. Se questo è vero, suggeriamo a Vendola di guardare più lontano. Può darsi che l'ingresso in campo del terzo polo possa sortire, nonostante tutto, qualche effetto positivo, minacciando di far saltare in aria un assetto che ha sin qui imprigionato la politica italiana.
In questione non è tanto il peso politico del centro, ma il grado della sua riconoscibilità. Fintantoché reggerà la finzione bipolare, all'illusione che il centro sia ininfluente corrisponderà nei fatti il suo potere occulto e quindi incontrastato. Se invece il centro tornerà a giocare a carte scoperte, non per questo diverrà ininfluente, ma imporrà alle altre forze di rendersene autonome. E allora forse comincerà un processo di riorganizzazione del quadro politico senza il quale l'idea di una grande sinistra resterà un semplice miraggio.
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